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Autore Discussione: MARCELLO SORGI.  (Letto 287901 volte)
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« Risposta #555 inserito:: Gennaio 19, 2013, 04:18:21 pm »

Editoriali
19/01/2013

Il grande freddo tra ex alleati

Marcello Sorgi

Se non fosse per la crisi internazionale tra Europa e Africa, che costringe gli ex-alleati di governo a riparlarsi, la campagna elettorale si presenta, se possibile, la più imprevedibile e irrazionale di quelle recenti. A cominciare, ovviamente, dal martellamento quotidiano di Berlusconi, che in una ventina di giorni ha totalizzato ore e ore di presenza in tv, tallonato da Monti, seppure non con la stessa efficacia comunicativa, e distanziato, a sorpresa, da Bersani, additato da tutti come il più probabile vincitore e forse per questo restìo a una sovraesposizione mediatica. 

 

Ma al di là della gara televisiva, colpisce l’implacabile guerriglia che infuria tra il presidente del Consiglio e il segretario del Pd. Dopo essere rimasti fino all’ultimo fedeli alleati, a dispetto del tradimento berlusconiano che ha portato alla caduta del governo, i due, giorno dopo giorno, non perdono occasione per attaccarsi, punzecchiarsi, promettersi tregue che regolarmente poi infrangono, senza risparmiarsi neppure pesanti apprezzamenti personali.

 

Si dirà che un epilogo del genere dell’alleanza che, pur con qualche tormento, era diventata un pilastro del fragile equilibrio dell’esecutivo, non a caso autodefinitosi «strano» oltre che tecnico, era in qualche modo scontato, dopo la decisione di Monti, invano avversata da Bersani, di scendere, anzi di «salire», in politica. Solo in seguito s’era capito che la prudenza preventivamente suggerita dal Colle al Professore non era fondata su alcun pregiudizio, ma sulla saggezza: Napolitano immaginava che sarebbe finita così; conoscendo da sempre e dall’interno il centrosinistra, sapeva bene che quando si sceglie un nemico non lo molla più, costi quel che costi.

 

Che per questa strada si sarebbe arrivati a veder soppiantare l’antiberlusconismo, che per vent’anni è stato il cavallo di battaglia di Pd, Ds e Pds, dall’antimontismo, che ha sua volta ha generato un crescente antibersanismo, però, questo no: nessuno era in grado di prevederlo. L’accoglienza alla «scelta civica», come lui stesso l’ha definita, del presidente del Consiglio è stata fredda dall’inizio. Bersani ha cominciato sostenendo che l’annuncio della lista centrista non era una «buona notizia», poi ha accusato Monti di volergli fare accettare «cose inaccettabili», di avergli mandato «segnali non incoraggianti», lo ha attaccato sugli esodati e sulla candidatura al Senato con i centristi dell’ex sindaco Albertini, candidato governatore anche alla Regione Lombardia («un modo di togliere le castagne a Berlusconi»), lo ha definito «marziano», s’è vantato di aver fatto più riforme di lui quand’era al governo e lo ha avvertito che la strada per il Quirinale, spianata fino a prima di Natale, a questo punto è diventata più impervia.

 

Anche Monti ha reagito colpo su colpo, con vigore inimmaginabile in un uomo così pacato. A chi dava per scontata un possibile accordo tra centro e centrosinistra, specie in caso di maggioranza difficile al Senato, ha spiegato che era «prematuro parlare di alleanze». Ha accusato la sinistra, non solo Vendola, ma anche parte del Pd, di essere «conservatrice», ha risposto per le rime alle punzecchiature del responsabile economico democratico Stefano Fassina, parlandone come di un «laureato della Bocconi» che, contro lo stile della casa, fa di tutto per far parlare di se, ha ripetuto varie volte che il centro «non farà la stampella di nessuno». E ha smentito duramente, solo un paio di giorni fa, un’indiscrezione uscita dal suo entourage: un vociferato incontro tra lui e Bersani per cercare, se non di trovare un’intesa, almeno di smetterla di danneggiarsi a vicenda, pestandosi i calli quotidianamente.

 

Seppure di tanto in tanto, saltuariamente per la verità, i duellanti si ricordano di attaccare Berlusconi, all’interno del Pd, ma anche nello schieramento centrista, questo scontro intestino tra i due ex-alleati ha moltiplicato i timori che, batti e ribatti, possa risultarne danneggiata la prospettiva di un ritorno alla collaborazione dopo il voto. Pontieri si sono mossi da entrambe le parti: e D’Alema ha dichiarato che l’alleanza tra centro e sinistra va fatta in ogni caso, non solo se obbligata dagli incerti numeri che potrebbero uscire dalle urne per il Senato. Un ramoscello d’ulivo seccato dall’immediato attacco di Bersani alle liste e ai partiti «personali», a cominciare naturalmente da quelle del premier.

 

Nei corridoi di Montecitorio, desertificati dall’incombente campagna elettorale, c’è chi dice che questo crescendo è solo un gioco delle parti, e sotto sotto Monti e Bersani sanno che dovranno tornare alleati. Può darsi, non sarebbe l’ultimo inganno, tra quelli tipici di ogni campagna elettorale. Ma intanto, Berlusconi ringrazia, e sembra improbabile l’ipotesi che dal 26 febbraio il presidente del Consiglio, come pensano in molti nel Pd, debba rassegnarsi ad abbracciare Bersani e Vendola insieme; o che al contrario, come invoca Monti, il leader del Pd si prepari a separarsi da quello di Sel, per ritrovare l’intesa con il Professore. Se davvero, come dicono i sondaggi, il Porcellum produrrà una situazione simile a quella del 2006, con nessun partito o coalizione che possa contare su una maggioranza stabile al Senato, Napolitano, prima di lasciare il Quirinale, dovrà ricorrere a tutta la sua fantasia ed esperienza per ridare un governo al Paese.

da - http://lastampa.it/2013/01/19/cultura/opinioni/editoriali/il-grande-freddo-tra-ex-alleati-hWDDrXiwwUL8YnWsvyO5PP/pagina.html
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« Risposta #556 inserito:: Gennaio 25, 2013, 11:23:09 pm »

26/9/2012 - TACCUINO

La sensazione di una nuova frana che alimenta l'antipolitica

MARCELLO SORGI

Nel giorno in cui l’Onu approva una risoluzione a favore della lotta alla corruzione, Napolitano interviene contro «malversazioni e fenomeni di corruzione inimmaginabili e vergognose»: il riferimento allo scandalo della regione Lazio che ha portato lunedì sera la Polverini alle dimissioni è evidente, e il Capo dello Stato spera di scuotere i partiti dallo stallo che ha finora impedito di affrontare seriamente il problema dei finanziamenti pubblici a partiti e gruppi consiliari.

Ma al di là di promesse e impegni generici (da Berlusconi a Bersani, ieri in tanti sono intervenuti per cercare di parare le conseguenze di quel che è accaduto), ancora niente di concreto si muove. In realtà cresce il timore che dalle inchieste aperte in varie regioni possano uscire storie simili a quelle del Lazio, e non a caso il leader del Pd ha proposto ieri di imporre per legge trasparenza e certificazione dei bilanci regionali. Dalla Lombardia all’Emilia, a Campania, Calabria, Puglia e Sicilia, emergono situazioni a rischio. Mentre Berlusconi e Alfano prendevano tempo, convocando i coordinatori locali del Pdl, ieri Daniela Santanchè ha chiesto apertamente le dimissioni di Formigoni. L’inchiesta di Napoli intanto rivela versamenti di centinaia di migliaia di euro ai gruppi consiliari. E da Palermo arriva la notizia che il governatore Lombardo ha potuto disporre di oltre trecentomila euro di dotazione personale senza obbligo di rendiconto.

La sensazione di una frana alle porte è ormai diffusa. E la possibilità che nel giro di poche settimane una sorta di «Regionopoli» possa abbattersi a livello nazionale, a pochi mesi dalle elezioni politiche, tiene i partiti in uno stato d’ansia e in attesa di conseguenze imprevedibili. Ieri a Washington il ministro degli esteri Terzi ha sottolineato i rischi d’immagine di un paese come l’Italia, nel momento in cui la lotta alla corruzione diventa un impegno condiviso a livello globale.

Ma non sarà facile raggiungere un accordo in Parlamento su una materia così delicata. Napolitano ha ammonito i partiti: non lamentatevi dell’antipolitica, se non siete in grado di ridare credibilità alla politica. Eppure, gli sforzi fatti finora dal ministro di giustizia Severino non hanno raggiunto risultati. Toccherà a Monti, al ritorno dagli Usa, valutare se premere ancora in questa direzione e se promuovere un’iniziativa del governo sui meccanismi di spesa delle Regioni. Lo aveva fatto per la Sicilia, portando Lombardo alle dimissioni. Adesso deve decidere se c’è spazio per un generale taglio dei costi anticorruzione.

da - http://www1.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=10571
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« Risposta #557 inserito:: Febbraio 06, 2013, 06:02:47 pm »

Editoriali
06/02/2013

L’incubo di un risultato“alla greca”

Marcello Sorgi


La svolta che nel giro di due giorni ha riportato l’armonia tra Monti e Bersani, dopo settimane di scontri quotidiani, ha colpito un po’ tutti. 

 

In effetti il presidente del Consiglio e il segretario del Pd se ne erano dette di tutti i colori: il Professore era arrivato a ribattezzare all’indietro il Pd fino al 1921, data della scissione di Livorno e della fondazione del Partito comunista d’Italia («Forse s’è confuso con la sua data di nascita», gli aveva replicato Matteo Renzi con una delle sue battute fulminanti). E Bersani non si dava pace, visto che in oltre un anno di leale collaborazione al governo, il premier non aveva mai trovato tanti difetti al suo partito.

 

In sole 48 ore invece l’alleanza è rinata. Il leader del Pd ha detto e ripetuto nelle piazze e in tv che anche se dovesse raggiungere il 51 per cento si comporterebbe egualmente come se fosse al 49, cercando la collaborazione dei centristi come è nei suoi programmi da tempo. 

 

Il Professore si è spinto più in là: oltre a confermare la prospettiva di un’intesa con Bersani, ha adombrato l’eventualità che si possa costruire una larga coalizione meno provvisoria e fragile di quella che ha sostenuto il suo primo governo e in grado di realizzare le riforme di cui il Paese ha bisogno per uscire dalla crisi.

Se solo si riflette sul fatto che Monti era entrato nella campagna elettorale con l’ambizione di scomporre le due coalizioni avversarie, emarginando le parti più conservatrici per far prevalere quelle più riformiste, la svolta è notevole. Il presidente del Consiglio, che si candida a succedere a se stesso, prende atto che solo in accordo con i partiti suoi avversari sarà possibile delineare un programma comune di iniziative che aiuti l’Italia a fare quel che l’Europa le chiede: più competitività sui mercati, più flessibilità sul lavoro, veri tagli alla spesa pubblica, e sul piano istituzionale la revisione della Costituzione, il rafforzamento del governo e lo snellimento del Parlamento, promesse tante volte e sempre rinviate.

