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Autore Discussione: Il Cardinale Carlo Maria MARTINI  (Letto 8874 volte)
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« inserito:: Settembre 01, 2012, 11:21:51 am »

L'ARCIVESCovo emerito di Milano

È morto il cardinale Carlo Maria Martini

Camera ardente in Duomo, lunedì i funerali

Aveva 85 anni. Era da tempo affetto dal morbo di Parkinson. Le sue condizioni si erano aggravate giovedì sera

Martini, oltre 20 anni alla guida della Diocesi di Milano


MILANO - È morto il cardinale Carlo Maria Martini. L'annuncio è stato dato nel pomeriggio dall'arcivescovo di Milano, Angelo Scola, dopo che già da giovedì sera era cresciuta l'apprensione per le condizioni dell'arcivescovo emerito di Milano, da tempo affetto dal morbo di Parkinson. Anche il papa, Benedetto XVI, era stato subito informato e aveva chiesto di essere tenuto costantemente informato per seguire da vicino l'evolversi della situazione. Nelle ultime 24 ore amici e parenti del cardinale hanno fatto visita al suo capezzale al Collegio Aloisianum di Gallarate (Varese), dove l'ex arcivescovo di Milano era ricoverato.

I FUNERALI - L'arcivescovo di Milano il cardinale Angelo Scola e il Consiglio episcopale milanese hanno nel frattempo stabilito le modalità delle esequie. La salma di Martini sarà accolta in Duomo a Milano sabato alle 12. Da quel momento, come spiega una nota della Diocesi, sarà possibile renderle omaggio sino ai funerali che verranno celebrati lunedì 3 settembre alle 16. Per le celebrazioni eucaristiche di domenica 2 settembre l'Ufficio liturgico della Curia predisporrà intenzioni di preghiera particolari.

IL MEDICO PERSONALE - Dopo un'ultima crisi, cominciata a metà agosto, il cardinale era entrato in fase terminale. «Non era più in grado di deglutire né cibi solidi né liquidi. Ma è rimasto lucido fino all'ultimo e ha rifiutato ogni forma di accanimento terapeutico» aveva detto Gianni Pezzoli, direttore dell'unità di Neurologia del Centro Parkinson degli Istituti clinici di perfezionamento di Milano, che da anni ha avuto in cura il Martini. «Su questi pazienti - ha spiegato il medico - si possono usare vari dispositivi come la peg (gastrostomia endoscopica percutanea, ovvero una forma di nutrizione forzata, ndr). Ma in questa fase sarebbe un accanimento terapeutico e l'accanimento terapeutico non va mai applicato in nessuna terapia medica, quindi anche in questo caso. La malattia è evolta in modo più naturale possibile». Il cardinal Martini «non ha mai cercato di nascondere la sua malattia, anzi l'ha sempre dichiarata con grande coraggio», ribadisce Pezzoli «ha partecipato a svariati convegni sul Parkinson, durante i quali ha sempre risposto alle domande dei pazienti. Per noi è stato ed è un onore poterlo seguire» ha concluso il medico.

«FINE VITA» - «Il cardinal Martini è stata una delle voci più belle, limpide e profonde, un pastore raro e un teologo raffinato, uno capace di profezia nei momenti difficili» ha detto il leader di Sel Nichi Vendola. «Anche nel momento più difficile si sale da soli sulla croce - ha aggiunto -, anche nel momento in cui si avvicina il fine vita lui sceglie il primato della dignità rifiutando l'accanimento terapeutico». Roberto Formigoni ha detto, invece, su Twitter: «Mi stringo in preghiera per lui col cardinale Scola e la Chiesa ambrosiana».
« Ultima modifica: Settembre 05, 2012, 03:44:00 pm da Admin » Registrato
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« Risposta #1 inserito:: Settembre 01, 2012, 11:30:35 am »

Ore d'ansia per l'arcivescovo emerito di Milano

L'ultima lezione di un principe della Chiesa

L'insigne biblista guidò la diocesi dal 1979 al 2002.

A lui si arresero le Brigate Rosse, consegnando un arsenale

di ARMANDO TORNO

Un'agenzia delle 20.32 di ieri sera segnalava che le condizioni di salute del cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo emerito di Milano, si sono aggravate. Il morbo di Parkinson non gli ha dato tregua in questi ultimi anni, anche se lui, lucidissimo nella mente ma tormentato da molteplici difficoltà motorie, ha continuato a lavorare.

La sofferenza è stata l'occasione per un'ulteriore lezione del cardinale Carlo Maria Martini. Lui, ultimo professore al Pontificio Istituto Biblico a tenere i corsi in latino, ora aveva la possibilità soltanto di bisbigliare. La parola gli costa fatica e quando cerca di esprimersi chiede un aiuto a don Damiano Modena che lo assiste e sa ricostruire le sue brevi frasi.

Egli resta per tutti coloro che lo hanno conosciuto, anche non credenti, un vero principe della Chiesa. Può non portare la berretta cardinalizia, non indossare la porpora, ma gli si riconosce un'autorità rara in un momento in cui questo termine ha sempre meno persone e istituzioni in grado di interpretarlo o di trasmetterlo. Martini lo ha in sé, naturalmente. Non è il semplice (o complesso) frutto del dialogo che ha saputo avviare con la società civile, né la conseguenza di uno stile, nemmeno va cercato nel prestigio dei suoi studi. Si potrebbe dire che è nato così, anche se è sempre stato timido e riservato, soprattutto discreto; tuttavia sapeva essere deciso quando si trovava dinanzi alle difficoltà.

Arcivescovo di Milano dal 1979 al 2002, di lui si possono raccontare migliaia di iniziative, dalla cattedra dei non credenti alle visite che faceva abitualmente ai carcerati, via via sino al rivoluzionario modo di intendere la sua missione. Ma l'episodio che non sarà dimenticato (e farà riflettere più di tanti altri gli studenti di storia del futuro) resta la consegna delle armi che fecero a lui le Brigate Rosse. Si arresero al cardinale, come in un romanzo dell'età romantica, portando un arsenale in curia. Anche chi aveva scelto la lotta armata riconosceva in Martini un'autorità indiscutibile. Del resto, quando essa è tale, la storia insegna che favorisce le rese più di ogni altro espediente.

Decine di pubblicazioni recano il suo nome. Dopo il rientro da Gerusalemme, nel 2008, questo insigne biblista ha messo in un canto le ricerche specialistiche per «comunicare a tutti - sovente ama aggiungere umilmente - la parola di Dio». Si è poi ritirato a Gallarate, all'Aloisianum, una casa dei gesuiti, in due locali; sul campanello, per un estremo atto di semplicità, ha chiesto che non fosse scritto «card» ma «padre Carlo Maria Martini». Il suo motto Pro veritate adversa diligere , ovvero «Per la verità scegliere anche situazioni sfavorevoli», non gli è stato utile soltanto per ornare lo stemma, ma lo può lasciare ai posteri come senso della sua vita. Lui, riservato, che mai ha voluto disfarsi dell'antica timidezza.

