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Autore Discussione: Alberto Mingardi. Il governo Renzi è il più odiato dalla Cgil a memoria umana...  (Letto 2318 volte)
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« inserito:: Maggio 16, 2015, 04:15:50 pm »

Alberto Mingardi

Nessuno vuole costringerlo dentro schemi dell’epoca passata, ma servirebbe a tutti capire che risposta dà Matteo Renzi alla domanda: «che cos’è che deve (o non deve) fare lo Stato?»

Farsi un’idea, per ora, non è tanto semplice.

Il governo Renzi è il più odiato dalla Cgil a memoria umana, ha promosso il Jobs Act e messo mano all’articolo 18.
Ma la sua riforma della pubblica amministrazione non prevede risparmi e dunque non sembra levare il sonno ai capi del sindacato.


Il primo ministro, parlando alla Borsa di Milano, ha annunciato la morte del capitalismo di relazione, lontano dalle logiche di mercato. Prima, però, l’esecutivo aveva immaginato una proroga per l’introduzione delle azioni a voto plurimo o maggiorato nelle società quotate, meccanismo che avvantaggia gli azionisti attuali, salvo ricredersi dopo un appello sottoscritto da autorevoli studiosi.

Il ministro Padoan ha più volte annunciato che il Tesoro ridurrà la sua quota in Enel. E tuttavia in questi giorni si è parlato di una forte moral suasion, per usare un eufemismo, perché la compagnia elettrica si impegni anche nella costruzione della nuova rete a banda larga. Il titolo, in Borsa, non ha fatto i salti di gioia.

Il governo Renzi è quello che per la prima volta approva la legge annuale della concorrenza, con l’obiettivo di devitalizzare alcune sacche di corporativismo, e fa (mostrando i muscoli: per decreto) la riforma delle banche popolari. Eppure ha rinunciato a mettere mano al groviglio delle partecipate degli enti locali, sulle quali non proferisce parola dallo scorso settembre. 

Il premier vuole che l’Italia si apra gli investimenti esteri, ma ha nazionalizzato l’Ilva senza indennizzarne i proprietari: precedente che difficilmente sarà apparso rassicurante alle multinazionali che investono nel nostro Paese.

 

Si dirà che tutte queste scelte, quelle più liberiste e quelle più dirigiste, sono a loro modo giustificabili, e tutte rientrano perfettamente nella narrazione che Renzi ha abilmente tessuto attorno al suo personaggio: un premier schiacciasassi, senza timori reverenziali. Sono provvedimenti di facile traduzione in slogan, botte ai notai e ai padroni dell’acciaio, basta alle bardature medievali del sindacato e banda larga per tutti. C’è, appunto, una narrazione: ma non necessariamente un’idea di come sarà fatto il Paese in cui ci troveremo a vivere negli anni a venire.

Nessuno si aspetta che un leader politico faccia l’addetto stampa di Adam Smith o di John Maynard Keynes. Nondimeno che preferisca l’uno o l’altro non è cosa che interessi solo ai «tifosi» di politica, gli unici rimasti a pensare che sia una faccenda di principi e convinzioni profonde. Sapere in quale sistema d’idee un leader si identifica ci aiuta a comprendere che cosa è probabile che faccia e che cosa invece no. Dove, come in Italia, mancano regole che limitino rigorosamente la discrezionalità di chi comanda, le ideologie servono a ridurre l’incertezza. Chiunque svolga una attività ha bisogno di fare i conti con ciò che può ragionevolmente aspettarsi dal governo oppure no: altrimenti, ogni decisione da prendere (un investimento, un’assunzione, una qualsiasi spesa) diventa un rompicapo. 

Detto di un romanziere, di un cuoco, di un architetto, «imprevedibile» è un complimento. Da chi ci governa ci aspettiamo semmai «stabilità». Più sorprese ci risparmia, e meglio riusciamo a programmare la nostra vita.

Twitter @amingardi 

Da - http://www.lastampa.it/2015/05/13/cultura/opinioni/editoriali/statalista-o-liberista-lenigma-renzi-2P4PUwWFqvEUILQEkAGfwJ/pagina.html
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