 

Quella di Monti è naturalmente una sfida, più che una proposta: occorrerà vedere come reagirà Bersani, dopo le sue recenti aperture, all’ipotesi che non un centrosinistra più ampio, ma una larga coalizione, sia necessaria per la prossima legislatura. E soprattutto bisognerà vedere quali saranno gli effetti di un’iniziativa del genere all’interno del Pdl. Nel centrodestra, infatti, quando ancora sembrava che Berlusconi fosse orientato a farsi da parte, Alfano e gran parte della nuova generazione spingevano a favore di un rapporto più stretto con il premier, candidato ideale, dal loro punto di vista, a guidare lo schieramento moderato. Poi il ritorno in scena di Berlusconi ha mandato tutto per aria: e dopo le sparate degli ultimi giorni, e una campagna tutta giocata contro i «disastri» provocati da Monti, non si capisce come il Cavaliere possa tornare sui suoi passi.

 

In ogni caso siamo solo all’inizio di un processo che, se davvero si svilupperà, lo farà dopo il voto e con i risultati alla mano. Sarebbe stato meglio, certo, molto meglio, che pur riservandosi uno spazio di manovra e di propaganda in una campagna elettorale in cui è normale che ognuno punti a prendere un voto in più, i partiti che pur tra molte difficoltà avevano condiviso l’esperienza del governo dell’ultimo anno avessero concordato un perimetro protetto, entro il quale salvare ciò che di buono era stato realizzato, e tutto quel che restava da fare. Un tentativo impossibile, sapendo come vanno le cose in Italia, quando arriva il momento delle elezioni. Ma a maggior ragione ci si poteva almeno provare.

 

Invece è andata com’è andata: il ritiro in extremis dell’appoggio a Monti da parte del Pdl ha provocato la caduta del governo e le elezioni anticipate. La crisi ha preoccupato gli osservatori internazionali, in specie gli europei che consideravano l’Italia un paese in convalescenza. Questi timori si sono ribaltati su Monti, spingendolo a «salire» in politica. La nascita del suo partito ha irritato Bersani e ne è derivata la guerra che i due si sono fatti fin qui.

 

Adesso, è inutile nasconderlo, non sarà facile rimettere insieme i cocci. Mentre è abbastanza chiara la ragione del pentimento e del tentativo di ricostruire l’unica, forse, soluzione che consentirebbe all’Italia di risolvere i suoi problemi. Al momento attuale nessuno pensa di vincere. Né Bersani, che ha visto assottigliarsi il suo vantaggio, né Berlusconi, in rimonta, sì, ma fino a un certo punto. E neppure Monti, che stando agli ultimi sondaggi rischia perfino di arrivare quarto, dopo Grillo. All’improvviso è diventato più forte l’incubo di un risultato «alla greca», in cui una vera maggioranza non si trova. Così la paura fa novanta, e tutti cercano di ritrovare le amicizie perdute. Che questo sia il modo migliore di arrivare a una larga coalizione è tutto da vedere.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/06/cultura/opinioni/editoriali/l-incubo-di-un-risultato-alla-greca-3b1pG5T6m219i6SpgM3BDN/pagina.html
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« Risposta #558 inserito:: Febbraio 23, 2013, 11:08:27 pm »

EDITORIALI
23/02/2013

I tecnici e l’eredità rinnegata

MARCELLO SORGI

La campagna elettorale che s’è chiusa ieri in un clima apocalittico ha visto uno, e un solo, punto d’incontro tra partiti e coalizioni battutisi fino allo stremo: la cancellazione, anche a costo di rinnegare se stessi, di tutto ciò che di buono e di nuovo - oltre che di necessario - aveva portato l’esperienza del governo tecnico nell’ultimo anno. È stato come se un malato oppresso da una terapia pesante, ancorché inevitabile, vista la gravità del male, all’improvviso, con un gesto di rabbia o di disperazione, avesse gettato tra i rifiuti fiale, pillole e medicamenti. Un paziente così, superata la fase di euforia, sarebbe destinato a un sicuro peggioramento.
 
Eppure, alla presa di distanza dal governo voluta da Berlusconi il 6 dicembre, per anticipare la fine della legislatura e bruciare sui tempi i magistrati di Milano, che volevano infliggergli prima del voto una definitiva condanna sul caso Ruby, è seguita, a sorpresa, quella di Bersani. Il leader del Pd, già al suo primo comizio ha cominciato a rinnegare il sostegno dato a Monti nel duro lavoro di risanamento dei conti pubblici. Le riforme, difficili ma indispensabili, che lui stesso responsabilmente aveva contribuito a far approvare, in un Parlamento in cui spesso il centrodestra era latitante, le ha presentate ai suoi elettori come un percorso obbligato non scevro da errori.
 
E più d’una volta ha lasciato intendere che se il Pd lunedì sarà il vincitore delle elezioni, e potrà formare un governo di centrosinistra, tra i primi impegni da realizzare metterà la riforma delle riforme appena approvate.

Né più né meno come fece Prodi nel 2006, quando subito si dedicò a cancellare la nuova legge sulle pensioni approvata dal centrodestra, vanificandone i vantaggi già acquisiti sul bilancio dello Stato e costringendo i tecnici, sei anni dopo, a prescrivere la cura da cavallo della riforma Fornero, con il conseguente problema degli esodati. D’altra parte, è evidente, allora come oggi, che il centrosinistra, se davvero riuscirà a vincere, lo farà con l’appoggio degli iscritti alla Cgil e con l’ipoteca dei suoi programmi. Sarà già una fortuna che Bersani, una volta approdato a Palazzo Chigi, non sia costretto a mettere in pratica il piano-lavoro della Camusso, che prevede 175 mila assunzioni di pubblici dipendenti con un aggravio di spesa per lo Stato di dieci miliardi di euro.
 
Così a sorpresa, accanto a Berlusconi che non perdeva occasione per attaccare il governo, dopo averlo sostenuto, e per rivolgere al suo successore ogni genere di apprezzamenti negativi, in queste settimane di campagna è spuntato Bersani. Con tutt’altro stile, e con la bonomia da padre di famiglia con cui si presenta davanti alle telecamere, il leader del centrosinistra e candidato alla presidenza del consiglio ha ripetuto senza sosta in tv la versione del Pd costretto a votare decreti sbagliati per la testardaggine di un premier che non voleva sentire storie. Gliel’abbiamo detto in tutte le salse che sbagliava, ma lui niente: così Bersani ha ricostruito tante volte i rapporti con il Professore nell’ultimo anno di governo. Lasciando intendere che se adesso toccherà a lui, la musica cambierà.
 
Ma l’aspetto più sorprendente della campagna è stato che subito, quasi fin dall’inizio, al coro dei suoi critici s’é unito lo stesso Monti. Una cosa del tutto inattesa e per certi versi inspiegabile. Perché il presidente del consiglio ha, sì, attaccato quotidianamente i leader del Pdl e del Pd, accusandoli di resistenze simmetriche all’azione riformatrice del governo. E tuttavia, invece di contrapporre alla sorda opposizione interna dei partner della «strana» maggioranza, quel poco o tanto di buono che era riuscito a portare a casa, risalendo la corrente contraria di una politica riottosa, Monti è apparso sovente e immotivatamente un severo critico di se stesso, e s’é rassegnato, con visibile sofferenza, a fare anche qualche limitata concessione al metodo delle promesse elettorali.
 
Come dice chi gli è stato vicino in queste settimane durissime, in cui il Professore, abituato a muoversi nella rigida cornice dei consensi internazionali, ha dovuto imparare l’arte del talk-show, forse non poteva fare altrimenti, una volta fatta la scelta di «salire» in politica e prendere partito. O forse no: il dubbio è legittimo. Se Monti fosse rimasto il Monti che avevamo conosciuto, se avesse rivendicato, contro tutto e contro tutti, il rigore delle sue scelte e il senso dei sacrifici imposti ai cittadini, e di quello suo personale, anche questa campagna così inutile e ripetitiva sarebbe stata diversa. Invece di star qui a compulsare, fino all’ultimo, le tabelle segrete dei sondaggi, saremmo andati a votare più tranquilli. Sapendo che alla fine, con qualsiasi risultato, il tecnico che aveva rappresentato la speranza e la riserva della Repubblica era ancora lì al suo posto, pronto a ricominciare il suo lavoro.

da - http://www.lastampa.it/2013/02/23/cultura/opinioni/editoriali/i-tecnici-e-l-eredita-rinnegata-mcTNDsN6SOQfJjIM6rj0LM/pagina.html
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« Risposta #559 inserito:: Febbraio 26, 2013, 05:20:29 pm »

Elezioni Politiche 2013
26/02/2013 - Il terzo polo

Il flop di Monti: campagna sbagliata e molti rimpianti

Grillo promette: “Niente inciuci, sarà una guerra”

Senza la salita in campo, il Prof sarebbe ancora premier

Marcello Sorgi

ROMA

E adesso che non c’è maggioranza al Senato, chi lo fa il governo? Immaginiamo, ma solo per un momento, che Monti non avesse compiuto la fatidica scelta di “salire” in politica, e se ne fosse rimasto appartato, fuori dalla peggior campagna elettorale mai vista. Ieri sera, questa domanda che circolava in molti e riservati conciliaboli istituzionali, avrebbe avuto una sola risposta: Monti, appunto.

 

Invece l’avventura del Professore s’è conclusa ben lontano dalle aspirazioni, che lo hanno accompagnato in quest’ultimo mese nel suo faticoso Calvario televisivo, fino a due o tre apparizioni al giorno, e negli ultimi giorni s’erano fatte più deboli. Monti ha cercato come poteva a tarda sera di minimizzare la sconfitta, che non lo ha reso determinante neppure al Senato. Ma i primi a rendersi conto che era un’illusione arrivare al 15 per cento, e rappresentare il punto di equilibrio in una possibile alleanza con Bersani per un governo di “moderati e progressisti”, erano stati i ministri, ormai quasi ex, non candidati. Dopo averlo apprezzato per un anno nei consigli dei ministri, e averlo visto all’opera nelle famose cene con ABC, più frequenti del previsto e in molti casi rimaste segrete, i membri del governo che avevano convintamente deciso di restare tecnici e tornare alle loro professioni, quasi non lo riconoscevano più.

