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Autore Discussione: Rita M. ZIPARO. L’invecchiamento, le sue cause, i suoi effetti messi a confronto  (Letto 2067 volte)
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« inserito:: Marzo 04, 2016, 12:03:45 pm »

Sintesi Dialettica: per l'identità democratica

Di Rita M. Ziparo
28/02/2016

L’invecchiamento, le sue cause, i suoi effetti messi a confronto con la patologia neurodegenerativa più grave e più comune di oggi, la malattia di Alzheimer drammaticamente progressiva ed invalidante e ancora senza cure che portino alla sua guarigione. Grandi speranze ed aspettative vengono riposte nel rimodellamento delle aree cerebrali mediante la costante attività fisica e mentale, come strategia per contrastare la atrofia dei neuroni e delle sinapsi, migliorando il metabolismo delle cellule nervose.

Il numero di persone anziane nella popolazione è in continuo aumento per diversi motivi, ma sicuramente si deve in gran parte ai progressi della Medicina che mette a punto, giorno dopo giorno, farmaci e terapie per le più comuni cause di morte come le neoplasie e le patologie che colpiscono il cuore e il cervello senza trascurare le costanti campagne di informazione e sensibilizzazione in favore della prevenzione e delle cure.

L’allungamento della vita media, di per sé positivo, può accompagnarsi a disfunzioni, a malattie e al deterioramento progressivo delle funzioni mentali che, secondo le stime, colpirà una percentuale di anziani sempre più rilevante con le conseguenti profonde ripercussioni sulle qualità della vita.

Indubbiamente il binomio vecchiaia – malattia rappresenta uno dei pregiudizi più antichi e radicati nella nostra storia e per questo difficile da superare; infatti non è corretto associare rigidamente invecchiamento e declino delle funzioni mentale, pensiamo per esempio alla riduzione della memoria che può essere non necessariamente effetto diretto della senescenza ma piuttosto di patologie - forme tumorali, accidenti vascolari, intossicazioni da agenti diversi ivi compresi taluni farmaci – che colpiscano il cervello.

In questi casi la Medicina è spesso in grado di trovare soluzioni terapeutiche tali da assicurare ai pazienti livelli soddisfacenti di salute e di efficienza.

Studi ed esperimenti condotti negli ultimi decenni hanno messo in discussione l’idea preconcetta che il processo di senescenza sia caratterizzato da un inevitabile declino e perdita di quanto era stato conquistato e poi consolidato in età precedenti. Un invecchiamento sereno e possibilmente anche creativo sembra infatti divenuto un obiettivo possibile per molti come testimonia il numero sempre più alto di anziani che raggiungono età molto avanzate in ottime condizioni mentali.

Il processo di invecchiamento segue un percorso diverso per ciascuna persona poiché dipende dalla storia, dalle esperienze, dagli eventi, dalle opportunità, insomma dal vissuto di ognuno come si usa dire oggi.

Fermiamoci ora a considerare le cause dell’invecchiamento per quanto riguarda i meccanismi molecolari con esso correlati.

Studi ed esperimenti indicano che l’invecchiamento è verosimilmente effetto di modificazioni nella duplicazione a cui vanno incontro nel tempo le molecole di DNA e di RNA implicate nella informazione genetica. Sono state proposte almeno tre ipotesi che mettono in relazione invecchiamento con DNA e RNA:

- mutazioni e alterazioni del DNA con l’età aumentano e si accumulano entro certi limiti superati i quali viene avviato l’invecchiamento cellulare

- danni casuali, effetti di radiazioni e veleni, lo stesso logoramento dovuto all’età e così via, disturbano fortemente la corretta sequenza di reazioni che porta alla sintesi di proteine, molecole queste dalle quali dipende una gran quantità di funzioni del nostro organismo. Quando la quantità di “errori” diviene significativa vengono a formarsi molecole anomale che, non funzionando in maniera corretta, avvierebbero i processi di senescenza

- così come alcuni geni programmano le diverse fasi dello sviluppo embrionale, altri geni sarebbero responsabili dei processi di invecchiamento e delle modificazioni dell’organismo come espressioni di un programma che ha inizio con il concepimento e termina con la morte.

