INTERVISTA
«Scontro fra centri e periferie Ma dopo tutto quest’odio tornerà il pensiero razionale»
Lo scrittore Adriaan van Dis: politica incapace di ascolto
Di Maria Serena Natale
«È il pendolo della Storia in movimento. Abbiamo attraversato una fase di regressione e ripiegamento, come sempre dopo periodi di espansione. Al consolidamento dell’ordine liberale segue una richiesta di politiche securitarie. All’apertura dei confini, i muri. Tutta questa concentrazione di aggressività, però, chiama un ritorno al pensiero razionale. La posta in gioco non è mai stata tanto alta. La forte affluenza e i risultati del voto sono la prova che la società l’ha compreso». Adriaan van Dis dissemina le sue storie di tracce: del passato coloniale, di sentimenti sepolti, di parole inascoltate. Nel clima da scontro epocale di queste elezioni, il grande scrittore olandese legge i segni di una rottura che finora la politica non ha saputo ricomporre tra «progressisti e arrabbiati».
Stati emotivi che si traducono in una polarizzazione alla quale non è immune neanche il Grande Nord del Welfare e dei diritti. Cosa è mancato in Olanda?
«L’ascolto, la capacità di prendere sul serio la rabbia sociale che montava. La globalizzazione non è certo un fenomeno recente, ma c’è voluto del tempo perché i suoi effetti si trasformassero in combustibile politico. Oggi siamo a quel punto. L’estrema flessibilità del mercato del lavoro, la progressiva disconnessione tra centri produttivi e periferie con la conseguente sensazione di abbandono delle province olandesi, francesi, tedesche o italiane... tutto questo ha indebolito la coesione sociale e rafforzato la domanda di appartenenza e protezione».
Appartenenza e protezione che si definiscono sempre più nel senso dell’esclusione e della contrapposizione, anche violenta, al diverso...
«È un riflesso che scatta quando il diverso diventa improvvisamente visibile. Succede nelle aree rurali, dov'è più vulnerabile chi è rimasto indietro e non si è adattato alla rapidità del cambiamento. Lì fa breccia il messaggio che indica nella concorrenza dell’immigrato la vera causa dell’abbassamento dei salari. In assenza di argini culturali, chi parla di “tsunami” trova seguito malgrado gli immigrati costituiscano solo il 6% della popolazione».
E la divisione anche fisica tra i gruppi sociali amplifica questa «visibilità».
«Certo, abbiamo interi quartieri "neri", con scuole frequentate solo da figli di immigrati, una replica del modello apartheid. Dall’altro lato cresce il sentimento nazionalista, alimentato da un ritorno alla simbologia degli inni e delle bandiere. Il tutto condito con slogan twittati o urlati da nuovi “uomini forti” come Geert Wilders che incitano alla riconquista della patria in pericolo. D’altronde nella Storia uniformi e stivali hanno sempre riscosso facile successo».
Un Paese tradizionalmente disposto all'accoglienza dell’altro, all’esplorazione e al superamento di confini filosofici e geografici, ha forti anticorpi...
«L’elezione di Donald Trump negli Usa o la Brexit dimostrano che queste dinamiche sono ormai trasversali, abbiamo globalizzato paure e domande. Confido però nel nostro bisogno di tornare al primato della ragione e, nonostante tutto, nell'Europa».
Lo scontro con la Turchia risponde a logiche evidentemente elettorali. Riconosce anche echi di fratture storiche non sanate?
«Dalla Turchia all'India agli Stati africani in corsa c’è una voglia di rivalsa che dobbiamo imparare a decifrare, un messaggio che dice: ci siamo, e siamo grandi».
15 marzo 2017 (modifica il 15 marzo 2017 | 22:56)
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