 

Perché sarà anche vero che in Italia tutti i tentativi di aprire una “terza via” sono andati storicamente falliti, e che il “partito della borghesia” s’è rivelato, in epoche differenti, un’illusione che non ha mai trovato un’autentica base popolare. Ma questa annotazione non basta a spiegare il mistero di una campagna elettorale tutta giocata, da Monti, all’inseguimento di Berlusconi e Bersani. Il tentativo, legittimo, di dipingere i due maggiori schieramenti animati da speculari istinti conservatori, e contrari alle riforme per paralleli e contrapposti interessi elettorali, s’è rivelato, infatti, meno convincente quando il premier, per esigenze di comunicazione, s’è convinto a scendere sullo stesso terreno dei suoi avversari, a cominciare dalle tasse e dallo scontro sull’Imu e sulla patrimoniale. Così Monti è apparso alla rincorsa, invece che un passo avanti, a Pd e Pdl; ed è risultato schiacciato dal loro attacco concentrico. Dopo Berlusconi, Bersani ha atteso solo qualche giorno per prendere anche lui le distanze dal governo. Inoltre la novità della proposta rappresentata dalla lista civica del premier é risultata ridimensionata dall’alleanza con Casini e Fini, leader con ultraventennale carriera al vertice dei loro partiti e trentennale presenza parlamentare. Magari è troppo dire che Monti se ne sia pentito: ma ci dev’essere una ragione se in tutta la campagna elettorale non s’è mai fatto vedere, né fotografare, con loro. 

 

L’altro aspetto inatteso della campagna del Professore ha riguardato proprio l’azione dell’esecutivo. Comprensibile - tra l’altro non ne ha mai fatto mistero - che Monti fosse insoddisfatto dei risultati raggiunti, e che, dall’estenuante trattativa primaverile sulla riforma del lavoro in poi, si fosse ragionevolmente convinto che l’appoggio dei suoi principali alleati fosse solo formale, e in realtà Bersani e Berlusconi puntassero a fare il meno possibile nel tempo che ancora li separava dal voto. Ma questo non giustifica in alcun modo il silenzio quasi tombale che il presidente del Consiglio ha osservato su quel che era riuscito a realizzare, malgrado l’incerto appoggio di cui godeva. Giusto per fare un esempio, pensiamo a cosa sarebbe diventata, nelle mani di un qualsiasi leader politico più o meno professionista, la legge anti-corruzione, sicuramente insufficiente, ma approvata grazie a un braccio di ferro vinto alla fine anche platealmente dal Professore e subito dimenticata. Sarebbe diventata una bandiera. 

 

Allo stesso modo la sordina messa sul comportamento del premier in Europa - mai subalterno, spesso critico, e spinto, nello scorso giugno, fino a un aperto dissenso con la Merkel -, non gli ha certo giovato. Mentre i suoi (ex) alleati, sia pure con accenti differenti, presentavano la Cancelliera tedesca come un’avversaria e promettevano, in caso di vittoria, di darle filo da torcere e cercare alleanze in Europa con l’obiettivo di ridimensionarla, Monti, anche se non lo è stato, è apparso come il suo strenuo difensore. Vorrà pur dire qualcosa se uno dei pochi buoni risultati locali la lista di “Scelta civica” lo ha conseguito in Trentino-Alto Adige, non a caso uno dei pochi territori “tedeschi” di un Paese che, ragionando di pancia, sognava, seppure irrazionalmente, di prendersi una rivincita contro la Germania.

da - http://lastampa.it/2013/02/26/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/il-flop-del-professore-campagna-sbagliata-e-molti-rimpianti-6QldmZEpt7z6glO5Nd5hZI/pagina.html
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« Risposta #560 inserito:: Febbraio 28, 2013, 11:19:48 am »

Editoriali
28/02/2013

Pd-M5S, c’eravamo tanto amati

Marcello Sorgi

Chissà cosa avrà pensato Peer Steinbrueck, leader della Spd, che considera Berlusconi e Grillo «due pagliacci», nel vedere Pier Luigi Bersani proporre un’alleanza e la presidenza della Camera al fondatore del Movimento 5 Stelle.

 

La frase un po’ forte del candidato socialdemocratico alla Cancelleria nelle prossime elezioni tedesche, considerata «fuori luogo o peggio» da Napolitano, ha portato all’annullamento del previsto incontro con il Capo dello Stato in visita in Germania. Ma Steinbrueck, c’é da giurarci, non ne avrà compreso fino in fondo la ragione, dato che si sentiva in piena sintonia con i cugini del Pd.

 

Fino a domenica scorsa infatti Grillo era per Bersani «un fascista», o «fascista del web», che usava un «linguaggio fascista», tanto per ribadire il concetto.

 

La polemica, poi sviluppata per mesi e ripetuta durante la campagna elettorale, era nata tra la fine di agosto e l’inizio di settembre, quando un gruppo di grillini avevano accolto alla Festa Democratica il leader del Pd a Bologna al grido di «zombie». Epiteto particolarmente sanguinoso, se si considera che, prima d’allora, solo Bossi lo aveva usato nei confronti di Occhetto («zombie coi baffi») quasi vent’anni prima, nel 1994. E che al segretario e candidato primo ministro del Pd ovviamente aveva fatto saltare la mosca al naso, specie quando Grillo lo aveva ribadito sul web, aggiungendo che Bersani, «cadavere ambulante», avrebbe dovuto considerarlo quasi un complimento perché gli si dava atto di avere ancora un alito di vita.

 

Se questo era appunto il tenore dei rapporti tra il partito e il movimento che presto dovrebbero allearsi e governare insieme, dopo il risultato «monstre» di M5S alle elezioni, si può immaginare lo choc del collega tedesco per l’annuncio a sorpresa del Pd. Anche perché, per tutta la fase precedente all’ascesa di Grillo, i Democratici italiani avevano mostrato di condividere in pieno il giudizio durissimo della sinistra europea, e non solo, sui movimenti populisti, che ovunque predicano la fine dell’Europa e dell’euro e rastrellano voti nelle fasce di elettorato più deboli. Grillo e i suoi seguaci, per il Pd, non erano altro che la propaggine italiana di quell’anomalia manifestatasi in Olanda con Pim Fortuyn, in Austria con Jorg Heider, in Francia con Le Pen padre e figlia, e da ultimo, in Grecia, con Alba Dorata di Nikòlaos Michaloliàkos, anche se ciascuno di questi movimenti faceva storia a sè, e non tutti avevano posizioni di estrema destra o solo razziste o xenofobe. Eppure per il centrosinistra italiano era niente di più che un virus, una malattia della democrazia, da combattere sul piano continentale e europeo, quasi come l’influenza russa o cinese, rafforzando le strutture comunitarie e rendendo più fecondo il confronto tra Stati e partiti alleati all’interno dell’Unione.

 

Un’analisi come questa rivelava, già prima del boom del Movimento 5 Stelle, una qualche forma di superficialità e presunzione. Mentre Berlusconi, nel ritiro che precedeva la riscossa, confessava di studiare il linguaggio e le mosse di Grillo sui palcoscenici dei suoi spettacoli, avendone da tempo colto l’insidia, non solo Bersani, ma la sinistra italiana nel suo complesso - con l’eccezione di Bertinotti non lo considerava un vero pericolo. In un Paese cattolico e in cui ancora esiste, grazie al centrosinistra, una politica «sana» e un accettabile tasso di fiducia nelle istituzioni democratiche, si dicevano tra loro i dirigenti dello schieramento che dalle urne di domenica e lunedì si aspettava la vittoria, il populismo non potrà mai attecchire più di tanto. E avevano continuato a dirselo anche dopo le amministrative del maggio 2012, e la conquista, da parte di M5S, del comune di Parma con il sindaco Pizzarotti.

 

In realtà sarebbe bastato leggere il bel libro di due studiosi, Piergiorgio Corbetta e Elisabetta Gualmini dell’Istituto Cattaneo, che lavorano a Bologna, proprio nella capitale delle regioni rosse, per capire che Grillo con Haider, Fortuyn e con tutti gli altri campioni europei del populismo, c’entra poco o niente: è un prodotto italiano artigianale e genuino, nato all’ombra delle amministrazioni democratiche e post-comuniste del Centro Italia, che una volta erano il fiore all’occhiello del Pci, e nel tempo si erano burocratizzate e sclerotizzate, finendo a non reggere i ritmi e i problemi di una società mutata, globalizzata e indebolita da normali problemi e contrapposizioni sociali, di quelli che il «welfare-state» socialdemocratico non é più stato in grado di riassorbire. Di lì, grazie alla crisi economica, all’aumento della disoccupazione e alla rigorosa, seppur necessaria, politica fiscale imposta dalla congiuntura, i grillini nostrani sono dilagati a Nord-Est verso il Veneto, andando a intaccare la solida riserva leghista, a Nord-Ovest nelle valli piemontesi dove si combatte la guerra contro i treni ad Alta Velocità, e a Sud e nelle isole, verso l’ultima pianura democristiana e il granaio siciliano di voti del Cavaliere. Tal che se non se ne fosse accorto in tempo, e non vi avesse posto rimedio con il suo ritorno in campo e l’imprevedibile rimonta, anche Berlusconi oggi piangerebbe le stesse lacrime che piange Bersani. Ma con l’aggravante che, pure a volersi perdonare la sottovalutazione del fenomeno M5S, rivelato via via dai sondaggi durante la campagna elettorale, e confermato dalle urne quando ormai era troppo tardi, il Pd aveva in casa un antidoto di sicura efficacia come Matteo Renzi, ma ha preferito accantonarlo.

 

Ora invece Bersani cerca ascolto da Grillo per convincerlo/costringerlo ad accettare la responsabilità di sostenere un governo «di combattimento, come l’ha definito, che con il solo appoggio del centrosinistra non avrebbe la maggioranza al Senato. Lo fa usando il bastone e la carota, blandendo Grillo e minacciandolo al contempo che in caso contrario l’incubo di un secondo scioglimento delle Camere e di un altro, ravvicinato, passaggio elettorale, come in Grecia, potrebbe realizzarsi davvero. È un’impresa ardua. Le reazioni di scherno che provengono da Grillo dovrebbero scoraggiarla definitivamente. Anche Napolitano, a cui come ultimo atto del suo settennato toccherebbe benedire dal Quirinale il primo accordo organico di governo con i populisti in Europa, ha lasciato trapelare i suoi dubbi su una manovra così azzardata. Forse Bersani dovrebbe rifletterci, ripensare ai tempi non lontani in cui con Grillo si scambiavano insulti, cercare ancora una soluzione diversa. Per salvare, non solo il governo, ma l’ultimo pezzo di credibilità del Paese.

da - http://lastampa.it/2013/02/28/cultura/opinioni/editoriali/pd-m-s-c-eravamo-tanto-amati-rR8s2ipYNeiD57JKu1LtrI/pagina.html
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« Risposta #561 inserito:: Marzo 09, 2013, 12:18:05 am »

Editoriali
08/03/2013

Un macigno sulle trattative per il Governo

Marcello Sorgi


Accolta da Berlusconi e dal Pdl quasi come un colpo di Stato, la condanna del leader del centrodestra, per rivelazione di segreto d’ufficio della famosa intercettazione di Fassino («Abbiamo una banca») sulla scalata Unipol alla Bnl, è solo la prima di una serie che in tempi assai brevi dovrebbe abbattersi sulla testa dell’imputato più eccellente d’Italia. E di una tempesta giudiziaria, che condizionerà non poco la ricerca di un minimo equilibrio dopo il controverso risultato del voto e la possibilità che in tempi brevi il Paese debba tornare alle urne.