Una variante di questa ultima ipotesi di natura evolutiva sostiene l’esistenza in tutte le cellule di un orologio biologico che ne programma minuziosamente il ciclo vitale dal concepimento fino alla morte che interviene dopo un certo numero di divisioni e replicazioni.

L’invecchiamento fisiologico può comportare alterazioni patologiche senza manifestazioni cliniche e, nelle sue espressioni normali, produce modificazioni del cervello e del comportamento riguardanti soprattutto la coordinazione motoria, il sonno e le funzioni intellettive di solito senza però compromettere significativamente la qualità della vita.

Le persone anziane hanno spesso una postura non più eretta, camminano lentamente e con un passo corto, possono perdere facilmente l’equilibrio, rischiano più spesso di cadere, perché la forza muscolare e il senso di posizione diminuiscono.

Il sonno nella sua espressione continua si va accorciando; negli anziani infatti, a causa dei frequenti risvegli, si compone di piccoli sonnellini anche diurni in cui è molto ridotta la fase REM, quella in cui si sogna, tipica del sonno profondo.

Le dimensioni del cervello risultano diminuite. All’inizio dell’età adulta il cervello raggiunge le sue massime dimensioni che progressivamente e costantemente vanno riducendosi non tanto per la diminuzione del numero dei neuroni ma a causa del deterioramento delle loro connessioni. La disorganizzazione di taluni circuiti nervosi che ne consegue potrebbe spiegare le difficoltà di associare concetti e di ricordare fatti, persone, nomi etc. che molte persone anziane lamentano.

Generalmente non appaiono alterazioni della memoria remota; gli anziani infatti ricordano bene gli avvenimenti della loro vita lontani nel tempo, anche perché li rievocano spesso parlandone, mentre hanno difficoltà a memorizzare stabilmente esperienze recenti. Dopo i 60 anni vanno un po’ riducendosi i caratteri generali della intelligenza, per esempio certe capacità semantiche come il nominare oggetti in rapida sequenza oppure trovare parole, quante più possibili, che inizino con una certa lettera dell’alfabeto e così via. Si ottengono tuttavia prestazioni di buon livello da soggetti ottantenni utilizzando i test dei vocaboli secondo la Wechsler Adult Intelligence Scale (WAIS) ideata da David Wechsler (1896-1981), psicologo rumeno naturalizzato statunitense, del Bellevue Psychiatric Hospital di New York e docente presso quella Università, che definì l’intelligenza o il comportamento intelligente come “la capacità complessiva o globale di un individuo di compiere azioni finalizzate, di pensare in modo razionale e di interagire in modo efficace con l’ambiente”.

L’intelligenza è diversa da un individuo ad un altro in relazione con il funzionamento del cervello, per effetto della componente genetica, ma soprattutto per l’influenza dell’ambiente.

 La riduzione progressiva e ingravescente delle funzioni mentali, della memoria e delle capacità intellettive acquisite viene indicata come Demenza e generalmente si osserva non prima dei 45 anni di età, rimane rara tra i 45 e i 65 anni per poi aumentare notevolmente, anche nelle sue forme più drammatiche, a partire dai 75 anni. Si è calcolato che attualmente nel mondo occidentale ne sia colpito dal 25 al 30 % degli individui di età superiore a 85 anni.

Demenza o malattia di Alzheimer

Il 70 % circa dei casi di demenza è classificabile come Demenza o Malattia di Alzheimer (Alzheimer’s Desease o AD). Prende il nome dallo psichiatra tedesco Alois Alzheimer (1864-1915) docente all’Università di Breslavia. A questo proposito mi fa piacere ricordare il medico di Udine Gaetano Perusini, allievo e stretto collaboratore di Alzheimer, per il suo contributo fondamentale nella scoperta e nella definizione della malattia che dovrebbe essere opportunamente definita malattia di Alzheimer-Perusini.

