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Autore Discussione: ANINDITA SENGUPTA L'orrore e i dubbi. - (Mumbai ndr).  (Letto 3493 volte)
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« inserito:: Novembre 28, 2008, 05:49:19 pm »

28/11/2008
 
L'orrore e i dubbi
 
 
 
ANINDITA SENGUPTA
 
Mentre sto scrivendo, ore e ore dopo l’inizio dell’attacco, una sparatoria infuria ancora dal Trident-Oberoi Hotel e nel complesso residenziale adiacente, mentre si sentono nuove esplosioni provenire dal Taj Hotel. Più di cento persone sono già state uccise, centinaia sono rimaste ferite, e non sappiamo quante altre vite porterà via la follia prima che tutto questo finisca. Dopo che la polvere si sarà posata e raccoglieremo tutti i corpi senza vita, potremo cominciare a contare le cicatrici finanziarie e psicologiche. Che rimarranno per molto tempo.

I mumbaikar, come vengono chiamati gli abitanti di Mumbai, avvertono in queste ore un senso di oltraggio inflitto alla loro amata città, ancora una volta. Avendo alle spalle altre stragi di bombe - nel 1993 e nel 2006 - Mumbai non è estranea al terrorismo, ma questo è il più grande e più spaventoso attacco che abbia mai vissuto. Mentre molti provano ancora un senso di incredulità, altri sono più addolorati che sorpresi, perché, dicono, «ogni due anni la nostra città va a fuoco».

Gli attaccanti hanno disegnato il loro tragitto attraverso almeno sette tappe, tra cui tre alberghi a cinque stelle, una stazione, due ospedali e un popolare pub. Molti di questi luoghi erano nella parte sud di Mumbai, finora considerata una delle zone più sicure dell’intero Paese. Osservare la devastazione di questi luoghi ha profondamente scosso gli abitanti della città e chiunque l’abbia conosciuta e amata. Come mi ha detto un amico ieri mattina: «Hanno fatto a pezzi la nostra casa».

L’attacco a Mumbai è un grave attentato alla nostra sicurezza come nazione. Gli echi delle esplosioni e delle sparatorie risuonano attraverso tutto il Paese. Negli hotel la paura spinge a stringere ancora di più le misure di sicurezza. A New Delhi andremo a votare tra due giorni, la polizia presidia i seggi in forze. Il Gujarat è in stato di massima allerta. Intanto, come scrive Jessica Reed, la biosfera è in fermento. La gente sta discutendo sugli attacchi nelle chat e su Facebook. Il tenore dei messaggi riflette una ridda di emozioni: dall’odio per i terroristi alla paura che tutto ciò possa avere serie ripercussioni, come l’aggravarsi delle tensioni tra le comunità religiose in India o il ritorno del partito di estrema destra BJP alle prossime elezioni.

Ma bisogna anche interrogarsi a fondo sul ruolo che hanno avuto i media indiani con il loro modo irresponsabile di coprire gli eventi. L’aver mandato in onda senza la minima riflessione ogni possibile dettaglio del massacro ha probabilmente aiutato i terroristi più di ogni altra cosa. Come commenta un blogger spagnolo: «Vorrei che la televisione Ndtv smettesse di mostrare tutto quello che le forze armate stanno facendo. Non pensano che i terroristi asserragliati negli alberghi possono guardare benissimo la tv? Così li aiutano». La caccia al colpevole è cominciata con molte sbavature. La prima rivendicazione del gruppo semisconosciuto dei Mujahidin del Deccan non convince fino in fondo. Le speculazioni sulle motivazioni del massacro si stanno diffondendo come il fumo da una discarica. E’ difficile distinguere tra voci più o meno incontrollate e i fatti verificabili. Ci vorranno giorni prima di ritornare a ragionare con lucidità. Per ora, tutto quello che possiamo fare è spegnere gli incendi. Preghiamo. Preghiamo e restiamo calmi.

Copyright: Guardian News and Media 2008
 
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« Risposta #1 inserito:: Novembre 28, 2008, 05:52:06 pm »

28/11/2008
 
Rappresaglia anti Pakistan?

Washington la impedirà
 

AJIT SAYI*
 
Il 26 novembre segna una svolta drammatica nella lunga battaglia di questo Paese contro il terrorismo. Mentre varie forme di estremismo hanno devastato il nord del Kashmir nell’insurrezione durata due decenni e sostenuta dal Pakistan, quasi tutti gli altri attacchi in questo secolo sono stati anonimi attentati con bombe, progettati per uccidere indiscriminatamente, mentre gli attentatori potevano mettersi al sicuro.

