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Autore Discussione: Io, il maestro e quella maschera. Ascanio Celestini, intervista a Dario Fo.  (Letto 2965 volte)
Arlecchino
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« inserito:: Ottobre 22, 2016, 11:33:27 am »

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Ascanio Celestini   
@ascaniocelestin

· 14 ottobre 2016
Io, il maestro e quella maschera

Un giorno Ascanio Celestini andò a casa di Dario per intervistarlo. Gli chiese cos’è la memoria, lui raccontò della faccia, del corpo e della voce del personaggio

«Il riso che affiora negli spettacoli di teatro di narrazione è, al contempo, un contrassegno d’appartenenza, una forma di compensazione e l’indizio che il racconto accade in un contesto relazionale vivo» scriveva qualche anno fa Edoardo Sanguineti. Insomma raccontare una storia significa raccontarla in un posto dove ci stanno persone vive che vivono una vita vera fatta di tutte quelle cose semplici e complicate che appartengono alle persone veramente vive. E si ride di un racconto perché sentiamo che ci appartiene, che siamo esseri viventi tra altri esseri viventi. I teatranti lo sanno, i teatranti sono fatti così. Quando stanno sul palcoscenico si mascherano e diventano tanti personaggi, poi ti accorgi che quei personaggi sono tutti finti, che l’unico volto vero è quello dell’attore. Eppure quando l’attore muore se li porta via tutti quanti i personaggi finti, come in uno strano funerale. E Dario Fo era questa cosa. Un attore che ci mette la faccia, il corpo e la voce nel personaggio. Un attore che si muove e che canta, che saltella e rumoreggia, che scrive un testo e poi lo cambia e l’improvvisa.

Così un giorno vado a casa sua per intervistarlo. Gli chiedo cos’è la memoria. La memoria nei confronti della grande storia, ma anche la memoria per un testo, per un attore che se lo deve imparare. E lui si mette a parlare della “maschera”. Mi dice che l’attore deve recitare pensando alla maschera che potrebbe avere sulla faccia, anche se non ha nessuna maschera. «Personalmente cerco sempre di uscire dal personaggio. Nella vita, nella famiglia o con gli amici, non uso mai una maschera. Moretti, che è stato uno dei più grandi Arlecchini di questo secolo, ammoniva i giovani attori perché non si abituassero a vivere con la maschera in faccia. La maschera è importantissima, ma se la tieni troppo sulla faccia, quando la togli finisci per toglierti anche la faccia! Quindi bisogna saper abbandonare la maschera e imparare a recitare senza, ma come se ancora la si stesse indossando. Che cosa significa?». E infatti non lo capisco cosa significa, ma ci credo che sia una cosa importante, ci credo che mi sta dicendo qualcosa di significativo perché, come dice lui «il grande insegnamento della maschera è che ti obbliga a recitare col corpo, dal momento che ogni movimento dei muscoli facciali è cancellato, gli occhi stessi si vedono poco e appare solo la bocca, con il labbro inferiore e il mento. Tutto il resto del viso è quasi cancellato dalla maschera e questo ti costringe a sviluppare tutta un’azione mimica in sostituzione delle espressioni facciali».
Franca è nella stanza accanto e, ogni tanto, si affaccia per seguire il discorso di Dario. Lui dice che «è lei l’attrice di casa, lei che conosce queste cose». Sorridono tutt’e due. Poi Dario ricomincia il discorso. Ricomincia dalle mani. Si tocca la faccia. «Per esempio, se indossi la maschera e la tocchi con le mani, la maschera “sparisce”, non ha più senso. La maschera ha bisogno di gesti diversi rispetto a quelli che puoi sviluppare se reciti senza: ad esempio, non puoi piangere strofinandoti gli occhi veramente, il gesto deve essere compiuto lontano dalla maschera al punto che il movimento delle spalle e del bacino deve essere abnorme rispetto a quando reciti senza la maschera. I comici dell’Arte dicevano che il bacino è il centro dell’universo: non solo per un attore di teatro, ma anche per le persone comuni. Dimmi come cammini, come ti muovi, come respiri, come muovi la tua anca sopra la gamba, come ti giri, come ti atteggi, la posizione di tutto il tuo corpo in rapporto alla tua maschera e ti dirò chi sei! Diceva un grande poeta inglese che un uomo quando ha la maschera non riesce più a mentire. Perché? Perché parlando con la maschera non può servirsi delle espressioni facciali, ma deve servirti di qualcos’altro: il gesto delle braccia, delle mani e dei piedi. E quello del corpo è un linguaggio che non vive di ipocrisia: è un linguaggio diretto, spietatamente onesto. Tutte queste cose le impari usando la maschera, allora perché a un certo punto è necessario distaccarsene? Il burattino e la marionetta, che sono “parenti” stretti della maschera, sono mossi da schemi meccanici, non più di quattro o cinque, come in una danza: la rovesciata, l’inchino, il gioco, il saltello. Allo stesso modo ogni maschera ha il suo linguaggio di espressioni e di gesti stereotipati: guai se un attore conservasse questo repertorio una volta sfilata la maschera!».

E allora perché abbiamo pensato che Dario Fo facesse politica quando saliva sul palcoscenico? Perché non abbiamo capito che lì sopra faceva semplicemente teatro? Sul palco non c’è mai l’attore, ma sempre il personaggio, anche quando è incredibilmente simile all’attore che lo interpreta. Gli attori hanno sempre la maschera, anche quando non ce l’hanno sulla faccia. La maschera se la levano quando scendono dal palco.

«Tolta la maschera è necessario perdere anche la gestualità connessa a quella data maschera» mi dice. E infatti, quando se la leva torna ad essere una persona reale, non più un personaggio, e non stiamo più a teatro, torniamo nella stanza da pranzo o al bar.