 Il medico italiano e il suo maestro tedesco, studiando i processi degenerativi del cervello, descrissero una forma morbosa che indicarono come “demenza presenile” da cui era affetta una donna, Augusta Deter, morta a 55 anni dopo un lungo ricovero in ospedale. Il cervello post mortem della paziente presentava alterazioni in forma di placche e grovigli molto simili a quelli rilevati post mortem nei cervelli di pazienti di 70 – 80 anni colpiti da una grave forma di declino mentale progressivo diagnosticato come “demenza senile”.

Come risultava dai riscontri anatomopatologici e clinici, entrambe le sindromi, demenza presenile e demenza senile, condividevano il medesimo processo morboso e i suoi effetti pur essendosi manifestate in età differenti. Pertanto la definizione di “demenza presenile” venne abbandonata dal momento che la malattia venne inclusa nella demenza senile anche quando si fosse presentata precocemente. Tuttavia è estremamente raro qualunque sintomo della forma morbosa prima dei 50 anni.

Dati epidemiologici
Secondo le stime di numerosi studi epidemiologici internazionali si prevede che nel 2020, nel mondo intero, le persone colpite da AD saranno 48 milioni, un numero che nei successivi 20 anni potrebbe raggiungere una cifra superiore agli 81 milioni. Attualmente in Italia gli ammalati di AD sono 500 mila.

Manifestazioni della malattia
La demenza di Alzheimer è esclusivamente umana e rappresenta uno dei più grandi problemi sanitari del nostro tempo ma è anche una fonte di preziose informazioni sul cervello, sulla mente e sul comportamento.

La diagnosi precoce è difficile poiché la malattia si manifesta con modalità sfuggenti che il più delle volte riguardano la riduzione della memoria di eventi recenti e una certa instabilità del tono dell’umore. Questi sintomi di esordio sono i medesimi dell’invecchiamento fisiologico e non impediscono al paziente di condurre una vita normale, ma proprio per questo motivo possono portare a sottostimare la gravità dello stato patologico che si sta instaurando. Il quadro è reso ancora più nebuloso dal fatto che le medesime alterazioni istopatologiche descritte appresso possono essere rilevate, sebbene in quantità più ridotta, anche in individui anziani in buone condizioni di salute.

Nella prima fase della AD non appare alcun disturbo della coscienza intesa come quello stato della mente in cui vi è conoscenza della propria esistenza e condizione e anche dell’ambiente circostante, persone, eventi, oggetti. Successivamente il paziente tende via via a trascurare la propria persona mentre perde interesse per tutto ciò che lo circonda; può manifestare ansia, disorientamento e confusione, addirittura bizzarrie del comportamento e qualche volta anche stati psicotici con visioni ed allucinazioni.

Man mano che la malattia va avanti, la memoria e il ragionamento astratto risultano sempre più compromessi. Alcuni pazienti possono diventare arroganti e violenti con comportamenti che dimostrano una assoluta noncuranza per qualunque elementare regola sociale. Altri pazienti sono invece docili, remissivi come se fossero diventati fragili e indifesi.

Progressivamente viene colpita la coscienza a cominciare da quella “autobiografica”, nel senso che l’ammalato troverà sempre più difficile rievocare eventi che riguardano la propria vita. In seguito, nei pazienti che vivono più a lungo perché ben assistiti e ben curati si instaura uno stato che non può che essere definito “vegetativo” in quanto non interagiscono più con il mondo esterno senza essere fortemente stimolati. Rimangono in silenzio, assenti, lontani con una espressione del viso sempre uguale che non manifesta nessuna emozione.

Come può essere spiegata questa svolta così drammatica della malattia? In condizioni normali ci sono aree della corteccia cerebrale con un metabolismo sempre molto attivo, anche durante il sonno e addirittura in condizioni di anestesia. E’ così per l’Ippocampo e le aree con questo collegate, regioni nervose che lavorano incessantemente nei processi di elaborazione e fissazione dei ricordi e del loro richiamo. A queste si affianca l’attività di talune aree della corteccia frontale responsabili della elaborazione della coscienza, del giudizio, della previsione di eventi futuri. La malattia colpisce di preferenza queste regioni cerebrali con le gravi conseguenze che si osservano.

