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Autore Discussione: LUCIA ANNUNZIATA -  (Letto 145664 volte)
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« Risposta #120 inserito:: Aprile 20, 2010, 09:37:50 am »

20/4/2010

Il fascino del terzo uomo

LUCIA ANNUNZIATA

Specchio, specchio delle mie brame chi è il più implausibile del reame?

Il popolare ritornello della vecchia favola risuona, secondo Timothy Garton Ash, nelle elezioni inglesi del 6 maggio. Il primo candidato, Gordon Brown, Primo ministro, risulta implausibile perché «il Labour ha smantellato significativi elementi del vecchio ordine costituzionale senza crearne uno nuovo»; il secondo, David Cameron, per essere rappresentante di «Conservatori che pretendono di essere Giacobini, un Burke vestito da Paine»; per quanto riguarda il terzo, Nick Clegg: «I liberal democratici rimangono implausibili alla loro dolce maniera. La loro piattaforma prevede cambi rilevantissimi. Ma chi crede che avranno mai il potere per realizzarli?». Va notato che l’elegante e preciso scetticismo dell’articolo offre anche una quarta, sia pur indiretta, valutazione: Timothy Garton Ash esamina tre candidati. Tre, non due.

Anche la Gran Bretagna, possiamo dunque dire, si arrende alla tentazione, e, probabilmente (se le cose vanno come anticipano le indagini preelettorali) alla seduzione del Terzo Uomo. Dal 15 aprile l’esistenza di questo ulteriore protagonista è stata formalizzata dalla (e da chi altro?) televisione. Il «dibattito fra candidati», vecchio strumento di lavoro di tutti i Paesi occidentali, per la prima volta è stato ammesso anche nella tradizionale Inghilterra. E non è affatto un caso che le due cose abbiano proceduto d’accordo: il confronto in tv e l’affermazione del terzo candidato.

Dopo il confronto televisivo, Clegg è addirittura saltato in testa nei sondaggi. I Liberal Democrat ieri sfoggiavano un bel 33 per cento di favori popolari, in posizione di testa nei poll YouGov Plc che ogni giorno pubblica il quotidiano Sun, contro il 32 per cento di David Cameron e il 26 per cento di Gordon Brown.

Non che questo significhi qualcosa: in tutto il mondo gradimento e voto non sono la stessa cosa. Eppure, il fenomeno c’è e va guardato con attenzione. A cominciare dal fatto che molti inglesi scontenti abbiano (in verità con una certa fretta) evocato Obama per spiegare Clegg.

Quanto e perché l’Inghilterra sia affascinata dal leader liberal democratico, lo vedremo poi alle urne. Quel che è importante per noi è invece notare come la vicenda inglese conferma una regola non scritta che è divenuta però ormai tratto consuetudinario delle nostre democrazie: la vitale presenza di un Terzo Uomo nei passaggi elettorali più delicati.

Va intanto precisato cosa si intenda con questa definizione. Anche nel sistema bipolare più ferreo, candidati di partiti minori sono sempre stati presenti. Diverso è quando, com’è il caso di Clegg, uno di loro diventa così decisivo da alterare la competizione elettorale.

Forse è Ross Perot, industriale texano che nel 1992 si inserì fra Clinton e Bush padre facendo in effetti vincere il democratico, il caso più clamoroso dei decenni scorsi. Ma Barack Obama può in qualche modo rientrare in questa categoria: diventa infatti il terzo uomo delle primarie, riscrivendo lo scontro già definito fra Hillary e McCain. Un altro caso di Terzo Uomo decisivo, lo abbiamo proprio da noi, in Italia, nella persona di Umberto Bossi, che oggi con la sua Lega addirittura condiziona l’intero bipolarismo. A suo modo lo stesso Silvio Berlusconi lo è stato, al declino della prima Repubblica; e, sempre rimanendo nell’esempio non perfetto del sistema proporzionale, va ascritto anche a Bettino Craxi un ruolo di Terzo e decisivo incomodo. E perché non inserirvi anche quel Sarkozy che è emerso come terza opzione nazionale in quanto anima diversa del suo stesso partito? Non meraviglia dunque che spuntare come numero tre sia diventato una sorta di luogo mitologico della politica moderna: ne fa testo la ostinata ricerca perseguita nel nostro orizzonte nazionale da leader come Casini, Rutelli, e, oggi, Gianfranco Fini.

Tutti gli esempi fin qui fatti rappresentano casi diversissimi tra loro. Accumularli sotto una identica voce ci pone a rischio di una severa bocciatura di ogni buon professore costituzionalista. Ma la politica moderna, quella dei cittadini acculturati, quella che ha la comunicazione come spina dorsale, si fonda anche sulle associazioni emotive, e le suggestioni.

Ancor prima che politica, c’è una dinamica culturale nella richiesta di un Terzo protagonista. Il doppio è perfezione tale da pendere verso l’occlusione. Il Terzo Uomo è infatti anche figura letteraria dell’inquietudine - come vuole il romanzo\screenplay di Graham Greene. Il terzo candidato è dunque colui che si afferma quando il sistema conosciuto entra in fase di affanno. E in questi passaggi, in cui da una parte e dall’altra le alternative non appaiono più soddisfacenti, si materializza spesso il miracolo di un underdog, di un fuori gara. Di uno sconosciuto la cui presenza serve soprattutto a dimostrare i limiti di quel che già si conosce.