Chi lo ha incontrato recentemente - ricordiamo tra gli altri Aldo Maria Valli - ha notato nei suoi occhi «una luce nuova», un che «di fanciullesco». È vero: Martini sa stupire con un gesto, uno sguardo, un sorriso; anzi talvolta si impara da lui proprio attraverso le sue reazioni minime. È riuscito, come dire?, a togliere tutto il superfluo dai contatti umani e comunica con un'intensità che reca sempre riflessione ai suoi interlocutori. Eppure Martini è stato il solo cattolico ammesso nel comitato scientifico del Greek New Testament , testo poi utilizzato nella XXVI e XXVII edizione del Nestle-Aland, che è il riferimento per le traduzioni condotte in tutto il mondo. Inoltre, e anche questo aspetto lo ricorda con piacere e sempre un sorriso, ha indagato il papiro Bodmer 14, indispensabile per intendere una parte del Nuovo Testamento.

Il cardinale Angelo Scola, alla notizia dell'aggravarsi delle condizioni di salute del suo predecessore, ha invitato «tutti i fedeli della diocesi e a quanti l'hanno caro» a pregare per lui. Martini ha sovente pregato in maniera singolare, sorprendente. Non staremo a descrivere l'arcivescovo o l'eminente uomo di Chiesa nelle sue funzioni, ma quello che colpiva è quanto poteva capitare incontrandolo: chiedeva di attendere un momento prima di rispondere o di fare una scelta. Si ritirava per un breve lasso di tempo nell'altra stanza e pregava, si raccoglieva in sé. La preghiera, insomma, per Martini è sempre stata parte della vita e la vita ha sempre avuto bisogno della preghiera per sentirsi tale. Per questo siamo certi che all'appello del cardinale Scola risponderanno anche persone insospettabili, di quel genere che non ama la recita delle orazioni. Ma a Martini penseranno in queste ore. Con la memoria andranno a evocare le sue parole lette o pronunciate in questa o in quella occasione, si fermeranno per rimeditarle, aggiungeranno qualcosa che è rimasto loro in qualche angolo del cuore. Pregheranno, appunto, senza accorgersene. Lo faranno per Carlo Maria Martini. Un gesuita, un principe.

31 agosto 2012 | 16:03

da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/12_agosto_31/martini-principe-chiesa-torno-2111632876387.shtml
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« Risposta #2 inserito:: Settembre 02, 2012, 11:12:15 am »

IL CARTEGGIO CON I LETTORI

I miei tre anni da giornalista del Corriere

Abbraccio ai lettori, dialogherò con il cuore

Il 24 giugno 2012 il Cardinale Martini ha abbandonato la rubrica che curava sulle pagine del Corriere


Desidero iniziare quest'ultima pagina della rubrica, affidatami ormai qualche anno fa, ringraziando tutti coloro che mi hanno scritto in questi anni. Ho ricevuto migliaia di lettere di affetto, di gratitudine, di stimolo, di critica. Chiedo perdono a quelli a cui non sono riuscito a rispondere e a quelli che pur avendo ricevuto un cenno di riscontro lo hanno ritenuto poco o per nulla esaustivo. Ringrazio il direttore del Corriere che mi ha concesso un lungo tempo di dialogo nonostante l'affievolirsi della voce. Ringrazio pure tutti i suoi collaboratori. Un grazie di cuore anche ai miei successori sulla Cattedra di Ambrogio per la pazienza dimostrata, nonostante il mio intervento mensile.

Ora viene il tempo in cui l'età e la malattia mi danno un chiaro segnale che è il momento di ritirarsi maggiormente dalle cose della terra per prepararsi al prossimo avvento del Regno. Assicuro della mia preghiera per tutte le domande rimaste inevase. Possa essere Gesù a rispondere ai quesiti più profondi del cuore di ciascuno.

Eminenza, sono rimasto affascinato dalla bellezza delle incisioni presenti sui fianchi esterni della cattedra o trono di Massimiano custodito nel museo arcivescovile di Ravenna. È così gentile da darmi qualche notizia in più sulla cosiddetta «beffa del grano» perpetrata da Giuseppe ai danni dei suoi fratelli e narrata nella Genesi (42,25; 44,1-17): Giuseppe ha nascosto la propria tazza nel sacco di Beniamino per tenerlo come ostaggio in Egitto? Aveva prima tentato lo stesso tranello con l'altro fratello minore, Simeone? Perché privare il vecchio padre Giacobbe della compagnia dei due figli minori?
Giorgio Zavagli, Santa Maria Maddalena, Rovigo

Nella lunga storia di Giuseppe entrano tanti elementi in cui è possibile leggere quanto possa essere cattivo e fragile l'uomo. Tali elementi sono stati messi in buon ordine dal redattore finale, ma non gli si può chiedere di prescindere del tutto dalle proprie fonti. Ora queste fonti sono concordi nel sottolineare la gravità del gesto di Giuseppe, che toglie al padre la possibilità di vivere quietamente con i propri figli. Giuseppe fa queste cose perché vuol provare la verità di quanto i fratelli dicono.


Rimango sempre più allibito da ciò che succede nella (nostra?) Chiesa! Va bene pensare che anche gli uomini che ne sono alla guida sono peccatori, ma vien da chiedersi se chi è alla guida della Chiesa abbia un minimo di Fede. Come si può sostenere di avere Fede tanto da giungere alla guida di tutti i fedeli e commettere misfatti di tale portata? Che rapporto c' è tra Fede e peccato?
Paolo Fornari, Roma

Lei sa che la mia risposta procede dalla risposta data da Gesù a Pietro: «E le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (Mt 16,18) riferendosi alla Chiesa. Questa parola darà a Pietro la certezza che se da un lato le «porte degli inferi» le sono addosso da sempre,
dall' altro, non saranno mai in grado di chiudersi dietro di essa.

Carlo Maria Martini
31 agosto 2012

16:47© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cultura/12_agosto_31/cardinale-martini-ultima-lettera_4fa6872e-f369-11e1-a75f-a4fc24328613.shtml

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« Risposta #3 inserito:: Settembre 02, 2012, 11:18:18 am »

LA TESTIMONIANZA DELL'EX ESPONENTE DELLE BRIGATE ROSSE

L'ex terrorista Balducchi: «Così le Brigate Rosse consegnarono le armi al cardinal Martini»

Il primo contatto quando celebrò la messa di Natale a San Vittore. La consegna delle armi avvenne il 13 giugno dell'84


MILANO - «Avevamo deciso di abbandonare la lotta armata, e Martini ci ascoltò». L'ex terrorista Ernesto Balducchi ricorda alla Radio Vaticana quell'evento memorabile: la consegna delle armi da parte dei terroristi delle Brigate Rosse all'arcivescovado di Milano il 13 giugno dell'84. Qualche giorno prima, il 27 maggio, lo stesso Balducchi, accusato di banda armata, dal carcere di San Vittore aveva scritto al cardinale Martini per chiedere l'intervento della Chiesa in una sorta di mediazione per la ripresa del dialogo con lo Stato.
«Noi avevamo già maturato un giudizio negativo sull'esperienza della lotta armata - racconta Balducchi - però ci trovavamo di fronte un muro abbastanza compatto di opinione che non era disponibile a qualsiasi forma di dialogo e quindi ad accettare anche questo giudizio critico e questa uscita ideologica dal campo della lotta armata».