Quando, anche dopo diversi anni, le condizioni sono tali da ridurre il paziente su una sedia a rotelle o stabilmente a letto, bisognoso costantemente di cure ed assistenza, la aspettativa di vita viene drasticamente ridotta per problemi legati di solito alla nutrizione o a causa del reiterarsi di stati infettivi gravi.

Quadro istopatologico
Il quadro istopatologico della malattia si basa su due reperti neuropatologici tipici osservati dallo stesso Alzheimer sul cervello di suoi pazienti post mortem: i grovigli neurofibrillari e le placche senili.

I grovigli neurofibrillari detti anche matasse neurofibrillari, sono accumuli nel citoplasma dei neuroni di filamenti in forma di anelli, spirali, grovigli appunto, di proteina TAU, proteina della membrana delle cellule nervose che normalmente contribuisce a stabilizzare la struttura della cellula, facilita il trasporto delle sostanze nutritive e la trasmissione dei segnali nervosi. Nella AD le proteine TAU risultano alterate, tendono ad aggregarsi, rendono difficoltosa la trasmissione dei segnali, disturbano fortemente sia il trasporto delle sostanze nutritive che l’espulsione di quelle tossiche le quali si accumulano sia all’interno che all’esterno dei neuroni già deteriorati, portandoli alla morte.

I grovigli sono osservabili nelle fasi tardive della malattia e sembrano essere correlati con la sua gravità.

Le placche senili sono tra i primi segni di demenza di Alzheimer. A differenza dei grovigli sembra non siano correlate con la sua gravità e sono state osservate anche in altre patologie come la malattia di Parkinson, la demenza dei pugili, la sindrome di Down. Sono depositi intra ed extracellulari a forma di agglomerati sferici associati a prolungamenti di neuroni deformati, costituiti da β-amiloide, un peptide fortemente neurotossico che deriva da una proteina precursore anomala. Le placche di β-amiloide danneggiano i neuroni soprattutto alterando la regolazione dell’ingresso e dell’uscita del calcio dalle cellule nervose e promuovendo il rilascio di radicali liberi che danneggiano il DNA, i lipidi, le proteine dei neuroni.

La caratteristica più tipica della AD è infatti la morte dei neuroni della corteccia cerebrale e di quelli sottocorticali che, il più delle volte, ha inizio nell’Ippocampo per estendersi progressivamente alle altre regioni di corteccia.

L’Ippocampo è una zona bersaglio delle alterazioni causate dall’età; viene infatti colpito più di altre regioni cerebrali da un notevole decremento sia del numero sia della superficie di contatto delle sinapsi, e il quadro risulta più grave nella AD. Molto precocemente nei vecchi e nei pazienti con AD si formano placche senili più numerose in questa regione che in altre aree del cervello dove possono anche non formarsi oppure formarsi più avanti negli anni. Infatti, la malattia può risparmiare a lungo le aree visive e motorie della corteccia.

I neuroni dell’Ippocampo sono innervati dal sistema colinergico (cioè da neuroni che producono e rilasciano il neurotrasmettitore eccitatorio Acetilcolina) e questo sistema è particolarmente vulnerabile e sensibile all’invecchiamento rispetto ad altri sistemi di neurotrasmissione. L’Ippocampo di conseguenza è ad alto rischio di deterioramento e questo spiega perché nella senescenza e nella AD i primi segni riguardino la memoria.

Lo stesso β-amiloide e le strutture danneggiate fanno sì che i neuroni producano molecole le quali, a loro volta, promuovono una reazione infiammatoria che amplifica il danno delle cellule nervose e ne determinano la morte.

Diagnosi
Prima di dichiarare con certezza che si è in presenza di malattia di Alzheimer, è necessario considerare con attenzione la possibilità, piuttosto comune, che il quadro clinico sopra descritto possa essere effetto non di AD ma di altre patologie per le quali potrebbero esistere terapie appropriate.

Deve essere pertanto esclusa prima di tutto la presenza di masse occupanti spazio come ematomi o tumori, va accertato che non siano presenti insufficienze metaboliche (ipotiroidismo, carenza di vitamina B12) e intossicazioni croniche da farmaci, oppure che il quadro clinico sia da ricondurre ad una sindrome depressiva.