 

Non solo per la grandinata di sentenze attese da Berlusconi. Ma anche e soprattutto per la grande manifestazione di piazza che sta organizzando e che, seppure con un florilegio di parole d’ordine dedicate alla crisi economica e alla battaglia anti-fisco, ha in realtà come obiettivo principale la messa sotto accusa della magistratura «politicizzata», definita di recente dal Cavaliere addirittura «un cancro». Sarà questo, più delle ulteriori e assai probabili condanne che l’imputato si aspetta, a rendere il centrodestra, se non proprio inutilizzabile, molto, ma molto difficilmente coinvolgibile in qualsiasi tentativo di trovare un assetto parlamentare per il governo che Napolitano dovrebbe cercare di formare, dopo l’annunciato, e per molti versi scontato, fallimento del tentativo di Bersani di costruire un’intesa con Grillo o almeno con una parte del suo movimento. 

 

L’innesto di una crisi istituzionale - visto che il Capo dello Stato non potrà consentire l’attacco indiscriminato alla magistratura nel suo complesso - in quella politica già in corso, e vieppiù complicata dai risultati elettorali, renderà praticamente impossibile la quadratura di un cerchio già di per sè azzardata. Rafforzando la pregiudiziale del Pd a ogni e qualsivoglia forma d’intesa con un Berlusconi che, una tegola dopo l’altra, potrebbe presto ritrovarsi giudicato colpevole di esercizio della prostituzione; condannato, anche se in primo grado, all’inibizione dai pubblici uffici oltre che al carcere; e confermato, in appello, nella sentenza che gli ha già inflitto quattro anni per l’evasione fiscale dei diritti cinematografici della Fininvest. Tutto ciò mentre la procura di Napoli indaga sulla corruzione, con tre milioni di euro, confessata dal senatore De Gregorio ai tempi del governo Prodi, e su un’analoga ipotesi di reato per il passaggio dall’opposizione dei deputati Razzi e Scilipoti, i cosiddetti «responsabili» di uno dei più clamorosi episodi di salvataggio dell’ultimo governo Berlusconi. Un’inchiesta, sia detto per inciso, in cui in coincidenza delle resistenze del Cavaliere s’è già avvertito tintinnìo di manette, rivolto tra l’altro a un Parlamento in cui per la prima volta l’eventuale richiesta di arresto del leader del centrodestra potrebbe contare su una maggioranza.

 

Ce n’è abbastanza per considerare purtroppo realistica l’ipotesi di un nuovo scioglimento delle Camere, fino a ieri evocata come un disastro da evitare, perché rischierebbe di portare l’Italia in condizioni simili a quelle della Grecia. Berlusconi infatti spera ancora di trovare un accordo con il Pd. Ma Bersani non lo vuole perché cerca a sua volta un’impossibile intesa con Grillo (che il leader del Movimento 5 Stelle a sua volta esclude), e perché spera - inutilmente finora - che il centrodestra, o almeno una sua parte, abbandoni Berlusconi al suo destino.
Il risultato di questo carosello di incomunicabilità e la somma di questi anomali fattori ci porteranno quasi certamente a nuove elezioni.
Ma non elezioni qualsiasi: stavolta infatti, molto più di altre, l’Italia rischia davvero di andare a rompersi l’osso del collo.

da - http://lastampa.it/2013/03/08/cultura/opinioni/editoriali/un-macigno-sulle-trattative-per-palazzo-chigi-nSYgAlG8NCanvVkk32hkyI/pagina.html
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« Risposta #562 inserito:: Marzo 16, 2013, 05:38:06 pm »

Editoriali
16/03/2013

Il capolavoro della confusione

Marcello Sorgi


Il caos che per tutto il giorno di ieri ha accompagnato l’apertura della legislatura, e la fallita elezione dei due presidenti delle Camere, non deve impressionare: era in qualche modo scontato che le prime votazioni si sarebbero risolte in fumate nere, così come è certo, o almeno molto probabile, che stasera conosceremo i nomi della seconda e della terza carica dello Stato. Quello della seconda, in serata, correva di bocca in bocca nei corridoi del Senato: Anna Finocchiaro. 

 

Donna e senatrice di grande esperienza, già capogruppo del Pd, ha trovato il consenso, non solo del suo partito, ma a sorpresa anche della Lega Nord, realizzando un’inedita convergenza bipartizan tra sinistra e destra che è il miglior viatico per l’ascesa a un ruolo istituzionale.
E collocandosi, se sarà eletta, in pole position per la guida di un governo di tregua come quello che Napolitano tenterà di formare a partire dalla prossima settimana.

 

Perché allora, se si era delineata una prospettiva, s’è lasciato che la giornata precipitasse nella confusione più totale, senza un filo di comunicazione, né di interlocuzione, tra le forze politiche che avrebbero dovuto affrontare e risolvere il problema? Una dopo l’altra, tutte le ipotesi messe in campo sono naufragate senza speranza. Bersani, il leader della «vittoria mancata» del Pd, è partito dall’idea di agganciare il Movimento 5 Stelle con l’offerta della presidenza della Camera e coinvolgerlo nell’elezione del presidente del Senato, che nei suoi piani avrebbe dovuto essere un esponente della lista di Monti, possibilmente l’ex capogruppo del Pdl Mario Mauro, passato con il partito del presidente del Consiglio. Ma Grillo non gli ha dato ascolto, ha dato ordine ai suoi di votare per i candidati del M5S e basta. Quanto a Monti, a sorpresa, ha detto che non avrebbe accettato un’intesa solo con il centrosinistra e s’è candidato in prima persona alla presidenza del Senato.

 

Oltre a preoccupare Napolitano per le conseguenze delicate che provocherebbe (Monti dovrebbe dimettersi da Palazzo Chigi, affidando provvisoriamente la guida del governo a un vicepresidente ad interim da nominare in extremis, forse il ministro dell’Interno), l’imprevista ambizione del premier, manifestata in assenza di un patto politico per realizzarla, ha ulteriormente complicato le cose. Il regolamento del Senato prevede infatti che dalla quarta votazione in poi venga eletto presidente in un ballottaggio il candidato che raccoglie più voti. Teoricamente, se il Pd, per non ritrovarsi a votare insieme con il Pdl, dovesse decidere di votare per un proprio candidato, Monti potrebbe essere eletto lo stesso con i voti dei suoi senatori e di quelli berlusconiani, che scenderebbero in suo appoggio al solo scopo di mettere ancor di più in difficoltà Bersani. Ed é anche per questo che la Lega, in dissenso, s’è detta pronta a confluire sulla Finocchiaro.

 

Una partita così complicata - una specie di terremoto che prosegue per successivi smottamenti - ha nel Pd il suo epicentro. Il partito che ha la maggioranza assoluta alla Camera (grazie al premio elettorale del Porcellum) e quella relativa al Senato avrebbe potuto agevolmente puntare ad eleggere autonomamente due suoi esponenti, come forse alla fine dovrà fare. Ma forse anche per lasciarsi le mani più libere nella successiva corsa per il Quirinale, ha scelto legittimamente di confrontarsi e di allargare la ricerca di una soluzione condivisa. Puntando tuttavia sull’unico interlocutore - Grillo - che in tutte le salse gli aveva preannunciato un «no» pregiudiziale, e dando per scontato un alleato - Monti - che, pur consultato, non aveva dato alcuna disponibilità. Così facendo Bersani è andato a sbattere contro un primo e un secondo muro.

 

Il terzo lo ha visto alzarsi in nottata all’interno del suo partito. Se voleva a tutti i costi far presiedere la Camera da un grillino - gli é stato fatto notare - non doveva far altro che votare subito per il candidato del M5S. Se invece pensava di approfittare dell’occasione favorevole, e intanto portare a casa le due presidenze per due esponenti del Pd, non avrebbe dovuto perder tempo appresso a Grillo, e una volta incassato il primo «no», ripiegare sui propri candidati, Finocchiaro al Senato e Franceschini alla Camera. Però, a questo punto, dopo aver presentato all’esterno per giorni e giorni la scelta dell’alleanza con Grillo come una ineludibile svolta di rinnovamento imposta dai risultati del voto, la proposta dei due rispettabilissimi ex-capigruppo della scorsa legislatura per la promozione alle presidenze delle Camere rischia di essere attaccata perchè troppo conservatrice, o non necessariamente audace, come appunto il voto degli italiani avrebbe richiesto. Parola più, parola meno, è quel che non pochi parlamentari del Pd hanno fatto notare a Bersani nell’assemblea notturna dei gruppi. Con il risultato finale che a Franceschini è stata opposta la candidatura di Andrea Orlando, e che oggi, nella votazione in cui i 345 deputati del partito dovrebbero eleggersi da soli il loro presidente, basterebbero una trentina di franchi tiratori per impallinarlo.

 

Si sa, la politica italiana è complicata, e il passaggio dalla logica «militare», si fa per dire, delle coalizioni maggioritarie, a quella più tradizionale del proporzionale e della partitocrazia, non l’ha certo aiutata a migliorare. Ma un simile capolavoro, all’inaugurazione di una legislatura nata già zoppa, va oltre qualsiasi previsione. Comunque vada a finire, una sola cosa è certa: Grillo ringrazia. Alle prossime elezioni - non ci vorrà poi molto - in uno dei suoi spettacoli, gli basterà far rivedere il film di questa giornata per accrescere i suoi voti.

da - http://lastampa.it/2013/03/16/cultura/opinioni/editoriali/il-capolavoro-dellaconfusione-kBznjPQIc2mfrb3bmeT6RN/pagina.html
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« Risposta #563 inserito:: Marzo 18, 2013, 04:37:08 pm »

Elezioni Politiche 2013
18/03/2013 - intervista

Monti: “Volevo solo la governabilità

Ecco la verità sulle trattative con Pd, Pdl e Quirinale”

Il premier: “Non ero d’accordo con il no del Presidente ma ho obbedito”

Marcello Sorgi
Roma

Se è dispiaciuto, non vuol certo darlo a vedere. Lo studio del presidente del Consiglio a Palazzo Chigi è aperto anche di domenica, le pile dei dossier ordinate con cura sulla scrivania non danno certo l’idea di uno che sta per andarsene. «Lo so, è tempo di organizzare il trasloco - sorride Mario Monti -. Ma dicono che non sarà tanto presto». 

La trattativa per le presidenze delle Camere, che lo ha visto potenziale candidato al Senato in una candidatura mai decollata, è stata più lunga e tortuosa del previsto. Monti accetta di ripercorrerla.