NATALE IN CARCERE - «Parlare con qualcuno - e di fatto, lui venne anche a Natale dell'83 a San Vittore - ci ha confortato in questo. Devo dire che poi ogni volta che lui toccava quegli argomenti - e che la cosa veniva riportata dalla stampa - notavamo che le nostre istanze erano ascoltate, erano recepite», prosegue. Sul perchè della scelta proprio di Martini come interlocutore per la consegna delle armi, Balducchi spiega che «avevamo seguito un suo intervento ad un convegno - mi pare del 1983 - sulla dimensione sociale del peccato. Cioè, illuminava un po' l'aspetto sociale, la dimensione sociale del peccato e quindi il suo legame con l'ingiustizia, fondamentalmente. Allora scrissi una lettera a Martini. Mi rispose, non me l'aspettavo. E a quel punto ho incominciato a mettere a fuoco quello che avrebbe potuto essere un dialogo anche concreto». Inoltre la Chiesa, in particolare la Chiesa milanese «per noi era l'unica sponda che avevamo e a cui potevamo accedere - sottolinea l'ex terrorista rosso - «Il resto erano le Procure della Repubblica che però esigevano nomi, cognomi, dati e fatti, per poi accedere alla cosiddetta legge dei pentiti, ma non era questo che a noi interessava». Ora, con la morte del card. Martini, aggiunge Balducchi, «abbiamo perso un grande riferimento culturale. L'attenzione al problema della giustizia nel mondo: questa era la cosa che anche per la mia esperienza è stata importante».«

Redazione Milano online 1 settembre 2012 | 15:57© RIPRODUZIONE RISERVATA

http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/12_settembre_1/ex-terrorista-Balducchi-consegna-armi-cardinal-Martini-2111651617882.shtml
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« Risposta #4 inserito:: Settembre 02, 2012, 11:19:08 am »

L'ADDIO

Martini, il comunicatore

Quei colloqui mensili sul giornale. «No alla trappola delle omissioni»


La voce si spense un giorno di maggio del 2010. Divenne un soffio leggero, un sibilo amplificato da un microfono. L'onda di un'altissima spiritualità costretta a ritirarsi, a ripiegare, ma non a stringersi di fronte al male cattivo, il morbo di Parkinson, con cui si era abituato a convivere e che lo consumava dai giorni felici di Milano. Era una sottrazione fisica, non una sottrazione del pensiero o dell'anima.
Il cardinal Martini uscì, in quella primavera, da una settimana di ricovero al San Raffaele. Era magro e provato. Sillabava, sibilava, chiedeva scusa. Restavano, dell'arcivescovo che Milano aveva imparato ad amare all'improvviso, dell'uomo che sapeva parlare agli atei e ai terroristi, del cardinale che la Chiesa avrebbe voluto Papa; di quell'uomo restavano la figura imponente e gli occhi azzurri e profondi, la luce buona dello sguardo. «Avete visto i momenti migliori e i momenti peggiori», disse un giorno con umiltà. Dei tre anni di visite periodiche per preparare e redigere insieme ad Armando Torno la rubrica Lettere al Cardinal Martini furono, quelli, i giorni più duri.

L'ultima dimora del cardinal Martini è stato l'Istituto Aloisianum di Gallarate, la casa dei Gesuiti a 40 chilometri da Milano, rifugio finale dopo gli anni della meditazione e degli studi a Gerusalemme. Due stanzette e un piccolo bagno al terzo piano. Intorno, le tracce di una vita irripetibile. Le pillole quotidiane che faticava a mandar giù come fossero sassi, gli amati dischi di Mozart, le macchine per la fisioterapia, sempre più faticosa. Il Corriere sul tavolo, le pagine voltate sui temi più cari, dalla bioetica al dolore nel mondo. Rare fotografie, i segni degli incontri più importanti: un ragazzo down, un sacerdote, un volontario. Era curioso, le nuove tecnologie lo colpivano. Usava il computer, scriveva libri, mandava mail, si appassionò all'iPad. Prima di quel ricovero c'erano state le gite del giovedì, le passeggiate nel giardino dell'Aloisianum. Ora non più. Desiderava il contatto con i lettori. Il fenomeno-città, punto d'incontro di tensioni e speranze, rappresentava un interesse ricorrente, il suo serbatoio. Era, la sua, una conoscenza accompagnata a una formidabile elaborazione di pensiero, quasi un sesto senso, un'immaginazione profetica che aveva sviluppato nel triangolo Roma, Milano, Gerusalemme. Le città della sua vita. La risposta a quegli appelli era tracciata da tempo: «Sarò con voi ovunque andrò». Credeva nella preghiera di intercessione. Il suo motto episcopale, dalla regola pastorale di San Gregorio Magno, era Pro veritate adversa diligere , cioè «per il servizio alla verità essere pronto ad amare le avversità». La peggiore delle condanne era per lui non essere capito, o peggio frainteso.

Nella piccola libreria, volumi scelti: l'ultima scrematura di una vita di letture in molte lingue, antiche e moderne. In un angolo, con pudore, una bellissima foto, scattata in seminario: spiccava, tra i volti felici degli studenti, un giovane alto e nobile, con i capelli a spazzola, lo sguardo dolce e fiero.
Teneva la Bibbia aperta sul modesto tavolino di formica, verdognolo come i vecchi banchi di scuola. Il pupazzo di Winnie the Pooh, l'orsacchiotto di A. A. Milne, amato regalo degli anni trascorsi a Gerusalemme, un bicchiere di gazzosa, piccola delizia tra le medicine amare, gli occhiali con la montatura dorata, come un nonno buono, che il tremito del Parkinson gli faceva scendere sul naso.

La sua finestra dava sulla chiesa dell'istituto. Il divano, la poltrona dei pomeriggi di riflessione. Sul muro, la pergamena del Premiolino, il riconoscimento che ricevette nel 2010 per la rubrica sul Corriere . Amava ricordare che la sua prima passione era stata proprio il giornalismo. Una volta gli dissi: se la sua vita non avesse cambiato percorso, Montanelli avrebbe avuto un temibile rivale. Sorrise. Faticava sempre di più a scrivere, ma ne trasse una ragione di vita. Di tutte le lettere fece un piccolo archivio in cui navigava per attingere idee. Era preoccupato non di parlare ai giovani, ma per i giovani. Seguiva il precetto di Paolo: trasformatevi rinnovando la vostra mente.

Le giornate erano scandite dalle cure, dalla preghiera, dalle visite di intellettuali, uomini di pensiero, preti famosi e parroci sconosciuti, gente comune che cercava una strada, un senso. Con tutti sapeva usare parole forti. Così, mese dopo mese, ha insegnato ai suoi lettori che il Paradiso esiste, che gli angeli custodi ci accompagnano e ci proteggono. Le discussioni sui Papi del Novecento, tutti amati, le parole del cardinale Schuster: «Respiro con la Chiesa nella stessa sua luce, di giorno, nelle sue stesse tenebre, di notte». E poi la crisi economica, «da affrontare con coraggio civile». Il senso del dolore, che avvertiva diffuso in quella corrispondenza così sofferta.