Un tempo, la diagnosi certa di AD poteva essere emessa dopo la morte del paziente soltanto dopo un accurato esame del suo cervello; oggi la diagnosi certa può essere fatta mediante la identificazione delle placche di amiloide e degli ammassi neurofibrillari di proteina TAU grazie agli esami di neuroimaging cerebrale che, oltre alle lesioni microscopiche, mostrano appiattimento delle circonvoluzioni e aree di atrofia con ampliamento dei solchi e dei ventricoli cerebrali a causa della perdita di neuroni.

Per quanto riguarda l’ereditarietà risulta che nel 95% dei casi la malattia è “sporadica”, cioè si presenta in un gruppo familiare dove non è presente stabilmente, dunque si manifesta senza trasmissione ereditaria di geni tra le generazioni. Soltanto nell’1% dei casi vengono colpite più persone del medesimo gruppo familiare per la mutazione di 3 geni che è presente fin dalla nascita ed è ereditaria.

Esiste poi una piccolissima percentuale di individui pari a circa il 4 % che rientrano in quella che può essere definita come “suscettibilità” familiare ad ammalarsi di AD, così come esiste una suscettibilità familiare per ammalarsi di diabete, di talune malattie cardiovascolari o psichiatriche etc. In questi casi si eredita non una mutazione genica, bensì il rischio di ammalarsi che dipende dall’avere oppure no un determinato assetto genico dove sono inclusi geni che regolano la probabilità di essere colpiti dalle medesime malattie che hanno colpito i genitori e/o i nonni.

Ad ogni modo, per ammalarsi non è sufficiente essere geneticamente a rischio, poiché sono i fattori ambientali (stress, stile di vita, alimentazione, fumo, uso di droghe etc.) che, interagendo con i fattori genetici, favoriscono o meno l’insorgenza della AD.

Per monitorare il livello delle funzioni cognitive e gli aspetti del comportamento si fa uso di scale e di test. Per la valutazione globale del deterioramento cognitivo e per monitorare nel tempo il decorso della malattia lo strumento più usato è la Scala di Barry Reisberg, la Global Degeneration Scale o GDS di Reisberg.

La GDS distingue nella malattia 7 livelli di gravità crescente, da 1 che indica “nessun declino delle funzioni cognitive” a 7 che corrisponde ad un “declino molto severo delle funzioni cognitive” caratterizzato da:
- perdita di tutte le capacità verbali (il paziente si esprime soltanto con rumori simili a borbottii)
- perdita del controllo degli sfinteri con incontinenza urinaria e fecale
- perdita della capacità di camminare e nutrirsi

Il paziente inoltre può mostrare sintomi e segni neurologici e può manifestare ansia ed agitazione, atteggiamenti ossessivi, violenti, ripetitivi, alternati eventualmente a distacco ed assenza.

In questo stadio della malattia il paziente necessita di assistenza continua per la vita di ogni giorno.

Ampiamente diffuso in ambito clinico è il Mini Mental State Examination o MMSE per valutare l’attenzione, l’orientamento temporale e spaziale, la memoria, il linguaggio, il calcolo e le abilità manuali.

Terapia
Per la malattia di A. non esistono ancora cure che portino alla guarigione poiché si ignorano le cause. Le linee guida internazionali prevedono l’uso di farmaci anticolinesterasici nelle forme di gravità lieve o moderata della malattia, eventualmente da associare ai farmaci appropriati in caso di manifestazioni di ansia e agitazione.

Prima di parlare di queste molecole è necessaria una premessa per comprendere il loro meccanismo d’azione: un neurotrasmettitore chimico è una sostanza che viene liberata dai neuroni nelle sinapsi – aree in cui un neurone viene in contatto con un altro neurone o con una cellula di altro tipo – su cui esercita la propria influenza.

Per essere definita neurotrasmettitore una sostanza deve essere prodotta nel neurone in quantità sufficienti per esercitare sul suo bersaglio la funzione che le si attribuisce e deve essere smaltita tramite un meccanismo specifico dai siti dove esercita la propria attività.