 

Presidente, in questa occasione lei è apparso a molti come uno che voleva a tutti i costi aggiudicarsi una poltrona. Un’immagine ben diversa da quella alla quale lei ci aveva abituati. 

«Vediamo un po’. Nel gennaio 1995, quando il presidente Scalfaro, spinto dal centrosinistra, mi propose di guidare il governo dopo le dimissioni di Berlusconi abbandonato da Bossi, dissi che avrei accettato solo con l’accordo dello stesso Berlusconi, che mi aveva da poco nominato Commissario europeo. Il Cavaliere disse no e nacque il governo Dini. In seguito declinai l’offerta, questa volta di Berlusconi, del ministero degli Esteri nel 2001 e di quello dell’Economia nel 2004. Non mi pare di aver rincorso poltrone. Nel novembre 2011 ho accettato la presidenza del Consiglio ma solo perché me lo ha chiesto il presidente Napolitano, con l’accordo delle tre principali forze politiche, in condizioni di emergenza».

 

E stavolta cosa è successo? Non sarà che l’essere diventato un politico ha complicato tutto? Standosene tranquillo a Palazzo Chigi - è opinione generale - lei sarebbe stato in pole position per il Quirinale o per un nuovo governo. Come mai, di colpo, questa voglia di presidenza del Senato? 

«Me lo chiedo anch’io! Non ho mai espresso, né avuto, questo particolare desiderio. Ma, dato che la proposta a Scelta Civica e a me era stata prospettata, abbiamo voluto approfondire in quale contesto politico avrebbe avuto senso accettarla e in quale no». 

 

Proviamo a ricostruire dall’inizio. Lei ha trattato, e con chi, per la presidenza del Senato? 

«Quando ho invitato Pierluigi Bersani a Palazzo Chigi il 7 marzo in preparazione del Consiglio Europeo, il segretario del Pd mi ha semplicemente espresso il suo orientamento per decisioni condivise in merito ai vertici delle istituzioni, sul quale mi sono dichiarato d’accordo. Il 13 marzo Luigi Zanda ha incontrato Andrea Olivero, coordinatore di Scelta Civica, ed è stato confermato un consenso sul metodo. In parallelo, alcuni esponenti del Pd in via informale erano più espliciti, proponendo la presidenza del Senato a me a fronte di un appoggio al Pd per la presidenza della Camera. Nel frattempo, all’interno di Scelta Civica era stato convenuto che avremmo insistito per una convergenza larga sulle cariche istituzionali, in coerenza con l’impostazione affermata fin dalla nascita del movimento dati i gravi problemi che l’Italia ha di fronte a sé e le profonde riforme necessarie; e che, se ci fosse stato consenso su ciò, saremmo stati disponibili ad una mia candidatura al Senato, proprio per contribuire ad un quadro ampio di governabilità». 

 

E poi cosa è accaduto? Ha avuto ulteriori contatti con Bersani? 

«Sì. Mi ha telefonato nel pomeriggio del 14 mentre ero a Bruxelles per il Consiglio europeo. Ha accennato alle sue difficoltà ad allargare il gioco al Pdl, all’indisponibilità del M5S e all’importanza che almeno Scelta Civica partecipasse alle decisioni condivise, indicando un proprio nome per il Senato o per la Camera, purché non fosse il mio poiché gli risultavano obiezioni da parte di ambienti del Quirinale». 

 

Ma lei era al corrente di queste riserve del Capo dello Stato? 

«Me ne aveva fatto cenno, alcuni giorni prima, Napolitano. Gli avevo fatto presente che difficilmente si sarebbero verificate le condizioni politiche che avrebbero indotto Scelta Civica a contribuire alle decisioni; ma che, in quel caso, avrei ritenuto importante non sottrarmi al compito di far evolvere il quadro politico nel senso desiderato. L’attività del governo, con il Consiglio europeo che si sarebbe svolto da lì a poco, il 14-15 marzo, avrebbe potuto considerarsi conclusa e vi sarebbe stato modo di continuare per i giorni, o le poche settimane, ancora necessari affidando la guida del governo al ministro più anziano o a un vicepresidente del Consiglio. In quell’incontro, e in un altro avvenuto la sera del 15 marzo al mio rientro dal Consiglio europeo, il Presidente mantenne ferma la sua obiezione, motivata su elementi giuridici (dai quali, fatti fare a mia volta approfondimenti, mi permisi di dissentire rispettosamente) ma soprattutto, mi è parso, su valutazioni di ordine politico-istituzionale, in seguito espresse in un comunicato».

 

Insomma non è riuscito a convincere Napolitano. 

«Non mi restava che “obbedire” al capo dello Stato che così grande fiducia aveva dimostrato di avere in me, affidandomi la guida del Paese nel tempestoso novembre 2011. Dato il rapporto di stima e, se mi è permesso dire, di amicizia che il presidente mi ha consentito di avere con lui, non gli ho nascosto la mia amarezza. Mi sono sentito onorato dalle valutazioni del Presidente sul mio ruolo al governo ma al tempo stesso un po’ “prigioniero”. E mi dispiace che, su due piani completamente diversi di dignità e di senso di responsabilità verso il Paese, il divieto impostomi dal Quirinale possa aver fatto piacere a più d’uno degli “uomini di Stato” subdoli e manovrieri, che a volte si ritengono anche depositari esclusivi dei criteri della “moralità” nella politica».

 

A quel punto perché non ha proposto un altro nome di Scelta Civica? 

«Infatti ho prospettato questa possibilità ai miei colleghi il mattino del 16 marzo, prima della terza votazione. Ho anche detto loro che dal Quirinale mi era giunto il suggerimento di valutare l’ipotesi di indicare un nome per la Camera. Poi, anche perché si sentissero completamente liberi da ogni possibile disagio, mi sono assentato. Ma i gruppi parlamentari riuniti hanno escluso di indicare un altro nome».

 

Dopo di ciò è stato il Pdl a premere su di lei per ottenere che i voti dei senatori di Scelta Civica si spostassero su Schifani. Com’è andata questa seconda tornata di trattative? 

«Ne ho parlato con Gianni Letta. La trattativa riguardava esclusivamente la possibilità che Scelta Civica sostenesse la candidatura del Pdl per il Senato, a condizione però che il Pdl dichiarasse che non avrebbe frapposto ostacoli pregiudiziali alla nascita di un eventuale governo di centrosinistra presieduto da un esponente Pd (verosimilmente Bersani), sia pure senza votargli la fiducia, nell’interesse della governabilità. Proposta respinta. Così Scelta Civica, in coerenza con se stessa, ha votato scheda bianca, al Senato come alla Camera».

 

Resta un’ultima domanda da farle: dica la verità, non è un po’ pentito di essere entrato in politica? 

«Me lo hanno detto in tanti e mi hanno fatto capire che se ne fossi rimasto fuori avrei potuto aspirare ad altre e più importanti collocazioni. Eppure non sono affatto pentito. Al contrario penso di aver realizzato, insieme a quelli che mi hanno aiutato a mettere su un partito in pochi giorni, un risultato importante: se non ci fossero stati i nostri tre milioni di voti, Berlusconi avrebbe vinto le elezioni e oggi sarebbe lui a scegliere se tornare a Palazzo Chigi o farsi eleggere al Quirinale. Quanto a Bersani, al centrosinistra e al tentativo di allearsi con M5S, dovrebbero pensarci bene: il cammino che abbiamo fatto insieme per ritrovare un posto in Europa è stato tutto in salita. Si fa presto a rimettere in gioco un patrimonio di credibilità per timore di un nuovo passaggio elettorale e per un pugno di voti. Spero che ci riflettano bene».

da - http://lastampa.it/2013/03/18/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/monti-volevo-solo-la-governabilita-ecco-la-verita-sulle-trattative-con-pd-pdl-e-quirinale-G5gn7LVR06nJWiJzGNOoUJ/pagina.html
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« Risposta #564 inserito:: Marzo 23, 2013, 05:51:34 pm »

Editoriali
23/03/2013

Le incognite di una corsa a ostacoli

Marcello Sorgi

Se serviva una conferma delle condizioni di estrema difficoltà in cui ha preso avvio il tentativo di Bersani di formare il governo, è stato il presidente Napolitano a darcela in diretta ieri sera. Nel settennato che sta per concludersi, pur essendo passato per tanti momenti drammatici e situazioni da trincea, mai prima d’ora il Capo dello Stato aveva ritenuto di presentarsi in prima persona a spiegare le ragioni di un incarico che parte gravido di incognite. E se lo ha fatto, è perché il tasso di anomalia della situazione politica ha superato anche l’alto livello di tolleranza a cui l’Italia ci ha purtroppo abituato.

 

La chiamata di Bersani era in qualche modo motivata dal risultato elettorale che ha visto il centrosinistra prevalere (seppure «di poco», ha annotato il Presidente), ottenere la maggioranza alla Camera grazie al premio elettorale del Porcellum, e trovarsi invece ad avere al Senato solo una maggioranza relativa e nessuna alleanza in grado di portare i voti dei senatori mancanti. In questa situazione non c’erano che due possibilità: un accordo Pd-5 Stelle, che Bersani ha inseguito e visto naufragare giorno dopo giorno, fino alla certificazione dell’indisponibilità di Grillo registrata mercoledì dalle consultazioni. E un governo di larga coalizione, come quelli che in Europa sono nati e continuano a nascere (vedi Olanda) in questi casi: eventualità, questa, favorita da una disponibilità di Berlusconi ma esclusa da Bersani e dal Pd. 

 

Perché allora, in assenza dei soli sbocchi possibili, Napolitano s’è risolto egualmente a incaricare Bersani? Perché, è evidente, non vuole rassegnarsi. E spera, testardamente, che alla fine prevalgano il senso di responsabilità e la necessità di dare un governo al Paese - a parole dichiarati da tutti i componenti delle delegazioni salite al Quirinale. Di qui anche i vincoli espliciti e i paletti con cui il Presidente ha voluto accompagnare un mandato che in realtà, sia detto con tutto il rispetto, è assai limitato, un incarico dimezzato, rivolto ad accertare se in tutte e due le Camere si possa formare una maggioranza, e solo in quel caso proseguire nella formazione del governo. Su richiesta di Napolitano, Bersani ha dunque dovuto abbandonare la sua idea originaria, di comporre la lista dei ministri con personalità di spicco estranee ai partiti, e con quelle presentarsi alle Camere, confidando in una nuova ribellione dei senatori stellati.

