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Autore Discussione: Maria Serena Palieri - Sidhwa: «Scrivo per aiutare il Pakistan e le donne»  (Letto 2799 volte)
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« inserito:: Novembre 25, 2007, 11:54:51 pm »

Sidhwa: «Scrivo per aiutare il Pakistan e le donne»

Maria Serena Palieri


Bapsi Sidhwa, classe 1938, è nata a Karachi, città che all’epoca apparteneva all’India britannica, da Peshotan e Talmina Bhandara. Bambina, con la famiglia si è trasferita a Lahore. E, ancora bambina, nel 1947, in quell’epocale tumulto che ha raccontato nel romanzo La spartizione del cuore, si è ritrovata a fare parte, in Pakistan, della minoranza parsi di culto zoorastriano, erede dell’emigrazione millennaria che aveva portato quelli che si professano discendenti dei Re Magi dalla Persia nel subcontinente indiano. Sposa giovanissima, madre di tre figli, nel 1975 è la rappresentante del suo Paese all’Asian Woman’s Congress, nel 1983 si trasferisce col marito a Houston e, dal 1992, è cittadina americana. Autrice di numerosi romanzi, di cui quattro tradotti in italiano - oltre alla Spartizione del cuore, Il talento dei parsi, La sposa pakistana e Acqua, tutti per Neri Pozza - e alcune opere teatrali, Bapsi Sidhwa, certo perché scrive in inglese e ci arriva via Stati Uniti, è stata tra le prime autrici grazie alle quali la nostra editoria ci ha aperto il mondo della narrativa che, con un’etichetta ormai largamente impropria, viene chiamata «post-coloniale». Ora, in settimane in cui il tormentato Pakistan è agli onori delle cronache, eccola a Palermo. È qui per il riconoscimento che la XXXIII edizione del Premio Mondello attribuisce ad Acqua: prendiamolo piuttosto come un premio alla carriera, perché questo testo è in fondo il meno provvisto del «Sidhwa touch», il talento cioè proprio di questa scrittrice di rendere con semplicità insieme aggraziata e adamantina la complessità culturale e psicologica del mondo di cui narra. Acqua è la trascrizione romanzesca di un’opera nata per lo schermo, il film Water diretto da Deepa Mehta, la cineasta che, seguendo un percorso più comune, aveva già volto in film, col titolo Earth, il romanzo La spartizione del cuore.

Bapsi Sidhwa è una signora dall’incarnato roseo, costretta - grazie alla perdita della valigia - ad affrontare la festa che le viene tributata con i sandali e la tuta indossati per il volo transoceanico. Non è la prima: il transito per Fiumicino ha già condannato altri scrittori convocati dal Mondello, premio attento all’Asia come all’Africa, ad atterrare a Palermo con i soli abiti che hanno indosso.

In «Acqua» lei racconta la storia di Chuyia, una bambina indiana concessa in sposa a sei anni e rimasta vedova a meno di nove. E perciò, in base alla tradizione hindi, condannata a vivere reclusa con altre vedove in un ashram, spogliata dei capelli e dei mezzi di sussistenza. Lei è parsi, zoorastriana e pakistana. Insomma, di un’altra cultura. È con interesse antropologico che ha affrontato la storia di Chuyia?
«In realtà questa tradizione che tocca le vedove è così forte, da noi, che ha permeato tutte le altre culture, zoorastriana, musulmana, cristiana. Quando mia figlia si è sposata, per esempio, mia madre è voluta rimanere in disparte, durante la cerimonia, perché, diceva, “sono vedova e perciò porto sfortuna”. Io per documentarmi sul perché e sul come di questa tradizione mi sono informata sia su internet, sia più comunemente visitando villaggi e ashram. Una tradizione che risulta particolarmente viva nelle famiglie sacerdotali, di bramini, e lì dove ci sono ricchezze, perché è un modo di derubare le donne della loro dote».

Nel suo romanzo compiuti i nove anni Chuyia viene avviata alla prostituzione. Oggi è in crescita il fenomeno del turismo sessuale verso l’Asia e il mercato dei bambini. Vuol dire che esso s’incrocia con una pedofilia lì istituzionalizzata?
«Se intende che fa parte di un bagaglio culturale, sì. Dove c’è povertà, in Sri Lanka, Thailandia, Goa, India, c’è prostituzione infantile. Anche gli uomini indiani ne vanno a caccia. La verginità è sempre stata apprezzata. Oggi c’è anche una scusa migliore: il bambino o la bambina, vergini, non contagiano l’Aids».