Quando gli chiedemmo un commento sullo scandalo della pedofilia, lui si alzò e uscì dalla stanza, in silenzio. Era molto turbato, soffriva per l'umiliazione della Chiesa, aveva gli occhi lucidi. Pregò in solitudine per una decina di minuti, poi tornò davanti a noi. Era commosso ma più sereno, sollevato. Richiamò le severe parole di Gesù: «Guai a colui per cui avvengono gli scandali. È meglio per lui che gli sia messa al collo una macina da mulino e venga gettato nel mare, piuttosto che scandalizzare uno di questi piccoli» ( Vangelo secondo Luca 17,2).

L'incontro, l'ultimo, con Papa Ratzinger fu nel giugno 2012 durante il Meeting per le famiglie a Milano. Il dialogo avvenne attraverso gli sguardi. Un anno prima si erano dati appuntamento in Vaticano: il faticoso viaggio in carrozzina, l'abbraccio tra due amici, il teologo e il biblista, che attraverso percorsi diversi si stimavano. Il colloquio con Benedetto XVI avvenne in tedesco, ma avrebbe potuto svolgersi in molte altre lingue. Diceva spesso: «Vorrei essere parte di una Chiesa che s'indigna e combatte a fianco dei poveri e dei diseredati, che striglia i potenti della Terra quando si riempiono la bocca di Dio e sono così lontani nel loro operato». Di più: allo scandalo vaticano sul «corvo» e i documenti trafugati, rispose sul Corriere che la Chiesa avrebbe dovuto rinunciare ai suoi tesori, e lui «ne sarebbe stato ben contento», ma anche prodigarsi per recuperare il tesoro millenario della fiducia. Quando iniziò la rubrica scrisse: «Oggi la negazione della verità assume spesso la figura dell'omissione voluta e colpevole, condizionata dalla paura o dall'interesse, o anche dalla paciosità: mi guardi il Signore da queste trappole!».

Paolo Baldini

1 settembre 2012 | 7:26© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_settembre_01/baldini-comunicatore-martini_15ccbc3c-f3f3-11e1-8223-8f87a48260f4.shtml
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« Risposta #5 inserito:: Settembre 02, 2012, 11:20:23 am »

IL RICORDO DEL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO

Quella luce che ho visto in lui

Poche persone hanno influenzato i miei orientamenti e le mie scelte come Carlo Maria Martini.

Sull'Europa soprattutto


Caro direttore, la scomparsa del cardinale Carlo Maria Martini priva la comunità dei credenti, ma anche le moltitudini di quanti non credono o non sono certi di credere, di un punto di riferimento dotato di eccezionale carisma e forte autorevolezza, uniti al profondo rispetto per ogni interlocutore. «Maestro dell'annuncio e della testimonianza del Vangelo nella nostra epoca», come è stato definito, Carlo Maria Martini lascia un vuoto incolmabile tra coloro che hanno trovato in lui una guida intellettuale e spirituale, attraverso la parola, gli scritti, l'esempio.

Ma va a prendere il posto che gli compete tra i grandi italiani ed europei che hanno contribuito a forgiare il pensiero religioso e la vita civile della nostra epoca.
Serberò per sempre la memoria, l'impronta e l'emozione degli incontri con il cardinale Martini, delle conversazioni con lui sull'educazione dei giovani, sui difficili momenti più volte vissuti dall'Italia negli ultimi trent'anni, sui ruoli della società civile e della comunità politica, sul valore dell'Europa unita, sull'impegno incessante necessario per avanzare verso quell'obiettivo, sulla forza d'animo che occorre per riprendersi dopo le inevitabili battute d'arresto. Poche persone, desidero riconoscerlo in questo momento, hanno influenzato i miei orientamenti e le mie scelte come Carlo Maria Martini.

Sull'Europa, soprattutto. Un tema che Martini ha sempre coltivato con passione, spesso in modo profetico. Sul Corriere della Sera del 1° maggio 1998, salutando la nascita dell'euro, egli esortava l'Europa a dare prova di un «supplemento di responsabilità». A cominciare da quella sfida che «consiste nel mostrare, con programmi concreti, che la moneta unica e lo stare insieme in un certo modo aumentano le prospettive di lavoro per tutti, in un quadro di autentica solidarietà».

Prima di quello storico passaggio, intervenendo al Parlamento Europeo a Strasburgo nel 1997, l'Arcivescovo di Milano rifletteva sul tema Suggestioni sull'Europa alla luce dell'opera di Sant'Ambrogio , in occasione del XVI centenario della morte del suo grande predecessore. «Ritengo si possa dire che l'Europa si trova di fronte a un bivio importante, forse decisivo, della sua storia. Da un lato, le si apre la strada di una più stretta integrazione: le linee per realizzarla sono molte e in gran parte sono incluse nella sua stessa storia. Dall'altro lato, la strada che può aprirsi è anche quella di un arresto del processo di unificazione o di una sua riduzione solo ad alcuni aspetti non pienamente rispettosi dei valori su cui deve fondarsi una vera Unione». «La scelta, dunque, sembra essere tra un'unità più stretta capace di coinvolgere un maggior numero di popoli e nazioni e una battuta d'arresto che potrebbe portare alla disgregazione dell'edificio europeo o alla identificazione di tale edificio con una sola parte del Continente».

Dilemmi drammatici, intravisti da Carlo Maria Martini con grande lucidità. Sta oggi a noi - sotto la sua perdurante guida, speriamo - batterci affinché gli aspetti negativi delle sue profezie non si avverino.

Mario Monti

1 settembre 2012 | 8:09© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://www.corriere.it/cronache/12_settembre_01/monti-memoria-dilemma_eb9c4760-f3f8-11e1-8223-8f87a48260f4.shtml
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« Risposta #6 inserito:: Settembre 02, 2012, 11:21:27 am »

MARTINI, LA SCOMPARSA DI UN PADRE

Il mendicante con la porpora

Se lo avesse voluto, magari attenuando qualche sua posizione riformatrice, avrebbe potuto varcare il soglio pontificio. Ma a Roma preferì Gerusalemme. E al potere, gli studi e la gente. Martini non è stato soltanto un grande arcivescovo di Milano, negli anni difficili del terrorismo e dello sgretolamento morale della Prima Repubblica. Non è stato soltanto il tenace promotore della cattedra dei non credenti, il teologo raffinato e anticonformista, l'oppositore creativo pur nella disciplina delle gerarchie ecclesiastiche. È stato soprattutto un padre comprensivo in una società che di padri ne ha sempre meno, pur avendone un disperato bisogno.

Nessuno avrebbe mai immaginato che l'algido rettore gesuita, scelto da Giovanni Paolo II alla fine degli anni Settanta come successore di Sant'Ambrogio, così aristocratico e apparentemente freddo, avrebbe parlato al cuore di tutti, non solo dei fedeli, con tanta concreta semplicità. Delle molte lettere alle quali Martini rispose, negli anni in cui tenne la sua rubrica sul Corriere , fino al giugno scorso, rubrica che spiacque a Roma, ne vorrei ricordare una sola. Di un non credente, convinto però che «quella cosa bellissima che è la vita non ha potuto crearla nessun altro che un essere straordinario». Martini rispose così: «Nonostante la differenza tra il mio credere e la sua mancanza di fede siamo simili, lo siamo come uomini nello stupore davanti al creato e alla vita». Sono parole bellissime che disegnano il senso profondo di un destino comune.