 

Ma se queste sono le condizioni di partenza del tentativo del leader del Pd, è inutile nasconderlo: le sue possibilità di riuscita sono ridotte al minimo. La chiusura definitiva di Grillo (che tra l’altro ha messo sotto chiave i suoi dissidenti), l’impossibilità di accettare una qualche forma di accordo con Berlusconi, e l’esplicita limitazione imposta dal Capo dello Stato a progettare un approdo in Parlamento senza aver prima definito un accordo di maggioranza con possibili alleati riducono di molto i margini di manovra dell’incaricato. Bersani è un politico consumato e ha già dimostrato, nella vicenda dell’elezione dei presidenti delle Camere, di saper cambiar gioco, pur di arrivare al risultato. Ma stavolta, più che sperimentare una nuova tattica, si tratterebbe di fare un miracolo, come quello, s’intuisce da quel che è stato detto sul Colle, di convincere il Movimento 5 Stelle o il centrodestra, tutto o in parte, a lasciar partire il governo (con un’astensione o uscendo dall’aula del Senato) sulla base di un accordo-cornice sulle riforme istituzionali, che non necessariamente vincoli a far parte di una maggioranza.

 

Ovviamente tutto è possibile: la rottura di uno o più gruppi parlamentari al Senato e la nascita di sottogruppi, o gruppuscoli, motivati solo dall’intenzione di far nascere il governo ed evitare nuove elezioni anticipate. È già successo nel corso di altre legislature, non è detto che non possa capitare di nuovo, anche se i parlamentari sono ancora troppo freschi di elezione per navigare verso altre sponde. Oppure l’idea di un accordo limitato a una parte del centrodestra, vedi la Lega che si dice disposta a far patti con il diavolo, o un’altra qualsiasi forma di intesa sotterranea con il Pdl. Ma è da vedere che un governo con un compito così importante, come quello che Bersani si è assegnato, possa cominciare, o addirittura decollare, sulla base di un accordicchio, un «accrocchio», come lo chiamano a Roma, stipulato tra ambiguità e mezze promesse. Che un’intesa che si preannuncia così incerta possa allungare le sue ombre anche sulle prossime scadenze, a cominciare dalla corsa per il Quirinale. E soprattutto, che davvero sarebbe meglio questo, un governo che nasca zoppo e cerchi, non si sa come, di risanarsi cammin facendo, invece che il terribile, ma già sperimentato, «inciucio» Bersani-Berlusconi.

da - http://www.lastampa.it/2013/03/23/cultura/opinioni/editoriali/le-incognite-di-una-corsa-a-ostacoli-cx3khKOgFJmqVSD19lyjyJ/pagina.html
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« Risposta #565 inserito:: Marzo 31, 2013, 07:46:18 pm »

Editoriali
30/03/2013

La lunga notte della Seconda Repubblica

Marcello Sorgi

Se davvero sperava, a oltre un mese dalle elezioni, e sotto l’incalzare della crisi economica che ha visto di nuovo salire la febbre degli spreads, di riuscire a imporre una soluzione ormai non più rinviabile, Giorgio Napolitano, alla fine del terzo giro di consultazioni (dopo il primo che aveva portato al preincarico di Bersani e quello successivo del leader del Pd), ha dovuto prendere atto che è molto difficile trovare una via d’uscita per ridare un governo al Paese.

 

L’imbarazzo del Quirinale trapelava dal modo in cui s’è chiusa la giornata, con l’annuncio di una nuova pausa di riflessione del Capo dello Stato. I dati allineati con cura sullo scrittoio del Presidente segnalano un completo stallo, aggravato dalla chiara indisponibilità tra i partiti che dovrebbero concorrere a individuare uno sbocco. Malgrado gli alti e bassi che lo hanno accompagnato, il tentativo di Bersani si è arenato sul “no” pregiudiziale di Grillo, ribadito anche ieri, e sulla richiesta di Berlusconi, inaccettabile per il centrosinistra, di indicare il candidato alla successione di Napolitano. L’ipotesi di un rinvio di Monti alle Camere, per sancire un periodo anche breve di tregua in attesa di un’alternativa più solida o di nuove elezioni, s’è sciolta negli ultimi giorni, con l’incresciosa conclusione del caso dei marò, le dimissioni del ministro Terzi non concordate con nessuno e la drammatica richiesta alle Camere del presidente del consiglio di essere sollevato al più presto dalla sua responsabilità. Infine anche la possibilità di un nuovo governo tecnico, o del Presidente, spedito direttamente dal Colle in Parlamento per cercarsi una maggioranza, è franata di fronte all’opposizione di Berlusconi e Maroni, che ripropongono, ma senza molta convinzione, il governo di larga coalizione che il Pd non può nè vuole accettare.

 

Se non fosse che Napolitano, grazie alla sua esperienza e al carisma di cui gode, ci ha abituato a dei colpi di scena che intervengono sempre quando tutto sembra perduto, si dovrebbe ammettere che stavolta il Presidente non ha più carte da giocare. Chi gli è stato vicino in queste lunghe ore di consultazioni s’è accorto che la sequela di incontri reiterati con tutti gli esponenti della classe politica vecchia e nuova ha provocato in lui una specie di sconforto. Non tanto per la distanza delle posizioni e per la scarsa disponibilità a farsi carico dei problemi del momento, ma per l’assoluta incomunicabilità tra i leader e i vertici dei partiti. Se solo si riflette sul fatto che Bersani, in sei giorni di lavoro come per incaricato, non ha mai avuto un colloquio diretto con Berlusconi, neppure una telefonata, accontentandosi dei contatti informali tra i suoi luogotenenti e quelli del Cavaliere, si può capire fino a che punto sono caduti i rapporti interni alla classe dirigente. Quel telefono rosso, che, anche nei momenti peggiori della Prima Repubblica, suonava nelle stanze dei grandi avversari del tempo, oggi non solo tace, ma praticamente non esiste più. Ed è questo pesante silenzio, interrotto dal crepitare continuo di insulti e dichiarazioni di guerra, che, più di ogni altro aspetto, a Napolitano ha dato per la prima volta la sensazione di una crisi insolubile: di sistema, di uomini, di strategie.

 

L’unica cosa chiara è che i leader che non hanno vinto e non hanno perso le ultime elezioni non esitano a sfidarsi nuovamente e a trovare nel ricorso alle elezioni l’unico modo di camuffare la loro impotenza e impedire l’avvento di un cambiamento, che invano invocano, ma in realtà temono. Berlusconi sfoglia i sondaggi che hanno riportato in testa il Pdl e sogna di rigettarsi in campagna elettorale. Bersani teme la resa dei conti con il suo partito e sa che le urne subito sgombererebbero dal campo il rischio di vedersi sostituito - da Renzi o da altri - alla guida del Pd. Grillo conta di avvantaggiarsi dal fallimento evidente di centrosinistra e centrodestra, seguito ai risultati del 25 febbraio.

 

È di fronte a un quadro così scomposto che il Capo dello Stato si trova a riflettere. Non gli sfugge che il suo mandato giunto agli ultimi giorni, e i suoi poteri limitati dal ritorno del semestre bianco dopo il voto, lo mettono in una condizione di maggiore difficoltà, rispetto all’egoismo e alle volontà contrastanti delle forze politiche. La leva dello scioglimento anticipato delle Camere, l’unica che forse potrebbe spingere a un ripensamento i suoi interlocutori (perché un conto è parlare di ritorno al voto, e un conto è trovarcisi davvero), Napolitano non ce l’ha più. Ed è un’ulteriore debolezza di fronte a una situazione che richiede interventi d’eccezione.

 

Forse è anche per questo che tra le riflessioni ascoltate dal Presidente qualcuno dei suoi interlocutori ha creduto di cogliere anche una disponibilità a dimettersi in anticipo e ad accelerare l’elezione del suo successore, che tornerebbe nel pieno dei poteri. Un rovello carico di incognite, a cominciare dalle reazioni degli osservatori stranieri, che considerano Napolitano l’ultimo punto di riferimento stabile in un Paese da tempo sull’orlo di un baratro e da mesi privo di un governo in grado di funzionare. E una decisione che il Presidente sta maturando in piena solitudine e che potrebbe essere annunciata nelle prossime ore. Così, «nave senza nocchiero in gran tempesta», l’Italia e la Seconda Repubblica sono entrate tutt’insieme nella loro notte più lunga.

da - http://lastampa.it/2013/03/30/cultura/opinioni/editoriali/la-lunga-notte-della-seconda-repubblica-dYNks5jLTG6DY4258BYJWM/pagina.html
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« Risposta #566 inserito:: Aprile 16, 2013, 12:14:17 am »

Editoriali
15/04/2013

Se il Professore fosse di tutti

Marcello Sorgi


A quattro giorni dall’inizio delle votazioni per il Capo dello Stato, s’è aperto un nuovo caso, che rischia di pregiudicare definitivamente le già scarse possibilità d’intesa per l’elezione di un Presidente di larga condivisione, che possa essere già proclamato al primo scrutinio delle Camere riunite, come accadde per Ciampi nel ’99. Il caso riguarda Romano Prodi: è bastato che il nome dell’ex presidente del Consiglio ed ex presidente della Commissione europea saltasse fuori a sorpresa, sia pure in compagnia di altri candidati più vicini al Movimento, dalle Quirinarie convocate sulla rete da Beppe Grillo, per attizzare un incendio di polemiche, non solo tra i militanti 5 Stelle, che sospettano un inquinamento della loro consultazione, ma anche tra centrodestra e centrosinistra: da quasi due mesi, come si sa, alla ricerca di un accordo impossibile sul Colle e sul governo.

Coincidenza ha voluto che sabato pomeriggio, proprio mentre Berlusconi, nell’affollatissima manifestazione di Bari, che a tutti ha dato la sensazione di una riapertura della campagna elettorale, additava Prodi al pubblico ludibrio del suo popolo (”Impazzireste di gioia se il nuovo Presidente della Repubblica fosse Romano Prodi?”. “Noooooo!”), il faccione dell’ex capo dell’Ulivo spuntasse dalla decina dei selezionati nelle Quirinarie. 

Preso dal tripudio della sua gente, che urlava a perdifiato «Silvio, Silvio!», Berlusconi aveva sferrato il suo attacco senza saperlo e senza che nessuno lo avvertisse per tempo. Ma quando, a cose fatte, la notizia gli è stata comunicata, il Cavaliere ha ordinato un fuoco di sbarramento, che ieri è andato avanti per tutto il giorno.

La ragione di questa controffensiva è facile da capire: poiché le possibilità di un accordo tra Pdl e Pd sono ridotte al lumicino, si allontana di conseguenza, giorno dopo giorno, l’eventualità che il successore di Napolitano possa essere eletto alla prima votazione, o in una delle tre che richiedono, Costituzione alla mano, due terzi dei Grandi elettori. Dalla quarta in poi, quando basterà la maggioranza assoluta di 504 voti, Prodi, sulla carta, e anche grazie alla designazione uscita ieri dalle Quirinarie grilline, potrebbe diventare il candidato che ha più voti per essere eletto: né più né meno come avvenne per Napolitano nel 2006.