La Acetilcolina (ACh) è il neurotrasmettitore presente in molte sinapsi cerebrali, viene prodotta da neuroni colinergici, le sue molecole vengono racchiuse in vescicole in quantità controllata, precisamente in “quanti” ciascuno dei quali comprende un numero di molecole per ciascuna vescicola che varia da 2000 a 5000. Questo impacchettamento protegge le molecole di ACh dall’azione digerente degli enzimi catabolici intracellulari.

Il neurotrasmettitore viene liberato nello spazio sinaptico quando necessario; il suo smaltimento dopo la sua liberazione è un passaggio fondamentale dal momento che, permanendo nello spazio sinaptico per un tempo più lungo, bloccherebbe la trasmissione di altri segnali e renderebbe refrattaria la sinapsi a causa della desensibilizzazione delle cellule bersaglio esposte alla sua presenza continua.

Lo smaltimento dell’ACh avviene per idrolisi da parte dell’enzima acetilcolinesterasi che interviene sulla molecola idrolizzandola e inattivandola. Ciascuna molecola di ACh verrà usata soltanto una volta e avrà effetto eccitatorio sul suo bersaglio. La colinesterasi pertanto regola finemente il processo di eccitazione neuronale.

Gli Anticolinesterasici, come indica il loro nome, bloccando l’azione catabolica dell’enzima prolungano nelle sinapsi la presenza di ACh, che nella malattia viene prodotta in quantità inferiori rispetto alla norma, e rendono più duraturo l’effetto eccitatorio.

Nei casi di AD di gravità più severa viene usata da sola o in associazione con gli Anticolinesterasici la memantina. Il farmaco non ha alcuna influenza sui processi di produzione, liberazione e inattivazione di ACh, poiché è un antagonista non competitivo del Glutammato, il neurotrasmettitore eccitatorio “rapido” più importante del sistema nervoso centrale. La memantina compete con il Glutammato, si lega al suo posto ad una specifica popolazione di suoi recettori e  ne riduce gli effetti sui bersagli che sono soprattutto i neuroni delle aree motorie, di quelle sensitive e dell’ippocampo.

Le elevate quantità di Glutammato, prodotto più della norma dal tessuto nervoso infiammato e danneggiato, insieme alla maggiore sensibilità dei neuroni alla sua azione, determina uno stato di neurotossicità. Quando la trasmissione sinaptica è normale, la concentrazione di Glutammato aumenta soltanto transitoriamente e soltanto in quella sinapsi. Se invece la quantità di Glutammato è e resta elevata, la esposizione dei neuroni anche per pochi minuti ad alte concentrazioni del neurotrasmettitore, provoca la cosiddetta eccitotossicità da Glutammato. Inoltre l’abnorme afflusso di ioni calcio all’interno delle cellule nervose attiva una cascata di enzimi che danneggiano il DNA cellulare dando inizio rapidamente ai processi che portano alla morte dei neuroni o apoptosi.

La memantina blocca l’azione tossica del Glutammato e indirettamente anche l’ingresso di calcio nei neuroni allontanando così il rischio di apoptosi. 

Per verificare che la somministrazione di questi farmaci vada perdendo di efficacia sulle facoltà mentali e sul comportamento, i pazienti vanno monitorati con regolarità ma è fatale che con il tempo le terapie farmacologiche non diano più i risultati sperati e gli ammalati diventino sempre più dipendenti dall’assistenza degli altri. Spesso, se ben curati, nutriti e idratati, si riducono all’immobilità per anni prima che sopraggiunga la morte di solito a causa di infezioni respiratorie, urinarie e/o sistemiche. L’assistenza istituzionalizzata, cioè il ricovero in una struttura clinica di appoggio, dotata di personale esperto e qualificato, può contribuire nelle fasi avanzate della malattia ad alleviare il carico dell’assistenza che, almeno in Italia, è sostenuta quasi completamente dai familiari.