Nel 1947, a nove anni, lei ha vissuto i tragici eventi dell’indipendenza dell’India e della «spartizione». Cosa ricorda?
«Il ruggito della folla lontana, mi rimbombava nelle orecchie quel suono spaventoso. Solo molti anni dopo ho capito che erano slogan religiosi, scanditi mentre avvenivano cose terribili. Nel mio romanzo La spartizione del cuore la scena in cui Ayah viene rapita deriva dal ricordo d’una massa di persone entrata in casa nostra, convinte che fossimo una famiglia hindu, a causa del nostro cognome: mia madre uscì dalla porta tenendo per mano me e mio fratello e fu il nostro cuoco, musulmano, a salvarci apostrofando la folla “stupidi, cosa fate, questa è una dimora parsi”. C’erano roghi dappertutto. Ero per strada col nostro giardiniere quando vidi uno spettacolo di cui avrei capito il senso solo girando il film Earth con Deepa Mehta: inciampammo in un sacco e ne uscì il cadavere a metà di un giovane bello, dalle guance rosee, io, mi ricordo, pensai “che spreco…”, ma solamente quando sul set cercammo di riprodurre la scena capii che il sacco, di quel corpo, custodiva solo il torso».

Affetta da poliomielite nell’infanzia, lei, ha raccontato, è stata una bambina affamata di letture. Di quei classici inglesi che, come voleva la colonizzazione britannica, popolavano uno scaffale in ogni villaggio indiano. Quell’imposizione si è tradotta in una ricchezza o una spoliazione?
«Leggendo dieci, quattordici ore al giorno, ho assimilato inglesi, russi, francesi. Ma ascoltavo anche storie in Gujarati dalle donne della mia famiglia. Certo, so perché ho cominciato: ho pensato “io di voi so tutto, è ora che anche voi cominciate conoscere il nostro mondo”. E continuo a scrivere perché, se di un Paese conosci l’umanità, lo bombardi con meno superficialità: hanno bombardato l’Afghanistan, ed eccolo finito, l’Iraq, ed eccolo finito. Ora nel mirino degli Usa c’è il Pakistan».

Tra Musharraf e Bhutto, nel conflitto attuale, per chi propende?
«Benazir Bhutto è stata due volte premier ed è stata allontanata la prima perché accusata di incompetenza, la seconda perché imputata di aver sottratto ricchezze al Paese. Lei e suo marito sono in effetti ricchissimi, possiedono palazzi a Dubai e a Londra. D’altronde i politici sono tutti corrotti. Ma Benazir Bhutto è una donna, ed è laica. Anche Musharraf è laico. Quindi spero che vinca una coalizione dei due capace di combattere quel dieci per cento di fondamentalisti simil-talebani che, in Pakistan, alloggia al confine con l’Afghanistan».

Benazir Bhutto è figlia di un grande leader. Sonia Gandhi ne è una vedova. È una strana emancipazione, questa, che porta per via patriarcale alla leadership politica delle donne, non trova?
«Succede, nei paesi poveri. Anche Indira Gandhi era figlia di Nehru. Ma a me non importa, se questo porta una donna al potere».

Un tribunale italiano ha condannato a trent’anni alcuni familiari maschi d’una ragazza pakistana, Hina, uccisa perché voleva indossare i jeans e vivere col suo ragazzo. È stato, da noi, il primo delitto «d’onore» alla pakistana. Identico a quello descritto da un suo connazionale e collega, Nadeem Aslam, nel romanzo «Mappe per amanti smarriti». Qual è, a suo parere, la reazione giusta nei confronti di delitti di questo genere?
«Punire. Col massimo della pena. Omicidi così sono diffusi ma non hanno alle spalle nulla di religioso. Anche in Italia era diffusa questa cultura, no? L’onore della famiglia è nella donna ed essa è nelle mani del padre e del marito. In patria la fanno franca. All’estero per fortuna no. Sono ricorrenti e perpetue, purtroppo, i casi in cui i corpi di donna diventano tramite di vendette tra uomini, successe in India nel ’47, è successo in Ruanda e in Bosnia».

Alle elezioni nel Paese di cui ha la cittadinanza, gli Usa, chi voterà: Obama o Hillary?
«Hillary Clinton, è pleonastico che aggiunga perché».


Pubblicato il: 25.11.07
Modificato il: 25.11.07 alle ore 14.09   
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