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Autore Discussione: L’orecchio triestino di Bobi Bazlen.  (Letto 2804 volte)
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« inserito:: Settembre 25, 2017, 12:46:11 pm »

LETTERATURA

L’orecchio triestino di Bobi Bazlen
01 settembre 2017

Il 28 luglio 1965 Roberto Bazlen è atteso a pranzo, a Milano, da Eugenio Montale, che gli ha fatto preparare uno dei suoi piatti preferiti. Impensierito dal ritardo di un amico sempre indaffarato ma sempre puntuale, Montale telefona alla casa editrice Adelphi, nata da poco, della quale Bazlen è uno degli ispiratori e fondatori assieme a Luciano Foà. Piero Bertolucci si reca all’Albergo Torino, che è a pochi passi. Bazlen è a letto, con una gamba piegata sul letto nell’atto di farsi forza per alzarsi in piedi, ucciso da un versamento pleurico la notte precedente. Accorre da Adelphi Luciano Foà, il grande amico degli ultimi decenni. «Era l’unico amico della mia vita» afferma lo scrittore triestino Stelio Mattioni, una delle scoperte letterarie di Bazlen. Da pochi mesi era mancato un altro grande amico e “allievo” di Bazlen, lo scrittore Quarantotti Gambini.

Di Roberto Bazlen, Bobi per gli amici, nato a Trieste il 9 giugno 1902 dal padre Eugen, che morirà poco più di un anno dopo, e da Clotilde Levi Minzi, conoscevamo il ruolo essenziale di lettore e ispiratore editoriale, di tramite impareggiabile tra la cultura italiana e centroeuropea, la fama e quasi la leggenda di uomo troppo intelligente per scrivere in proprio, se non lettere e pareri sui libri. Ma la persona, la formazione, il contesto ambientale, le amicizie, gli affetti, i gusti personali, l’inquietudine e il moto perpetuo emergono soltanto ora da questo magnifico libro di Cristina Battocletti, frutto di anni di ricerche su materiali in gran parte inediti. Ora possiamo dare un volto non soltanto all’uomo, ma anche al ricchissimo ambiente culturale che gli sta intorno, da Trieste a Genova, Milano, Venezia, Roma e a tutta Italia, sulle tracce di spostamenti continui, guidati dal lavoro, dall’estro, dal desiderio della scoperta.

Non uno, dunque, ma una galleria di ritratti: di amici, di scrittori (e quali scrittori, tra Svevo, Saba e Montale), di psicoanalisti, di editori, di figure femminili. Gerti, Duška, Linuccia, Silvana, Ljuba sono amiche, a volte compagne, verso le quali spesso l’amicizia e la stima prevalgono su sentimenti più appassionati. Anche se tra i molti giudizi contraddittori su Bazlen non mancano né la fama di seduttore né il sospetto di impotenza.

Fra i ritratti non sfigurano quelli dei luoghi. I caffè triestini, frequentati, agli inizi del secolo, da combriccole di “artisti, ebrei e irredentisti”; la Pensione Seguso di Venezia, alle Zattere, punto d’incontro di poeti e intellettuali e teatro del primo colloquio di Bazlen con Stelio Mattioni; le due stanze di Bazlen in via Margutta 7, presso le sorelle Capanna, a due passi dal set di Vacanze romane.

Amicizia e curiosità intellettuale sono i fili conduttori di questa vita dedicata ai libri degli altri e di questo libro che la ricrea scavando con passione tra lettere, ricordi, testimonianze. Non era facile raccontare un uomo che ha scritto così poco di sé, se non nelle lettere, un nomade che, per quanto socievole, non ebbe mai «un matrimonio, un figlio, un contratto di lavoro stabile, una casa di proprietà», un intellettuale controverso, ammirato ma anche detestato per i suoi giudizi, non solo letterari.

I rapporti con gli amici, e in particolare con le coppie, diventano spesso pericolosi, perché Bazlen è prodigo di consigli a volte imbarazzanti. Lina, la moglie di Umberto Saba, lo chiama “il maledetto gobbo”, probabilmente non perché è sempre chino sugli esemplari della celebre libreria di suo marito, ma perché non approva il suo forte legame con la figlia Linuccia, che ha otto anni meno di lui e diventerà poi la compagna del pittore e scrittore Carlo Levi. Renata, la moglie del critico Giacomo Debenedetti, lo definisce “il nemico delle mogli”. Ma alla sua influenza nefasta sulle coppie Cristina Battocletti crede poco. In alcuni casi «ha solo accelerato una rottura inevitabile», in altri i suoi giudizi hanno funzionato al contrario, come una cartina di tornasole. I consigli a Montale su Drusilla Tanzi (la “Mosca”) gli costarono lunghi anni di freddezza, ma il legame tra il poeta e la sua compagna restò forte come prima.