Mi canta una canzone che dice di aver ascoltato a Venezia. Mi parla di Giovanna Marini e di “ci Ragiono e Canto”. Mi offre il caffè e dopo tante parole ci salutiamo. Dario Fo è stato uno straordinario inventore, un allegro falsario. Ha inventato per tutta la vita giocando con la maschera della sua faccia e della sua voce. La maschera che sta sulla faccia quando non sembra che ci sia “per dire qualcos’altro”. Con questa maschera ci ha raccontato che l’attore può raccontare di tutto se riesce recitare con la maschera fingendo di non averla. Fare teatro come se fosse televisione. Fare cinema come se fosse teatro. Fare musica come se fosse chissà cos’altro… Stare sempre da un’altra parte, portare in scena l’inaspettato. Se un artista riesce a essere “completamente folle”, come diceva lui, è possibile che sia anche incredibilmente credibile.

Da - http://www.unita.tv/opinioni/io-il-maestro-e-quella-maschera/
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« Risposta #1 inserito:: Ottobre 25, 2016, 05:17:54 pm »

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Claudio Bisio   
· 14 ottobre 2016

Dario recitava in un capannone e m’illuminai: farò teatro
I ricordi si sommano, si sovrappongono, si moltiplicano. Cominciamo dall’inizio

Dario. Svegliato questa mattina dalla notizia della sua morte. E poco dopo dalla telefonata di Sergio (Staino) che mi chiede di scrivere un suo ricordo. Non amo i “coccodrilli”, ma a Sergio come si fa a dire di no… e poi questo non è un coccodrillo. I ricordi si sommano, si sovrappongono, si moltiplicano. Cominciamo dall’inizio.

Anni settanta, io studente liceale a Milano che tramite i Cub (Comitati unitari di base, legati ad Avanguardia Operaia) riesco ad assistere in un capannone di via Colletta alle prove degli spettacoli di Franca e Dario. Vedo così nascere lavori quali Morte accidentale di un anarchico, Tutti uniti! Tutti insieme! Scusa, ma quello non è il padrone? Ordine! Per DIO.OOO.OOO, Morte e resurrezione di un pupazzo e più di una rivisitazione di Mistero buffo (ne ebbe innumerevoli).

Ricordo di quel capannone l’odore di inchiostro e di uova (c’erano probabilmente dei ciclostili nei camerini e le pareti erano tappezzate da scatole vuote di uova per insonorizzare l’ambiente). E lì, in quei lunghi sabati pomeriggio, insieme a tanti compagni divertiti e affascinati da quello spilungone arguto e molleggiato come un folletto, dalle mani parlanti e dallo sguardo vivace, immerso nel mio eskimo extralarge, decido che nella vita, “da grande”, mi sarebbe tanto piaciuto fare quella roba lì.

Poi ho avuto la fortuna di provarci davvero a fare “quella roba lì”, che sarebbe poi il teatro. E così, siamo ormai negli anni ottanta, una sera al teatro dell’Elfo me lo vedo in platea, con Franca, ad assistere al nostro Nemico di classe. E nei camerini, senza il fare da “maestro”, che proprio non gli si addiceva, ma trattandoci da colleghi, da compagni di strada, spiega a me e Elio De Capitani (che per motivi di copione ogni sera ci menavamo e immancabilmente uno dei due si faceva male… spalle lussate, ferite alla testa etc.…) che il teatro è finzione e che si può ottenere maggior effetto colpendo con una mano il muro di cartongesso della scenografia contro il quale rovinavamo ad ogni replica! senza distruggersi il corpo, «perché il vostro compito è di andare in scena anche domani!»

Lo ringraziammo. Io pensai che mi/ci considerava dei dilettanti, ma qualche tempo dopo mi chiamò proprio per lavorare con lui, ad una ripresa di quel Morte accidentale di un anarchico che anni prima mi aveva incantato da spettatore. L’occasione fu un tentativo della giunta di Milano di rimuovere la lapide di Pinelli da piazza Fontana. Tentativo: prontamente sventato. Spettacolo: successo clamoroso.

E poi, negli anni novanta, quando Dario ricevette il Nobel per la letteratura, gli amici della Gialappa’s, sapendo che nei camerini di Mai dire gol ogni tanto lo imitavo, me lo fecero fare in tv. E Franca organizzò un incontro a due, per una campagna contro la clonazione di cui Dario era testimonial. Mi disse che avrebbe indossato una polo rossa e una giacca nera, in modo da vestirmi come lui. Quello che non mi disse era che Dario non ne sapeva nulla. La mattina dopo Dario si trovò quindi sul palco, mentre inveiva contro la clonazione, un suo clone!

Dario e Franca erano anche questo: impegno e divertimento, serietà e sberleffo. La stessa vita politica di Dario ce lo ha insegnato. Mai una scelta omologata, mai strade già segnate, neppure nell’alveo della sinistra, ma sempre sentieri, viottoli, a volte vicoli così stretti che bisognava tornare indietro e cercare un’altra via. Ecco, cercare , la ricerca direi che è stato il leit motiv della sua vita, artistica e non.

Mentre scrivo queste righe scopro che l’accademia svedese ha appena assegnato il Nobel per la letteratura a Bob Dylan.

Una scelta così coraggiosa e fuori dagli schemi la fecero solo diciannove anni fa proprio quando assegnarono il Nobel a Dario Fo.

Che abbiano saputo della sua morte e abbiano voluto, a modo loro, fargli un ulteriore omaggio?

Da - http://www.unita.tv/opinioni/dario-recitava-in-un-capannone-e-milluminai-faro-teatro/
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