La differenza tra i due sta nel fatto che per Napolitano, anche se informalmente, Berlusconi aveva dato via libera («Non lo voto ma posso conviverci», rispose a Fassino che glielo proponeva). Mentre su Prodi ha alzato le barricate: chiunque, ma non lui. Parola più, parola meno, è ciò che ha ripetuto a Bersani dall’inizio della trattativa. Il resto delle condizioni poste dal Cavaliere per votare un candidato del Pd, a partire da quella di un governo con ministri anche del Pdl, sono pesanti. Ma, come s’è capito via via, negoziabili: perché veramente, dopo un ventennio di divisioni e contrapposizioni, il Cavaliere stavolta vuol dimostrare che solo lui è in grado di siglare l’armistizio, nel momento in cui il Paese ne ha bisogno.

Sul nome di Prodi, invece non transige: e occorre riconoscere che qualche ragione ce l’ha. Arrendersi all’unico leader del centrosinistra che per due volte, nel ’96 e nel 2006, lo ha battuto nelle urne, è un po’ troppo per chi ama elencare i sei che ha mandato a stendere, da Occhetto a Veltroni. Prodi inoltre è il solo che, anche dopo la fine della competizione diretta, non ha mai rivolto al «nemico» Silvio un cenno di pacificazione. In un modo o nell’altro, magari sottobanco e solo in certe delicate occasioni, gli altri hanno trattato: chi più, chi meno. Prodi mai.

E tuttavia è proprio questo particolare e intrinseco aspetto dell’avversario che dovrebbe convincere Berlusconi a ripensarci. Il paradosso di questa vicenda, infatti, è che se l’ex leader dell’Ulivo dovesse trasformarsi in candidato di ampia condivisione, e potesse essere eletto al primo scrutinio con una larga e qualificata maggioranza – comprensiva, oltre che del Pd, anche del Pdl e, tutto o in parte, del Movimento 5 Stelle – non sarebbe più la stessa persona e non potrebbe più comportarsi come uomo di parte. Non solo perché lo richiede il ruolo di Presidente della Repubblica, che rappresenta istituzionalmente l’unità del Paese. Ma soprattutto perché i voti del centrodestra, e di Grillo, diventerebbero vincolanti come e più di quelli del centrosinistra. 

L’elezione del nuovo Capo dello Stato avverrebbe nel pieno rispetto della Costituzione, che richiede espressamente larghe intese per la più delicata delle scelte istituzionali. E la tregua siglata in un’occasione così rilevante consentirebbe poi, nell’immediato prosieguo, ma senza scambi che la Carta non contempla, di esaminare con spirito più sereno la questione del governo e la gravità di una crisi come quella italiana, lasciata ormai a marcire da troppo tempo dopo il voto del 24 febbraio.

Sarebbe bello, dopo sette settimane di testarde contrapposizioni, un sussulto di ragionevolezza. Eppure, siamo pronti a scommettere sul contrario. Bersani e Berlusconi, che già sabato, dai palchi dei rispettivi comizi, se ne sono dette di tutti i colori, troveranno nuovi argomenti di rottura. A meno di un miracolo, l’accordo per una larga condivisione, e un’elezione al primo scrutinio, non si farà. Il nuovo Presidente sortirà da una delle votazioni successive, con una maggioranza appena sufficiente, raggiunta, com’è accaduto altre volte in passato, senza accordi espliciti e grazie all’aiuto dei franchi tiratori. Questa, malauguratamente, è la più attendibile previsione della vigilia. A meno che Berlusconi, e ovviamente anche Prodi, non ci ripensino e si stringano finalmente la mano.

da - http://lastampa.it/2013/04/15/cultura/opinioni/editoriali/se-il-professore-fosse-di-tutti-7QJbBYrAmbN1r7f1nfh2uK/pagina.html
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« Risposta #567 inserito:: Aprile 18, 2013, 06:26:15 pm »

Editoriali
18/04/2013

Il peso del fattore “vecchia Dc”

Marcello Sorgi


La corsa al Quirinale, si sa, è tradizionalmente ricca di colpi di scena, e la tela che si fa di giorno, si disfa la notte. Questa per il dodicesimo Presidente, poi, è una trattativa così difficile e impervia, per il risultato sterile delle urne del 25 febbraio, che c’è poco da scommettere su come finirà. 

Ma se davvero sarà Franco Marini ad essere eletto Presidente della Repubblica, questa mattina alla prima votazione delle Camere riunite, si potrà dire, a ragion veduta, che a vincere, o a rivincere, è la vecchia Dc. Parafrasando il grande Luigi Pintor, fondatore del «manifesto», che esattamente trent’anni fa titolò speranzoso «non moriremo democristiani», a denti stretti si dovrà ammettere che sarà proprio grazie ai democristiani, invece, se anche stavolta sopravviveremo. 

La ragione di questa conclusione - che ieri notte, va detto, è stata quasi capovolta nell’assemblea dei grandi elettori Pd e rifiutata da Vendola - è molto semplice: in mezzo a un mare di suoi colleghi, intenti, chi per dilettantismo e chi per risentimento, a farsi una guerra senza esclusione di colpi, Marini, senza muovere un dito, come insegna la più antica scuola Dc, ha infilzato uno dopo l’altro i suoi concorrenti. A far fuori Prodi, il suo più insidioso rivale, ci hanno pensato Berlusconi e Grillo. Di eliminare Amato, che fino a martedì sera era in pole position, se ne sono fatti carico Rosy Bindi e i prodiani. D’Alema, pur non dichiaratamente, aveva contro Bersani, perché un comunista al Quirinale avrebbe sbarrato al leader del Pd la strada per Palazzo Chigi.

E con il suo attacco frontale contro la Finocchiaro e lo stesso Marini, Renzi ha sortito l’effetto opposto. Quanto a Berlusconi, avrebbe votato chiunque, l’ha detto fin dal primo momento, pur di non andare all’opposizione. 

Servirgli su un piatto d’argento il candidato Marini, legato a Gianni Letta dalle comuni radici e da una consuetudine inossidabile, è stato un altro capolavoro del leader Pd, che oggi rischia di essere contraddetto dai suoi parlamentari. Bersani, d’altra parte, non poteva fare altro. La strada dell’intesa con i 5 Stelle s’era chiusa con il tentativo fallito di farci insieme un governo. E se Grillo avesse voluto riaprirla, doveva gigioneggiare un po’ meno, e smetterla di giocare per due giorni con la Gabanelli. Quanto ai professori, ai tecnici e agli alti magistrati che si sono affacciati nella trattativa, da Cassese, a Mattarella a De Rita, entrando e uscendo dalle molte rose circolate in questi giorni, avevano quasi tutti in comune una caratteristica e un limite: o erano democristiani o parademocristiani. Ma tra un Dc surgelato o spedito in pensione, e uno genuinamente ancora in servizio, come Marini, non c’era match. Bersani, come titolare della trattativa, ha pensato che questa fosse l’unica via d’uscita. Senza tener conto degli umori ribollenti delle varie anime del suo partito che sono esplosi nella notte e adesso puntano a sconfessare l’intesa siglata dal segretario.

Diceva Giulio Andreotti, suo mentore e avversario nell’epica battaglia per la presidenza del Senato, l’ultima combattuta dal Divo Giulio: «Il viale del tramonto è lungo e bello, Dio me lo conservi!». Marini, già leader sindacale, ministro, segretario del Ppi, con un soprannome, «lupo marsicano», che tradisce le sue radici abruzzesi, quel viale non ha fatto in tempo a imboccarlo, che subito è stato richiamato in servizio. Eppure, come erede della grande tradizione scudocrociata, Franco il lupo, che ha appena compiuto ottant’anni, occorre riconoscerlo, è un po’ anomalo. Gran parte della carriera, infatti, l’ha costruita nella Cisl, che ha guidato per sei anni, dal 1985 al ’91, in tempo per ereditare, alla morte di Carlo Donat-Cattin, la corrente di Forze Nuove e il posto di ministro del Lavoro nel VII governo Andreotti.

Nel passaggio tra la Prima e la Seconda Repubblica Marini aveva dato un contributo notevole, con la sua testardaggine abruzzese, a salvare il salvabile di quel ch’era rimasto della Dc.
E di Prodi che voleva scioglierla nell’Ulivo, non a caso, è sempre stato un leale oppositore. Come segretario, dal ’97, del Ppi, primo erede del vecchio partitone cattolico (Margherita e Pd verranno dopo), aveva stretto due rapporti, solidi e decisivi, con D’Alema e Berlusconi, che gli sono tornati utili anche adesso. Era stato Marini, in alleanza con Cossiga, che aveva fondato apposta un suo partitino personale, a portare D’Alema, primo (post) comunista a Palazzo Chigi, nel ’98. E sempre lui a impostare il rapporto con il Cavaliere in termini di amicizia, alla democristiana, e solo successivamente di collaborazione-competizione. La battaglia del 2006, con il centrodestra che gli schierò contro come avversario per la presidenza del Senato nientemeno che Andreotti, poté svolgersi così in termini civili. Tanto, come dimostrarono i franchi tiratori, gli avversari di Marini stavano più nel centrosinistra che tra i berlusconiani, e l’osso più duro sarebbe stato naturalmente un Dc, Clemente Mastella.

Il passaggio decisivo, con Berlusconi, avvenne due anni dopo: Marini, ricevuto il mandato esplorativo come presidente del Senato, dopo la crisi del secondo governo Prodi, quando Berlusconi gli comunicò che non c’era spazio per il suo tentativo, non si espresse né in un senso né in un altro. Non insistette, non fece una piega, limitandosi a una pura registrazione istituzionale. «Con la sua correttezza, lei s’è guadagnato un credito», si congedò da lui, soddisfatto, il Cavaliere. Chissà se il lupo marsicano con la coppola e la pipa immaginava che il tempo di riscuoterlo sarebbe arrivato così presto.

da - http://lastampa.it/2013/04/18/cultura/opinioni/editoriali/il-peso-del-fattore-vecchia-dc-xqCtmj3xEzzSJXySy3MX1L/pagina.html
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« Risposta #568 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:18:28 pm »

Editoriali
21/04/2013

Le riforme per ritrovare credibilità

Marcello Sorgi

Giorgio Napolitano é atteso a un impegno molto duro, anche più di quel che farebbe immaginare l’eccezionalità del secondo mandato, affidatogli ieri sera da una larghissima maggioranza parlamentare. Le divisioni che per due giorni avevano reso impossibile l’elezione di un nuovo presidente non sono affatto risolte.

E sono appena cominciati, purtroppo, gli effetti dell’implosione che ha portato il Pd, partito di maggioranza relativa, dopo aver rivendicato per quasi due mesi la guida del governo, ad affossare uno dopo l’altro i suoi candidati, e a far apparire l’aula della Camera una specie di Somalia dominata da capitribù. La tregua accordata dal centrodestra al centrosinistra è nata dal sospiro di sollievo, tirato da Berlusconi di fronte alla rottura tra Pd e Movimento 5 Stelle, e tra Pd e Sel. Ma riguarda, al momento, solo il Quirinale; mentre sul governo che adesso dovrebbe nascere, tra avversari che dovrebbero tornare alleati, al di là di un consenso di massima, c’è molto sottinteso e qualche intuibile malinteso.