E interrogano la nostra coscienza, un «muscolo», diceva Martini, che va allenato. Nel suo libro Le età della vita , il cardinale ricordava un proverbio indiano che divide la nostra esistenza in quattro parti. Nella prima si studia, nella seconda si insegna, nella terza si riflette. E nella quarta? Si mendica, anche senza accorgercene. Il mendicante con la porpora ha avuto l'umiltà di dismettere i suoi abiti curiali e di condividere con noi timori e fatiche. E come un padre ha tentato di aiutarci a sciogliere i dubbi che ci assalgono «la notte, quando l'oscurità affina i sensi e l'immaginazione».

A rispondere a quelle domande sui valori della vita che assomigliano a tanti «sassi che cadono nel buio del pozzo» e ad insegnarci, da grande comunicatore qual era, le insostituibili virtù del dialogo e dell'ascolto. In Conversazioni notturne a Gerusalemme , scritto con Georg Sporschill, Martini affrontò molti argomenti scomodi per la stessa Chiesa: dalla contraccezione all'adozione dei single , dalla comunione per i divorziati alle tematiche del fine vita, forse tra le cause del suo isolamento ecclesiastico. E il rifiuto finale di un accanimento terapeutico, quasi un testamento biologico, farà discutere e riflettere.

Nell'ultimo colloquio che avemmo, Martini, ormai senza voce, soffriva per gli scandali che scuotevano la Chiesa (indietro di 200 anni, dice nell'ultima intervista che pubblichiamo) e, pur su posizioni diverse, manifestava tutto il suo affetto e la sua vicinanza al Pontefice.
Sarebbe un gesto altamente simbolico per l'unità della Chiesa, persino rivoluzionario, se lunedì in Duomo, per l'estremo saluto, ci fosse anche Benedetto XVI.

1 settembre 2012 | 8:24

da - http://www.corriere.it/editoriali/12_settembre_01/de-bortoli-mendicante-porpora_23f7d6c8-f3f5-11e1-8223-8f87a48260f4.shtml
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« Risposta #7 inserito:: Settembre 05, 2012, 03:42:16 pm »

La nipote «Così ci hai chiesto di essere addormentato»

La lettera al cardinal Martini della nipote Giulia: «Siamo stati assieme, nelle ultime 24 ore, tenendoti la mano»

(Imagoeconomica) (Imagoeconomica)
Caro zio,
zietto come mi piaceva chiamarti negli ultimi anni quando la malattia ha fugato il tuo naturale pudore verso la manifestazione dei sentimenti questo è il mio ultimo, intimo saluto.

Quando venerdì il tuo feretro è arrivato in Duomo la prima persona, tra i fedeli presenti, che ti è venuta incontro era un giovane in carrozzina, mi è parso affetto da Sla.
D'improvviso sono stata colta da una profondissima commozione, un'onda che saliva dal più profondo e mi diceva: «Lo devi fare per lui» e per tutti quei tantissimi uomini e donne che avevano iniziato a sfilare per darti l'estremo saluto, visibilmente carichi dei loro dolori e protesi verso la speranza.
Lo sento, Tu vorresti che parlassimo dell'agonia, della fatica di andare incontro alla morte, dell'importanza della buona morte.
Morire è certo per noi tutti un passaggio ineludibile, come d'altro canto il nascere e, come la gravidanza dà, ogni giorno, piccoli nuovi segni della formazione di una vita, anche la morte si annuncia spesso da lontano. Anche tu la sentivi avvicinare e ce lo ripetevi, tanto che per questo, a volte, ti prendevamo affettuosamente in giro.

Poi le difficoltà fisiche sono aumentate, deglutivi con fatica e quindi mangiavi sempre meno e spesso catarro e muchi, che non riuscivi più a espellere per la tua malattia, ti rendevano impegnativa la respirazione. Avevi paura, non della morte in sé, ma dell'atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede.

Ne avevamo parlato insieme a marzo e io, che come avvocato mi occupo anche della protezione dei soggetti deboli, ti avevo invitato a esprimere in modo chiaro ed esplicito i tuoi desideri sulle cure che avresti voluto ricevere. E così è stato. Avevi paura, paura soprattutto di perdere il controllo del tuo corpo, di morire soffocato. Se tu potessi usare oggi parole umane, credo ci diresti di parlare con il malato della sua morte, di condividere i suoi timori, di ascoltare i suoi desideri senza paura o ipocrisia.

Con la consapevolezza condivisa che il momento si avvicinava, quando non ce l'hai fatta più, hai chiesto di essere addormentato. Così una dottoressa con due occhi chiari e limpidi, una esperta di cure che accompagnano alla morte, ti ha sedato.

Seppure fisicamente non cosciente - ma il tuo spirito l'ho percepito ben presente e recettivo - l'agonia non è stata né facile, né breve. Ciò nonostante, è stato un tempo che io ho sentito necessario, per te e per noi che ti stavamo accanto, proprio come è ineludibile il tempo del travaglio per una nuova vita.

È di questo tempo dell'agonia che tanto ci spaventa, che sono certa tu vorresti dire e provo umilmente a dire per te. La chiave di volta - sia per te che per noi - è stata l'abbandono della pretesa di guarigione o di prosecuzione della vita nonostante tutto. Tu diresti «la resa alla volontà di Dio».
A parte le cure palliative di cui non ho competenza per dire è l'atmosfera intorno al moribondo che, come avevo già avuto modo di sperimentare, è fondamentale.

Chi era con te ha sentito nel profondo che era necessaria una presenza affettuosa e siamo stati insieme, nelle ultime ventiquattro ore, tenendoti a turno la mano, come tu stesso avevi chiesto. Ognuno, mentalmente, credo ti abbia chiesto perdono per eventuali manchevolezze e a sua volta ti abbia perdonato, sciogliendo così tutte le emozioni negative.

In alcuni momenti, mentre il tuo respiro si faceva, con il passare delle ore, più corto e difficile e la pressione sanguigna scendeva vertiginosamente, ho sperato per te che te ne andassi; ma nella notte, alzando gli occhi sopra il tuo letto, ho incontrato il crocefisso che mi ha ricordato come neppure il Gesù uomo ha avuto lo sconto sulla sua agonia.
Eppure quelle ore trascorse insieme tra silenzi e sussurri, la recita di rosari o letture dalla Bibbia che stava ai piedi del tuo letto, sono state per me e per noi tutti un momento di ricchezza e di pace profonda.