La plasticità del cervello
Risale a circa 130 anni fa la scoperta che il cervello adulto non ha una struttura statica e, a qualche anno dopo, l’intuizione di Sigmund Freud il quale ipotizzò che l’apprendimento, provocando nei neuroni del cervello un aumento di attività elettrica, era in grado di modificare le “barriere” tra questi. La gran mole di dati sperimentali prodotta da diverse tecniche di indagini ha portato ad affermare che i circuiti nervosi cerebrali possono cambiare lungo tutto l’arco della vita di ogni persona poiché il pensiero, l’apprendimento, l’azione e la memoria attivano o disattivano geni rimodellando l’anatomia cerebrale e le strutture delle reti nervose in modo da adattarle più efficacemente al compito da svolgere di volta in volta. La sinaptogenesi, cioè la generazione di contatti sinaptici, implica una successione di eventi che possono avere durata variabile da millisecondi fino a settimane; le sinapsi neoformate e il circuito nervoso di cui fanno parte acquisiscono rapidamente una stabilità relativa che, sebbene aumenti con l’uso, non è immutabile grazie alla capacità del cervello di modificare se stesso.

Meccanismi fisiologici appropriati garantiscono alla rete una adeguata “manutenzione” con il ricambio continuo dei componenti usurati che può eventualmente contribuire al rinforzo delle zone di contatto.

Con l’avanzare degli anni la conseguenza più evidente delle alterazioni del rimodellamento sinaptico è la riduzione delle capacità di apprendere e ricordare, funzioni entrambe fondamentali per gli esseri umani, attraverso le quali tutto ciò che è stato acquisito lungo il percorso evolutivo di qualche milione di anni viene trasmesso di generazione in generazione.

Dopo la nascita, nelle prime fasi dello sviluppo del cervello, c’è una sovrapproduzione di contatti sinaptici che progressivamente si va riducendo e “riarrangiando”. In seguito, soprattutto nel corso della adolescenza, il cervello opera una vera e propria “potatura” delle sinapsi e dei neuroni poco utilizzati. Si stabilisce in tal modo una mappa topografica delle reti sinaptiche che è il risultato di stimoli ed esperienze che ciascuno fa nell’ambiente in cui vive. Nella senescenza il calo numerico delle sinapsi diventa rilevante, come è stato ampiamente documentato da numerosi dati sperimentali.

Diversamente da altri organi costituiti da moduli istologici e funzionali che si ripetono (ad esempio i nefroni nel rene, gli epatociti nel fegato etc.), il cervello è un organo multifunzionale formato da più complessi di cellule nervose ciascuno con esigenze metaboliche differenti, ma comunque molto elevate che esigono un costante apporto di ossigeno e di glucosio. Quando le cellule nervose si riducono di numero o la quantità delle sinapsi importanti scende al di sotto di una determinata soglia critica di riserva, diviene particolarmente difficile affrontare con competenza gli stimoli provenienti dall’ambiente con la conseguenza che presto si manifesteranno i segni di una funzionalità ridotta. Il deterioramento delle strutture sinaptiche potrebbe essere alla base del declino cognitivo riscontrabile nel cervello senile ed in quello colpito da AD. Dal momento che la formazione e la stabilizzazione delle sinapsi e, di conseguenza, delle reti neuronali dipendono dal metabolismo dei neuroni stessi, le alterazioni che si osservano con il tempo sia negli anziani sia nelle persone colpite da demenza, potrebbero essere causate da deficit progressivi e silenti del sistema di produzione di energia.

 Sono i mitocondri le unità metaboliche a cui spetta il compito di produrre energia disponibile in tempi brevi e in relazione alle necessità, secondo le esigenze della rete.

“Use it or lose it” cioè “Usalo o lo perderai”
Si tratta di un principio, così indicato da scienziati anglosassoni, secondo il quale la salute delle cellule cerebrali è fortemente correlata con l’attività mentale e fisica. Coltivare interessi molteplici, appassionarsi e praticare attività intellettualmente stimolanti, concentrando la propria attenzione su queste, contribuisce ad allontanare il declino mentale e la morte dei neuroni. In considerazione delle notevoli esigenze energetiche del nostro sistema nervoso il quale utilizza come carburanti glucosio ed ossigeno, sarebbe opportuno impegnarsi con regolarità nell’esercizio fisico, specialmente aerobico che studi e ricerche indicano come indispensabile presupposto per migliorare le funzioni cognitive in termini di attenzione, rapidità di elaborazione, capacità di pianificare ed attuare progetti, grazie anche all’incremento della efficienza del cuore, dei polmoni e dei reni.