 

Diciamo la verità: il gesto di Napolitano di accettare di restare al Quirinale è una grande prova di generosità, perché davanti ai suoi occhi c’è una distesa di macerie. Ricomporle, convincere i terremotati del Parlamento a cominciare subito un’opera di ricostruzione, non sarà affatto semplice. E sarà una responsabilità che peserà, almeno nei primi tempi, sulle spalle del Capo dello Stato. Napolitano sarà, dovrà essere necessariamente, una specie di presidente-commissario: non è solo all’inizio di un nuovo mandato, ma alle soglie di una nuova complicata trasformazione del suo ruolo. Ecco perché, fin dal momento di annunciare la propria disponibilità, e successivamente, quando gli è stata formalmente comunicata dai presidenti delle Camere la rielezione, il Presidente ha voluto richiamare i partiti e i parlamentari finora impotenti a prendersi le proprie responsabilità. E a fare il proprio dovere, di fronte a un’opinione pubblica annichilita da quel che è accaduto negli ultimi giorni.

 

Se solo si riflette sul programma che il Presidente si era assegnato al momento della sua prima elezione, era già chiaro da tempo che gli obiettivi prefissi erano stati centrati solo a metà. Napolitano era, sì, riuscito, grazie anche a qualche energico colpo di barra al timone, a imporre un’evoluzione del quadro politico resa necessaria dal progressivo logoramento del centrodestra e dello stesso Berlusconi. Ma sul piano delle riforme, di cui aveva sottolineato l’urgenza, e la necessità, per le forze politiche, di collaborare al fine di colmare i ritardi, il Presidente, malgrado la sua incessante opera di persuasione, aveva dovuto misurare una delusione.

 

Il suo lavoro riparte da qui. E non gli basterà - lui è il primo a saperlo - ammonire, suggerire, consigliare, come ha fatto nei suoi primi sette anni. A giudicare da quel che s’è visto in Parlamento, in una delle settimane più nere della storia della Repubblica, gli toccherà adoperare la frusta e alzare la voce quando serve. Questo, ovviamente, a cominciare dal suo ex-partito, che dopo aver provocato un disastro incommensurabile, umiliando il Parlamento in una delle occasioni più rilevanti, come le votazioni a Camere riunite per eleggere il Capo dello Stato, è andato a scongiurare Napolitano di rimettersi a disposizione per trovare una soluzione. Ma senza escludere che possa servire anche per gli altri, sia quelli che hanno accompagnato la rielezione, sia quelli che non l’hanno condivisa, scegliendo l’opposizione e i vantaggi di parte come Vendola, o rivendicando, con parole a vanvera, come Grillo, una sorta di inammissibile libera uscita.

 

C’è da mettere su un governo che governi e possa contare su una maggioranza in grado di approvare le decisioni necessarie per far fronte alla crisi economica e ai pesanti problemi del Paese. Ci sono riforme urgenti, come quelle indicate nel programma dei saggi, che Napolitano pensava di lasciare in eredità, e che potrebbero servire, se realizzate, a far recuperare credibilità a una classe politica piegata dal vento dell’antipolitica. Serve tagliare il numero dei parlamentari, limitarne i privilegi, differenziare i compiti delle Camere, rafforzare i poteri del premier. È indispensabile riformare il Porcellum: lo ha dimostrato, tra l’altro, l’inutile ricerca di un candidato non condiviso al Quirinale, che non poteva essere eletto con la sola forza del premio elettorale.

Poi, con un po’ di coraggio, a conclusione di questa vicenda bisognerebbe riflettere anche sul Capo dello Stato, chiamato non da oggi, ma particolarmente oggi, a un ruolo che supera quello formalmente assegnatogli dalla Costituzione. In questo senso, quando avrà finito il suo compito, Napolitano potrà diventare non solo il primo Presidente ad essere stato riconfermato al Quirinale. Ma anche l’ultimo ad essere stato eletto dal Parlamento e non dal popolo.

da - http://www.lastampa.it/2013/04/21/cultura/opinioni/editoriali/le-riforme-per-ritrovare-credibilita-YeVIclrFrFveW4PskOgOvK/pagina.html
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« Risposta #569 inserito:: Aprile 27, 2013, 05:33:55 pm »

Editoriali
27/04/2013

La sindrome del “governo amico”

Marcello Sorgi

A dispetto di molte previsioni ottimistiche, l’ultima notte di vigilia è stata inquieta. E non, come vuole la tradizione, perché, si sa, la lista dei ministri può considerarsi definitiva solo quando viene letta al Quirinale, e la storia delle crisi italiane è piena di aneddoti su cancellazioni e sostituzioni di nomi avvenute un minuto prima. Ovviamente, come aveva previsto anche Enrico Letta, il toto-ministri infuria. Ma s’intuisce che il problema vero è un altro.

 

Malgrado gli sforzi fatti da Napolitano, infatti, il Pd non riesce a digerire l’idea di far parte di un governo di larghe intese con Berlusconi. I tentativi di indorare la pillola dandogli un nome diverso, «del Presidente», «di convergenza», «di servizio», finora non sono serviti a niente. Gli artifizi sulla delegazione che per conto del partito dovrebbe affiancare Letta non hanno egualmente portato a nulla: non funziona né l’idea di un paio di ministri giovani (anche se l’incaricato ha detto che non vuole gente che «debba fare la scuola guida») affiancati da super tecnici (tipo Saccomanni), né quella delle vecchie glorie (Amato e D’Alema) che facciano da nave scuola.

 

E la ragione per cui nessuna di queste ipotesi rappresenta una soluzione è politica, non necessariamente legata ai nomi. Il Pd, in altre parole, non ha ancora risolto il nodo della pacificazione, seppur temporanea, con il Giaguaro che fino a poco fa voleva «smacchiare». E cerca il modo di far nascere il governo senza aderirvi fino in fondo: un po’ come la vecchia Dc ai tempi dei «governi amici», guidati e composti da propri esponenti, ma senza poter contare sull’effettivo appoggio del partito. Le dichiarazioni esplicite allineate fino a ieri, si tratti dell’ex-presidente del partito Bindi o dell’ex-ministro del lavoro Damiano - per non dire del giovane Civati, che ha lanciato l’allarme sui «traditori che diventeranno ministri» - sono una chiara conferma di tutto ciò. E preoccupante è il computo di una cinquantina di parlamentari indisponibili, o magari disposti solo a denti stretti, a votare la fiducia, e di conseguenza pronti a trasformarsi in franchi tiratori nelle prime votazioni sui provvedimenti del governo.

 

Ma accanto a queste più o meno esplicite riserve, c’è un interrogativo di fondo che investe tutto o quasi il corpo del partito: perché mai noi Democrat dovremmo entrare, non in un esecutivo di larghe intese voluto/imposto da Napolitano, ma in una coalizione di cui Berlusconi è il vero padrone, come azionista di riferimento che può togliere la fiducia quando gli pare? E di cui Letta, anche come nipote di suo zio, non è il vero presidente del Consiglio, ma una sorta di sottoposto del Cavaliere? A dimostrazione di questo ragionamento, che in tanti, nel Pd, svolgono a bassa voce con queste stesse parole, si cita il fatto che le consultazioni hanno subito un intoppo preventivo, con la dura dichiarazione di Alfano sul «governo balneare», quando Berlusconi ha ordinato di frenare. E sono poi proseguite sul velluto, quando lo stesso Berlusconi, richiesto da Napolitano, da Dallas ha dato pubblicamente il suo via libera.

 

È innegabile che sia esattamente quel che è accaduto. Ma l’errore del Pd - non di tutto, ma di una sua parte consistente - sta nello scambiare per causa quel che invece è manifestamente l’effetto del proprio atteggiamento. Berlusconi, e con lui tutto il Pdl, hanno detto dal primo giorno dopo le elezioni che il risultato uscito dalle urne non lasciava altra scelta che un governo di larghe intese o il ritorno ad elezioni. Era la stessa indicazione venuta dal Quirinale: tanto che il Presidente, quando ancora non pensava di poter essere rieletto, rendendosi conto che i suoi sforzi in questa direzione non trovavano ascolto presso il suo vecchio partito, aveva voluto egualmente connotare, con la nomina della commissione dei saggi e il documento che ne era sortito, la conclusione del settennato. Ma anche in questo caso, tolto Renzi ed escluso Violante, che era uno dei saggi, da parte Pd non era venuto alcun segno di ripensamento. Almeno fino alla rielezione di Napolitano e al secondo giro di consultazioni, in cui il vertice del partito, dopo le dimissioni di Bersani, finalmente s’era espresso ufficialmente a favore della nascita del governo.

 

Si dirà che bisogna tener conto del travaglio in cui il Pd è immerso e che una pacificazione, provvisoria per quanto sia, con il nemico di una guerra durata vent’anni, non si fa da un giorno all’altro. O ancora che gli effetti della distruttiva battaglia interna, che ha portato al siluramento di ben due candidati per il Colle, non si digeriscono tanto facilmente. Inoltre, seppure si sia stabilita una tregua, quanto solida non si sa, tra le diverse correnti, alla guida del partito in questo momento non c’è nessuno. Lo stesso Letta, che come vicesegretario s’era assunto il compito di gestire questa fase fino al congresso, ricevendo l’incarico da Napolitano è diventato fatalmente parte, e non più garante dell’armistizio. Occorre, insomma, più comprensione per un passaggio di una complessità inaudita.

 

Tutto vero. E immaginarsi se qualcuno sottovaluta le complicazioni di un accordo di larghe intese. Anche in Germania, quando l’hanno fatto, non è stato di certo dalla sera al mattino. E in Italia, se pensiamo al governo Andreotti del lontano 1976, ci vollero più di centoventi giorni, quattro mesi, prima di mettere le firme. Con la differenza che sia in Germania, sia in Italia, i partiti già avversari, che dovevano divenire alleati, lavoravano convintamente al raggiungimento del risultato.

 

A ben vedere, la debolezza del Pd sta in questo: nel credere di potersi consentire incertezze e divisioni, e di arrivare, in conclusione, a un mezzo accordo o a un’intesa poco convinta sul governo, perché tanto a volere la grande coalizione è soprattutto Berlusconi. Una strana convinzione, chissà fondata su cosa, che parte da un’ulteriore sottovalutazione del Cavaliere. Al contrario, quest’atteggiamento del Pd non cambia, la sorpresa delle prossime ore potrebbe essere opposta: il governo, o si fa oggi, o non si fa più. Il centrodestra dà legittimamente la colpa al centrosinistra. E torna il rischio di elezioni, con i sondaggi che danno già Berlusconi per favorito.

da - http://lastampa.it/2013/04/27/cultura/opinioni/editoriali/la-sindrome-del-governo-amico-HBoHlMva81AqiyCd5mpArJ/pagina.html
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