Nonostante l’India abbia visto un’escalation di attentati dinamitardi negli ultimi 6 anni, è il più sanguinario e spregiudicato attacco dal 1993, quando una serie di esplosioni coordinate uccisero a Mumbai 257 persone. L’assalto prima con granate a mano, poi appiccando il fuoco, prendendo ostaggi, con esecuzioni sommarie e agenti di polizia uccisi, compreso un capo dell’antiterrorismo, sparando all’impazzata per le vie, ha lasciato in ginocchio l’apparato di sicurezza dell’India. E’ il nostro 11 settembre.

Ora i servizi di sicurezza sono sotto processo per non aver previsto l’attacco. Il primo ministro indiano Manmohan Singh ha già puntato il dito contro il Pakistan. Nel 2001, dopo l’assalto al Parlamento, le due nazioni andarono molto vicino alla guerra. Ma ora, come allora, sembra improbabile che gli Usa permettano all’India di lanciare una rappresaglia militare. Con le elezioni tra 5 mesi, Singh potrebbe disperatamente cercare di contrastare con metodi populisti l’accusa di non aver saputo fronteggiare i terroristi sul suolo indiano.

* Vice direttore della rivista Tehelka
 
da lastampa.it
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« Risposta #2 inserito:: Novembre 30, 2008, 10:51:57 pm »

30/11/2008
 
La strana disfatta
 
 
È importante ascoltare quello che dicono gli indiani, quando si parla degli attentati di mercoledì a Mumbai (ex Bombay).
Quel che essi vivono è un 11 settembre: un bivio egualmente costernante.

Uno scoprirsi massimamente potenti, e massimamente vulnerabili. Così è per scrittori come Amit Chaudhuri o Suketu Mehta, autore di Maximum City.
Così per Amartya Sen. Meno perentori degli occidentali, essi vedono mali interni e esterni al tempo stesso. Mali interni perché la modernizzazione (l’India incredibile della pubblicità bellissima che appare a intervalli regolari sulla Bbc) suscita rancori non illegittimi nelle minoranze musulmane, e arroganti estremismi negli indù. Mali esterni perché i terroristi s’addestrano spesso in Pakistan, nutrendosi d’un conflitto tra India e Pakistan che non scema. Secondo Sen urge affrontare ambedue le cause, ma non con i mezzi del 2001: il premio Nobel dell’economia non parla di guerre e civiltà. Dice che «la priorità è ristabilire l’ordine e la pace, per evitare effetti negativi sullo sviluppo economico» indiano.

La prova somiglia all’11 settembre, ma i dubbi sulla risposta crescono. La via americana ed europea non ha curato i mali, ma li ha acutizzati.
Non ha portato ordine in Asia centrale e meridionale, ma esasperato discordie locali. Soprattutto ha banalizzato la guerra, ovunque: quando la superpotenza l’adopera come una delle tante opzioni e non come l’ultima, tutti precipitano nella rivalità mimetica. Così fa il Pakistan, per proteggersi dall’India e dalla sua influenza sull’Afghanistan. Così l’Iran, per evitare attacchi Usa a partire da Kabul. Così l’India, che sospetta connivenze tra Pakistan e terroristi. Nei servizi inglesi sta facendosi strada l’idea che la parola stessa - guerra - sia stata rovinosa. Ha nobilitato criminali comuni, tramutandoli in belligeranti. Ha strappato le radici ai conflitti riducendoli a uno scontro planetario tra società del terrore e del consenso, scontro teorizzato da Philip Bobbit e criticato da David Cole sulla New York Review of Books: come se il terrore fosse un valore attraente, paragonabile al comunismo nel XX secolo. Nell’ottobre scorso, sul Guardian, Stella Rimington, ex direttore dei servizi interni inglesi, ha detto: «Spero che il futuro presidente Usa smetta di parlare di guerra al terrore». La reazione all’11 settembre fu sproporzionata, l’erosione delle libertà civili «non necessaria, controproducente»: la guerra «fu un errore perché fece credere che il terrorismo potesse esser debellato con le armi».

Le maggiori sconfitte son quelle che capitano quando si combattono guerre con i manuali di ieri: lo storico Marc Bloch pensò questo, quando Hitler sgominò la Francia, e nel ’40 parlò di Strana Disfatta. Anche quella occidentale è una strana disfatta. Due guerre son state condotte come se il problema fosse tutto nell’ideologia di Al Qaeda. Come se all’origine del male non ci fossero modernizzazioni instabili in Asia, diseguaglianze detestate, conflitti regionali incancreniti.

La guerra può esser necessaria ma è cieca alla geografia, alla storia, ammantata com’è d’ideologia. Mette bandierine su mappamondi che non guarda. Se il Pakistan è divenuto luogo d’addestramento terrorista, è perché in quel Paese ci sono malattie sistematicamente trascurate. Categorie semplificatrici come guerra e terrorismo impediscono di vedere il lento divenire d’un Paese, incitano a usare le lenti del giornalista, che della storia vede solo la coda. Anche le guerre contro il terrore sono bolle: la realtà è ignorata, al suo posto se ne costruisce una immaginaria, utile a scopi mai raggiunti.