Fece scandalo un giudizio di Bazlen dopo la morte di Italo Svevo (1928) ripubblicato in un’antologia di Adelphi. Ma il poeta Sergio Solmi lo difende dicendo che «simili paradossi erano consueti in lui». In altre parole, Bazlen non va preso sempre alla lettera. Solmi ha ragione. Le opinioni di Bazlen sono spesso estemporanee, dettate dall’estro momentaneo. Verba volant, per questo possono concedersi il lusso della sincerità. Certi giudizi di Bazlen, pur non orali, dovrebbero assimilarsi ai verba. Non per nulla ha scritto così poco!

Bazlen aveva i suoi difetti ma «era una finestra spalancata su un mondo nuovo». Così lo ricorda Montale, e continua: «Viveva negli interstizi della cultura e della storia, rifiutando sempre di apparire alla ribalta», ma sapeva «fiutare il talento degli altri e farlo correre». Che cosa è questa, se non generosità? Secondo Solmi, conosciuto alla scuola allievi ufficiali di Parma nel 1918, gli piaceva «agire per interposta persona... pago di quella sua posizione di eminenza grigia». In compenso aveva «un fiuto impareggiabile e quasi divinatorio per la cultura e altre cose».

Cristina Battocletti ne ricerca le radici nella storia intellettuale di Bazlen, a partire dal contesto triestino, che diede alla sua mente l’apertura europea che la caratterizza e in cui svolsero un ruolo determinante le radici ebraiche, la cultura tedesca, la crisi del “finis Austriae”, la psicoanalisi. Su di essa Bazlen è piuttosto reticente (il suo “diario della psicoanalisi” è stato distrutto), ma non ci sono dubbi sull’importanza dei suoi legami con lo psicoanalista Edoardo Weiss e la sua cerchia. Bazlen era uno spirito troppo indipendente per aderire a una scuola, con i suoi diktat e i suoi tabù. Lettore di Freud ma anche di Jung, era incompatibile con ogni approccio di tipo positivistico. E forse per ribadire la sua indipendenza di spirito non dissimulava la sua simpatia per le credenze astrologiche e ostentava pratiche scaramantiche che definiremmo irrazionali.

Qual era dunque il vero talento di Bazlen? Se, arrampicando, si pianta un chiodo di assicurazione in una fessura della roccia, è importante che quel chiodo tenga, cioè resista a un’eventuale caduta. È una questione di orecchio. Tiene il chiodo che, entrando nella fessura a colpi di martello, “canta”. Ecco, Bazlen aveva un orecchio infallibile per il testo che “canta”, e che dunque terrà nel tempo. Non sempre sarà “bello”. Ma sarà, così si esprimeva Bazlen, “necessario”, perché dice qualcosa di nuovo di cui non potremo più fare a meno. Se Bazlen crede in un testo o in un autore non ci sono limiti alla sua abnegazione, non si tira indietro neppure di fronte a richieste insistenti o scomode. Se non fu lo “scopritore” di Svevo ne fu certo il più appassionato ed efficace sostenitore. Il libro segue passo passo l’emergere di Svevo alla fama, soprattutto grazie alle recensioni di Montale promosse da Bazlen. Non mancano certo i giudizi controcorrente. Bazlen non sopporta Ladri di biciclette di Vittorio De Sica: «L’Italia non è mai caduta così in basso». Tra i «buoni scrittori di poca sostanza» annovera Thomas Mann; e si può capire da parte di un sostenitore di Robert Musil, il quale chiamava ironicamente Mann “il grande scrittore” (che in tedesco può anche significare “scrittore all’ingrosso”). Heimito von Doderer è «il vuoto assoluto», la poesia di Saba «bella ma inutile», Il Gattopardo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa «un buon technicolor da e per gente perbene». Troppo severo? Forse. Ma lo fu ancora di più con se stesso: il suo orecchio gli vietò di scrivere in proprio.

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