Si stava compiendo qualcosa di tanto naturale ed ineludibile quanto solenne e misterioso a cui non solo tu, ma nessuno di coloro che ti erano più vicini, poteva sottrarsi. Il silenzio interiore ed esteriore i movimenti misurati l'assenza di rumori ed emozioni gridate - ma soprattutto l'accettazione e l'attesa vigile - sono stati la cifra delle ore trascorse con te.
Quando è arrivato l'ultimo respiro ho percepito, e non è la prima volta che mi accade assistendo un moribondo, che qualcosa si staccava dal corpo, che lì sul letto rimaneva soltanto l'involucro fisico. Lo spirito, la vera essenza, rimaneva forte, presente seppure non visibile agli occhi. Grazie Zio per averci permesso di essere con te nel momento finale. Una richiesta: intercedi perché venga permesso a tutti coloro che lo desiderano di essere vicini ai loro cari nel momento del trapasso e di provare la dolce pienezza dell'accompagnamento.

Giulia Facchini Martini

4 settembre 2012 | 11:21© RIPRODUZIONE RISERVATA

da - http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/12_settembre_4/cosi-voleva-essere-addormantato-2111678973083.shtml#
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« Risposta #8 inserito:: Settembre 05, 2012, 03:45:04 pm »

1 settembre 2012 - ore 06:59

Controversia su Martini

Storia di una grande vocazione, di un pastore riluttante, di una figura mediatica osannata dai beautiful people, e di un cardinale tormentato che votò Ratzinger


L’Aloisianum, la gloriosa casa dei Gesuiti a Gallarate, centro di studi filosofici e non biblici, è stata la sua ultima dimora.
Ché a Gerusalemme, che aveva scelto per sé e per tornare ai suoi studi – più di Roma e meglio di Roma: Gerusalemme come l’altra Roma – e dove aveva trascorso sei anni dopo essersi ritirato, aveva dovuto rinunciare. In attesa di tornarci per sempre, nella valle di Josafat. In uno dei suoi ultimi libri aveva citato per una volta non la Bibbia, ma un proverbio indiano: “Dapprima impariamo, poi insegniamo, poi ci ritiriamo e impariamo a tacere. E nella quarta fase, l’uomo impara a mendicare”. La mendicanza della malattia, certo, il Parkinson. E la mendicanza umana della preghiera: “Un tempo avevo sogni sulla chiesa… Dopo i settantacinque anni ho deciso di pregare con la chiesa”. Ma non è affatto vero che abbia mai smesso di parlare, e di sognare la sua chiesa. Anzi Carlo Maria Martini non ha mai voluto farsi sentire così tanto come nei suoi ultimi anni. Da quando nel 2006 l’Espresso pubblicò il suo dialogo con Ignazio Marino, in cui chiedeva alla chiesa “il superamento di quel rifiuto di ogni forma di fecondazione artificiale”, per superare il “doloroso divario tra la prassi ammessa comunemente dalla gente e anche sancita dalle leggi e l’atteggiamento almeno teorico di molti credenti”. Oppure da quando nel 2008 aveva pubblicato le sue “Conversazioni notturne a Gerusalemme” col gesuita tedesco Georg Sporschill, dedicate al “rischio della fede”.

Qualcuno si era limitato a liquidarle con un “Gesù non è cattolico”. In realtà erano una summa teologica di tutte le zone grigie, i chiaroscuri, i detti e non detti del pensiero Martiniano. Che qui diventavano espliciti, ad esempio sulla bioetica: “Dopo l’Humanae Vitae, i vescovi austriaci e tedeschi, e molti altri vescovi, hanno seguito, con le loro dichiarazioni di preoccupazione, un orientamento che oggi potremmo portare avanti. Quasi quarant’anni di distanza (un periodo lungo quanto il passaggio di Israele nel deserto) potrebbero consentirci una nuova visione”.

Entrato nei gesuiti a diciassette anni, nel 1944 (ma la scelta avvenne ancora prima: “Ho compiuto allora la decisione della mia vocazione.
Ho dei ricordi, tra i dieci e i dodici anni: una scelta assoluta, già chiarissima”, riporta Marco Garzonio nel saggio biografico del Meridiano che Mondadori ha dedicato al cardinale, “Martini - Le ragioni del credere”), l’arcivescovo emerito di Milano e cardinale Carlo Maria Martini ha attraversato nella chiesa e nella Compagnia di Gesù quasi sette decenni, molti da protagonista, molti con l’immagine del bastian contrario, dell’antipapa, dell’ante-papa, come preferì definirsi lui. E in questa lunga vita c’è ovviamente di tutto. Ma non il contrario di tutto.

Figlio di un ingegnere edile di Orbassano, ordinata e religiosa borghesia piemontese, talentuoso studente di Sacra Scrittura al Pontificio Istituto Biblico, la Harvard dei gesuiti a Roma, il 29 settembre 1969, a soli quarant’anni,  ne venne nominato rettore.
E’ il capitolo meno conosciuto della sua vita, eppure cruciale, perché poi, in fin dei conti, tutte le vicende e gli scontri notevoli nella chiesa dell’ultimo mezzo secolo partono da lì, da Roma e in gran parte dai gesuiti, dalla primavera conciliare e dalla lotta tra conservatori e nuovi teologi che si consuma negli anni Sessanta nell’apparente quiete sonnacchiosa di una Roma ancora antropologicamente papalina.
Martini c’era. Il quarantenne gesuita divenne rettore del Biblico giusto nell’anno in cui il suo glorioso ordine, sotto i più forsennati venti della contestazione e la garibaldina profetica guida di Padre Pedro Arrupe stava per tracollare definitivamente (“un basco ci ha fondato, un basco ci chiuderà”).

Discepolo del grande cardinale e gesuita tedesco Augustin Bea, direttore del Biblico, patrono del nuovo metodo storico-critico e avversario della nouvelle théologie di cui erano esponenti Jean Daniélou e Henri de Lubac (che invece molto affascinava un talentuoso teologo tedesco, coetaneo di Martini, Joseph Ratzinger) e che sosteneva un’esegesi spirituale separata dal senso storico-letterale.

Al Biblico si compivano gli studi più spericolati del nuovo metodo, era sotto il fuoco dei conservatori: “Ci accusavano di leggere la Bibbia come degli increduli”, ricordò molti anni dopo Martini (del resto era stato Pio XII con l’enciclica Divino Afflante Spiritu ad aprire la strada alla nuova esegesi). Martini seppe tenere una barra mediana e riformista. Finché fu Paolo VI a “ridare l’onore al Biblico”, riconoscerà molti anni dopo Martini. E fu Montini a chiamarlo, fra gli ultimi atti del pontificato, nel 1978, alla guida della Pontificia Università Gregoriana.
E fu lì che lo conobbe, traendone ottima impressione, Karol Wojtyla. Comunque sia nata, tra gli esiti misteriosi di quella scelta c’è il dato di fatto che Giovanni Paolo II si costruì da solo, per così dire, il proprio alter ego nella gerarchia, un antipapa perfetto, a uso soprattutto dei media e del sempre più frustrato cattolicesimo progressista. Ha funzionato per trent’anni, tra contrapposizioni vere e presunte e richieste “profetiche” di indire un Concilio Vaticano III.