Nelle terapie tradizionali della AD si trascurano, salvo qualche eccezione, tutte le possibili strategie volte a mantenere in buono stato di efficienza le capacità dell’ammalato come per esempio la memoria. Con l’età diventa sempre più difficile registrare e memorizzare stabilmente eventi nuovi; le nostre percezioni non sono più chiare ed accurate come un tempo e va diminuendo la velocità di elaborazione degli eventi. Se non registriamo con chiarezza, non possiamo certo memorizzare e richiamare correttamente i ricordi.

Abbiamo dedicato anni all’apprendimento focalizzando la nostra attenzione di volta in volta su temi diversi; ad una certa età tendiamo a ripetere procedure ed abilità già acquisite poiché, in un certo senso, viene meno la spinta della curiosità, l’interesse e il desiderio di apprendere qualcosa di nuovo, diventa più facile distrarsi e non riusciamo più a concentrarci a lungo su qualcosa che non conosciamo. Questa sorta di indifferenza, a volte diffidenza o addirittura ostilità verso le novità è molto comune negli anziani; non esiste invece ginnastica migliore per il cervello che “allenarlo” a pensare e a fare qualcosa che non conosce. Acquisire una nuova competenza favorirà, senza ombra di dubbio, la fissazione di nuovi ricordi e preserverà il richiamo di quelli passati, stimolando le cellule nervose a produrre neurotrasmettitori, inclusi quelli che con gli anni iniziano a scarseggiare ma sono importanti per consolidare i cambiamenti plastici delle reti nervose. E’ stato rilevato a questo proposito come l’allenamento cognitivo causi un aumento di volume dell’Ippocampo e un incremento nella produzione del fattore di crescita nervoso BDNF (Brain Derived Neurotrophic Factor) coinvolto nella memoria e nei meccanismi dell’apprendimento.

La AD comporta la perdita di capacità acquisite come scrivere, dipingere, suonare uno strumento musicale; questo progressivo decadimento potrebbe essere, se non fermato, quantomeno rallentato per effetto degli stimoli ambientali e dell’apprendimento.

Un cervello stimolato, che appartenga ad un anziano o a un paziente con AD, è più capace di apprendere e memorizzare. E’ un cervello che viene rimodellato di continuo, un cervello cioè, che va incontro a modificazioni plastiche dinamiche che riguardano soprattutto le sinapsi le quali non soltanto aumentano di numero, ma migliorano la loro efficienza incrementando la produzione di ACh e Dopamina che a loro volta allontanano la depressione e proteggono, entro certi limiti, dal rischio di essere colpiti da malattie neurodegenerative.

E’ come se le reti neuronali si congelassero, in assenza di stimoli, interessi, curiosità ed apprendimento poiché non viene avviata alcuna elaborazione cognitiva. Un cervello che non lavora quanto potrebbe è, per così dire, “isolato” e va incontro al cosiddetto learned non use, cioè al “non uso appreso” in cui i neuroni, per natura eccitabili, entrano in uno stato inusuale di quiescenza, e perdono via via la capacità di connettersi e comunicare tra di loro. Così vengono perse abilità acquisite senza che altre nuove le sostituiscano. Secondo gli scienziati del settore bisognerebbe lavorare intensamente sui neuroni “dormienti” per risvegliare e recuperare le loro funzioni.

In conclusione, l’attività fisica e mentale costanti sono in grado di migliorare il metabolismo di tutti gli organi compreso il cervello, contribuendo significativamente a mantenere integre ed efficienti le strutture sinaptiche. Rallentando il deterioramento delle reti neuronali si potrà vivere bene anche l’età avanzata ed avere così l’opportunità di trasmettere ai giovani conoscenze ed abilità, esperienza e saggezza acquisite lungo tutto l’arco della vita.

Da - http://sintesidialettica.it/leggi_articolo.php?AUTH=208&ID=540
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