Non ha senso guerreggiare ancora in Afghanistan se non s’impara a guardare la geografia degli attori. Ai confini afghani: Asia centrale a Nord, Iran a Ovest, Pakistan a Sud-Est, Cina a Est. Ai confini indiani: Pakistan a Ovest, Cina e Myanmar a Est. Ai confini pachistani: Iran e Afghanistan a Ovest, Cina a Nord, India a Est. Le dispute, cruente, risalgono all’epoca coloniale britannica, quando tribù e popoli erano usati come cuscinetti, pedine. Questo fu, nell’800, il Grande Gioco anglo-russo sulla pelle afghana, indiana. Il Gioco mortificante continua.

Il Pakistan è nazione cruciale e invelenita, da decenni. La guerra afghana ha solo spostato il terrorismo, spingendolo nei covi pachistani da cui era partito durante l’occupazione sovietica, con l’aiuto Usa. Un’intera regione pachistana è governata da talebani, al confine afghano (le Aree Tribali amministrate federalmente, Fata). Insorti e terroristi prosperano con l’appoggio di parte dei servizi pachistani, e Islamabad fatica a monopolizzare la violenza perché di queste mafie teme di aver bisogno. Ha bisogno delle Aree Tribali per controllare l’Afghanistan, dei talebani per frenare quella che percepisce come minaccia indiana. Non bisogna dimenticare che Musharraf fiancheggiò Bush per combattere non i talebani, ma l’India: lo disse il 19 settembre 2001. Zardari, suo successore, tenta coraggiosamente il riavvicinamento all’India e il controllo dei servizi. Sarebbe disastroso considerarlo già ora un vinto.

Il Pakistan si sente in una tenaglia, minacciato di smembramento, e questo spiega tante sue debolezze. L’alleanza India-Afghanistan, la nuova complicità (anche nucleare) indo-americana: sono segni infausti per una potenza nucleare tuttora trattata come paria. C’è poi la Cina, che investe sempre più in Afghanistan. Sette anni sono infine passati dalla guerra, e la questione pachistana decisiva ancora non è stata affrontata. È la questione dei confini, sia con l’Afghanistan sia con l’India: a tutt’oggi scandalosamente indefiniti. Kabul contesta la linea Durand al confine col Pakistan, perpetuando il bisogno pachistano, lungo tale linea, di una zona pashtun super-armata anche se ribelle. Con l’India la frontiera è indistinta, senza accordo sul Kashmir. Ordine e pace presuppongono frontiere certe: l’Europa lo insegna. Il loro venir meno è un progresso, quando ex nemici stringono un’unione. Quando essa non c’è le frontiere indefinite si spostano nelle menti, divenendo mortifere.

La strana sconfitta nelle guerre anti-terrore rivaluterà forse gli esperti, a scapito degli ideologi. In un saggio su Foreign Affairs, due grandi esperti come Barnett Rubin e Ahmed Rashid indicano vie molto concrete, consistenti in negoziati diplomatici multipli e iniziative contro corrente. Il fatto che non comincino acutizza il sospetto diffuso che l’Occidente voglia guerre infinite, per controllare le risorse d’Asia centrale e contrastare la Cina. La vera lotta al terrorismo, per Rubin e Rashid, comincerà il giorno in cui si accetterà di distinguere fra breve e lungo termine, e tra combattenti e terroristi. Al Qaeda non è un’onnipotenza: vive perché gli insorti non hanno sbocco (Al Qaeda «è un’ispirazione, non un’organizzazione», scrive Bernardo Valli su la Repubblica). Con i talebani è ora di negoziare, per sconnetterli dal terrore. Alcuni loro leader hanno fatto capire che se le truppe Nato se ne vanno, s’impegneranno a non attaccare l’Occidente.

Un impegno bellico accresciuto in Afghanistan è pericoloso, senza questa rivoluzione diplomatica. Così com’è pericolosa l’idea di Robert Gates, segretario alla Difesa, secondo cui Kabul deve avere un esercito di 204 mila uomini - soldati e poliziotti - prima di un disimpegno Usa. Non solo l’Afghanistan non potrà pagarselo (Rubin e Rashid spiegano come il costo di simile forza, 3,5 miliardi di dollari, sia proibitivo anche se Kabul avesse una crescita annua del 9 per cento), ma la guerra continuerà a esser l’unica sua risorsa, e l’unica risorsa della regione intera. È questa spirale che alimenta i terrorismi, locali e mondiali. Non vederlo è suicida da parte dell’India, dell’Afghanistan, degli occidentali. Alimenta i peggiori sospetti sulle loro e le nostre intenzioni.

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