Quando Giovanni Paolo II, con una mossa la cui sorpresa, per molti, non è cessata neppure oggi, lo scelse come nuovo arcivescovo di Milano, Martini tra le sue qualità “non poteva annoverare il governo di una parrocchia”, come scrive Garzonio. Giovane studioso a Roma, il suo unico contatto con la pastorale era stato un privatissimo apostolato, ma propiziato dalla Comunità di Sant’Egidio, nel carcere minorile di Casal del Marmo e nelle borgate di Primavalle”.

Per Garzonio ovviamente la cosa non rileva: “Ma la novità martiniana era stata quella di aver costruito una formazione scientifico-culturale e religiosa complessa”. Collaboratore e suo massimo biografo, Garzonio ancora lo scorso anno aveva provato con tenacia a mobilitare una sua piccola lobby del Corriere della Sera per propiziare un successore di Dionigi Tettamanzi che si collocasse nel solco martiniano.

La scelta di mandare un gesuita piemontese e fine biblista a guidare la diocesi più vasta del mondo, e cruciale per la chiesa italiana, e proprio all’inizio di un pontificato che aveva già iniziato a scuotere tutto dalle fondamenta è, comunque la si voglia leggere, uno dei passaggi chiave per la chiesa (e il suo rapporto con il mondo laico) degli ultimi decenni. Probabile, come ritengono molti informati, che per il Papa polacco Martini fosse semplicemente un gesuita d’ordine, un uomo di studi, fuori dalle pesanti logiche di schieramento della chiesa italiana. Secondo alcuni, nella coloritura “ante-papale” e progressista che il suo episcopato assunse quasi da subito avrebbero giocato fattori esterni, come l’influenza  fondamentale del segretario, quasi un segretario di stato, monsignor Erminio De Scalzi, o il rapporto con la intellighenzia cattolica ambrosiana, di matrice dossettiana-maritainiana e molto aperta a sinistra. Nella sua biografia di Martini, intitolata con trasparente forzatura antonomastica “Il Cardinale”, uscita qualche anno fa per Mondadori, Garzonio infila un aneddoto dossettiano tanto perfetto da sembrare costruito. Salendo verso Milano, il nuovo cardinale fece sosta a Monteveglio, sull’Appennino. Non trovò Dossetti nel suo eremo, a meditare sui destini progressivi della chiesa e dell’Italia: era partito per la Palestina (il luogo dell’anima, per entrambi). Gli aveva però lasciato un biglietto: “Le raccomando che da lei Milano senta solo vangelo, nient’altro che vangelo”.

Il vescovo ambrosiano trapiantato a Bologna Giacomo Biffi, al netto di una qualche umanissima sensibilità personale alla vicenda, anni fa ha scritto quel che mai nessuno aveva osato esprimere così esplicitamente: con la nomina di Martini a Milano “è arrivata alla sua conclusione, dopo quasi novant’anni, l’epoca che nella chiesa ambrosiana era iniziata nel 1891 con la venuta del beato cardinale Andrea Carlo Ferrari. Un’epoca tra le più luminose e feconde per il calore e la certezza della fede, per la concretezza delle iniziative e delle opere, per la capacità di rispondere alle interpellanze dei tempi non con cedimenti e mimetismi ma attingendo al patrimonio inalienabile della verità… Sempre con
l’ispirazione e lo slancio attinti alla grande tradizione di san Carlo Borromeo e al ricchissimo, sereno e rasserenante magistero di
sant’Ambrogio”. Non suonò come un’approvazione della lunga guida martiniana della chiesa di Milano.

Nel suo lunghissimo episcopato, e in misura quasi maggiore negli anni successivi, Carlo Maria Martini ha goduto, tolta una solida piccola schiera di critici e oppositori, di grande credito da parte dei fedeli e del mondo laico, di grande ammirazione da parte dell’establishment culturale, di grande stampa. Il problema di qualsiasi abbozzo di bilancio è verificare che uso abbia fatto, il cardinale, di tutto questo ben di Dio.

L’ascetico Martini, il sobrio intellettuale, è stato un cardinale molto mediatico. “Il lembo del mantello”, la lettera famosa pastorale del 1991 si concludeva parafrasando san Francesco e inneggiando a “sorella televisione” e “fratello giornale”. Quella testarda, o forse un po’ ottusa, apertura fiduciosa, o piuttosto questa disponibilità arrendevole ai media, senza mai farsi venire un dubbio francofortese sul ruolo dei media, senza mai rileggersi il Sillabo, senza mai interrogarsi sui danni che un sistema di pensiero pervasivo possono produrre sulla “formazione della retta coscienza cristiana” sono significativi. Anche Wojtyla non aveva paura dei media, anzi li dominava con la forza del gesto e della parola. Ma quando c’era da scagliarsi contro i loro contenuti, lo faceva eccome. Invece, come scrive Ferruccio Parazzoli nel citato Meridiano Mondadori, “Martini non esorta: si informa, dialoga”, scrive. E’ il riassunto più banale, ma a suo modo perfetto, del rapporto tra Martini e “la cultura”. Con tutti i limiti.

Martini ha frequentato e coltivato a lungo la zona grigia della coscienza, quella che, negli ultimi anni, ne aveva fatto un nume tutelare della conventicola di liberi pensatori dell’Università Vita e Salute del San Raffaele. Tanto più quando, a inizio 2007, già malato, sul Sole 24 Ore con un articolo titolato “Io, Welby e la morte” era entrato a gamba tesa, sebbene con babbucce felpate, in uno dei contenziosi più gravi che la chiesa cattolica italiana avesse in corso. La messa per Welby l’avrebbe celebrata, sul sottile confine della coscienza bisogna saper discernere. Sono questi atteggiamenti – oltre va da sé la cultura e la postura professorale, da misurato accademico più che da uomo di chiesa – che gli hanno sempre garantito un’audience plaudente tra i laici. Tanto più, ogni volta che le sue parole potevano essere usate come contraltare alle posizioni ufficiali della gerarchia wojtyliana-ruiniana-ratzingeriana. Le forzature mediatiche, e un ben dissimulato compiacimento di fronte a esse, fanno del resto data dai tempi della Cattedra dei non credenti, la serie di conferenze aperte al mondo culturale ateo o agnostico che per lunghi anni fu il fiore all’occhiello del “dialogo” della diocesi ambrosiana.

A Milano arrivò il 10 febbraio 1980. Una delle prime incombenze pubbliche, solo tre mesi dopo, furono i i funerali di Walter Tobagi. Uno dei primi gesti pubblici fu accogliere in curia le armi dei brigatisti che avevano deciso di arrendersi a lui, e non allo stato, per chiudere la loro guerra. Un gesto politico. Sarebbe piaciuto a Dossetti. Divenne un punto di riferimento ideale stabile in una certa parte di città che cercava disperatamente un punto di fuga, negli anni difficili degli scontri e delle grandi ristrutturazioni industriali, da una vita politica che aveva già iniziato a gripparsi. E questo per quel che riguarda la Città degli uomini.

Per quel che riguarda la Città di Dio, i nodi che spesso si è provato a tagliare con l’accetta sono in realtà sottili. Il teologo Bruno Forte ritiene che il pensiero teologico di Martini abbia per riferimento principale quello di un altro grande gesuita, Karl Rahner. Già questo, basterebbe a segnare quanta distanza, quanto stacco con la tradizione teologica e pastorale precedente, l’arrivo in Cattedra del dotto biblista gesuita abbia prodotto. Dell’influsso del nuovo vento teologico e pastorale hanno risentito i sacerdoti, hanno risentito le parrocchie, hanno risentito i seminari. Se c’è una cosa che gli è stata rimproverata, e non solo da conservatori delusi, è ad esempio di aver trasformato il rapporto personale e di direzione spirituale con i suoi sacerdoti in un rapporto più formale, al limite del burocratico, da professore a discepolo al più. Di non aver insomma allevato un tipo umano, il tipo umano del prete ambrosiano, ma di aver contribuito alla fabbricazione del cliché del prete anodino e ammodino, colto, che parla per parabole e citazioni bibliche, solitamente senza farsi capire dai suoi parrocchiani. Di aver trasformato le catechesi del vescovo, la guida dei fedeli condotta in prima persona, in una sorta di sistema formativo fatto di lectio bibliche. Una delle sue prime iniziative, nel novembre 1980, fu non a caso l’introduzione nella diocesi della Scuola della Parola.
L’ammodernamento delle antiche “missioni” e del catechismo, l’estensione alla massa dei fedeli di quel mondo di raffinatezze esegetiche finora sconosciute e che veniva da lontano, dagli anni del Biblico e della lotta per la riforma modernizzatrice, i nemici dicevano protestante, della chiesa.

A Milano incrociò giocoforza anche le due anime più inconciliabili e vivaci della chiesa italiana di quei decenni. Milano era la madre
dell’Azione cattolica che aveva fatto la sua scelta religiosa, del cattolicesimo maritainiano e progressista che aveva casa nell’Università Cattolica di Lazzati e radici in un divorzio ormai consumato dalla politica. Milano era stata anche la culla, e ormai qualcosa di più, del movimento di don Luigi Giussani che a cavallo degli anni del Concilio, e in perfetta controtendenza con gli indirizzi di molta chiesa italiana, aveva provato a riproporre, e proprio sulla scorta della più autentica tradizione ambrosiana, il cristianesimo come esperienza praticabile, poco incline alla mediazione, molto incline alla politica, per nulla affascinata dalle sfumature del linguaggio, dai chiaroscuri della lingua martiniana.
Il rapporto con Cl non fu sempre idilliaco. Il tumultuoso movimento ha sempre lamentato di trovare poco spazio, soprattutto nella sua zona
d’azione privilegiata, il campo educativo e della pastorale giovanile, in cui lo scontro di impostazioni tra le varie componenti ecclesiali era esplosivo. Martini, forse più che equilibrato, ha cercato sempre di essere equidistante, qualche volta al limite dell’assenza.

Nell’affresco tendenzioso che ne fa Garzonio in 400 pagine di biografia, Martini sembra avere avuto due soli nemici a Milano, don Giussani e Giovanni Testori. Il che ovviamente non è. Anche se proprio al grande critico e artista si deve la demolizione più esplicita a un cristianesimo giudicato troppo acquiescente e troppo muto, quando in una intervista molto polemica definì Martini “cardinale camomilla”, rimproverandogli di “tradire la fede”, e di arrendersi “ai figli della rivolta dell’illuminismo contro la religione”. In realtà, il rapporto tra Martini e Giussani, oltre che rispettoso e di reciproca stima, fu meno conflittuale di come spesso è rappresentato. Fu del resto Martini a presiedere la piccola cerimonia di conferimento del titolo di monsignore a Giussani, nella cappella delle Cappellette, la storica sede di fianco a Santa Maria Maggiore, a Roma. E la nuova edizione del “Senso religioso” reca la dedica “al mio Vescovo”. A Milano è stato forse più che altro, forse pure malgré lui, il garante di quella chiesa combriccolare, autoriferita, intellettualizzante, schifata del potere e della presenza pubblica.

Cosa ha rappresentato Martini per la chiesa universale? La stima mondiale, il lavoro per la commissione teologica sull’ecumenismo, l’insigne biblismo, il culto gerosolimitano, sono le caratteristiche che lo hanno fatto amare ai protestanti. Del resto, la sua posizione nell’arco costituzionale della gerarchia cattolica è sempre stata sfumata: “Non è mai stato un progressista alla Edward Schillebeeckx o alla Hans Küng – aveva detto di lui tempo fa Massimo Introvigne, che lo conosce fin dai tempi di Torino –. Martini, a differenza di altri, non pensa che l’etica cattolica sia sbagliata. Non pensa che la morale cattolica debba essere demolita. Semplicemente egli vede innanzi a sé la deriva secolarista che rifiuta e rigetta la morale cattolica. E allora ritiene che adattare la morale in cui anch’egli crede fermamente alla morale secolare possa aiutare la chiesa”.

Era piaciuta e non piaciuta la sua omelia di Sant’Ambrogio del 2001, dopo l’11 settembre, con quel titolo che evitava nell’elencazione la presa di posizione: “Terrorismo, ritorsione, legittima difesa, guerra e pace”. Lui, che pure aveva dedicato l’omelia di sant’Ambrogio del 1990
all’islam, anche meno acquiescente di quel che si penserebbe, e in anticipo su molti vescovi d’Italia e d’Europa. L’11 settembre finì in una “apocalisse in senso etimologico”, un “alzare il velo” sul male in vista di una “conversione”. Anche sulla bruciante questione del decennio,
l’atteggiamento di Martini è sempre stato la ricerca della zona grigia, del bilanciamento, del filo del confine: “Dobbiamo impedire l’ipotesi drammatica di uno scontro fra civiltà”, bilanciato da un “non si deve togliere legittimità al diritto di difesa dal terrorismo e alla necessità di spegnerne i focolai”. La massima pulizia formale nel giudizio di condanna e la ricerca insistita, a tratti faticosa (era lo stile dell’uomo), di una metafisica terzietà. Utile comunque ad apparire, forse anche al di là delle intenzioni, come il naturale alter ego ogni volta che da Roma arrivavano segnali più espliciti. E più esplicite si erano fatte, con gli anni, le sue prese di posizione, fino a dare l’impressione di essere coscientemente diventato una sorta di “voce collettiva” di un dissenso episcopale che non si arrischiava a esporsi.

Eppure, lui che personalmente coniò per sé la definizione di “ante-Papa”, “un precursore e preparatore per il Santo Padre”, un saggio che da pari a pari detta la linea al Papa, aveva detto di recente, nei momenti più duri della contestazione anti ratzingeriana, che invece la chiesa di Benedetto XVI, “non è mai stata così fiorente come essa è ora”, e che “può esibire una serie di Papi di altissimo livello”, e che “la chiesa si presenta oggi unita e compatta, come forse non lo fu mai nella sua storia”.
Da biblista, ha dedicato recensioni puntutamente critiche ai volumi del “Gesù di Nazaret” di Joseph Ratzinger. Benedetto XVI, che lo ha spesso spesso elogiato pubblicamente, non dimentica che, da punto di riferimento dell’ala progressista nel Conclave del 2005, fu il gesuita a far convergere sul suo nome i cardinali progressisti.

© - FOGLIO QUOTIDIANO

di Maurizio Crippa

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