Non a caso, dicevamo, c’è uno stretto legame, spesso, fra l’affermazione di questi irregolari, e il dominio preso nelle nostre democrazie dalla comunicazione-televisione sulle campagne elettorali. E' solo lì infatti, nella rappresentazione della politica, che le differenze possono essere messe in scena e raccontate e capite. Clegg in tv si è presentato come alternativo ad entrambi i suoi opponenti: facile da fare per una forza politica che non ha mai governato. Ma il successo della sua differenza ci parla soprattutto dello stato d’animo di chi va a votare in Inghilterra oggi: il senso dell’esaurirsi di una fase politica.

Come ben dice lo stesso Clegg: «C’è oggi una fluidità in queste elezioni che non ho visto in una generazione. Le vecchie certezze, i vecchi riti che governano il ricorso alle urne si stanno rompendo». Parole che, come si diceva, trovano oggi una indubbia eco anche negli umori con cui è appena andato alle urne il nostro Paese.

da lastampa.it
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« Risposta #121 inserito:: Maggio 06, 2010, 11:53:54 pm »

6/5/2010

A Londra finisce la Terza Via

LUCIA ANNUNZIATA

Qualunque sarà il risultato, una cosa è sicura fin da ora: le elezioni che si tengono oggi in Inghilterra segnano la fine di un’epoca, e non solo per gli inglesi. Il Labour Party, da dodici anni al potere, è l’ultimo sopravvissuto di un’idea politica e di un periodo in cui quest’idea sembrava essersi realizzata nei governi dei principali Paesi dell’Occidente - la Terza Via, immaginata, e battezzata, proprio in Uk dall’attivismo intellettuale del filosofo sociologo Anthony Giddens, con il nobilissimo ascendente di un libro del 1938, The Middle Way, scritto da Harold McMillan, primo ministro a Londra dal 1957 al 1963.

Cosa volesse essere la Terza Via, lo diceva, efficacemente, il nome: il rifiuto di scegliere fra destra e sinistra, reinventando un terzo luogo della politica, dove potessero unirsi il liberismo capitalistico e lo Stato sociale caro alla sinistra. Dopo tanti anni di guerre fredde e non, dopo la scossa della caduta del Muro, dopo un secolo quasi di dispute ideologiche e lacerazioni, una ridefinizione della storia così semplice e immaginifica sembrò la soluzione perfetta.

A un certo punto, alla fine degli Anni Novanta, l’intero mondo occidentale sembrava ammansito e sedotto da questa terza strada. Ci fu un momento in cui i maggiori Paesi industrializzati erano governati da partiti e politici nati dentro quest’idea, una nuova generazione di leader con davanti quello che sembrava un magnanimo futuro denso di sviluppo economico, innovazione tecnologica, e privo di gravi contraddizioni.

L’apogeo e la rappresentazione di queste nuove forze hanno una data e un luogo italiano: Firenze, 21 novembre 1999.

Faceva freddo, quella mattina, con le colline fiorentine imbiancate dalla prima neve dell’anno. Le storiche pietre delle pareti del Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio trasudavano gelo sui 500 ospiti che attendevano un convegno di due giorni intitolato, modestamente, «Il riformismo nel XXI secolo». Di fronte ai cinquecento, dietro un lungo tavolo rosso posto su un’alta piattaforma, in attesa di parlare di «La nuova economia: uguaglianza e opportunità», c’era la più folta delegazione di leader al di fuori della Assemblea Plenaria dell’Onu: Bill Clinton, Massimo D’Alema, Tony Blair, Lionel Jospin, Gerhard Schröder, Fernando Cardoso. Onori di casa affidati a Romano Prodi, presidente della Commissione Europea. Non ci si può molto credere oggi, ma in quel 1999 - sull’orlo del disastro si dirà ora con il senno del poi - governi di sinistra riformista guidavano gli Stati Uniti, l’Inghilterra, la Francia, la Germania e il Brasile. Ognuno dei 500 presenti aveva lottato, litigato, brigato, e mentito per venire a occupare una seggiolina davanti a tali potenze. In prima fila le first lady, prima di tutte le anglo Hillary e Cherie guidavano la folta delegazione di signore/\deputate/\imprenditrici/\giornaliste/\letterate che la Terza Via aveva proiettato nell’universo della perfetta metà del cielo - la nuova donna colta-chic che faceva da musa e compagna nel percorso dei nuovi leader. E se i 500 posti nel salone era stato un inferno assegnarli, immaginate la definizione dei posti a tavola nelle varie colazioni, cene, breakfast che scandirono quelle giornate. Un universo che si celebrava come estremamente raffinato, oltre che intelligente: discuteva di occupazione, welfare, sfida della globalizzazione, teoria politica al volgere del decennio del Muro, tra una visita alla ex Villa di Sir Harold Acton e una cena firmata Vissani. Un migliaio di giornalisti accreditati, delegazioni estere che sfioravano le 700 unità, tremila addetti alla sicurezza italiani, e 500 uomini di 90 corpi speciali solo per la sicurezza del presidente Usa.

Il cielo sembrava l’unico limite, nella Firenze della Terza Via. Ma uno stillicidio di sconfitte avrebbe presto decimato il gruppo. Il 25 aprile del 2000 si dimetteva Massimo D’Alema. Nel 2001 Bill Clinton lasciava la Casa Bianca; dopo di lui veniva eletto per otto anni il repubblicano George Bush. Lionel Jospin terminava il suo mandato di primo ministro nel 2002. Presentatosi candidato alla presidenza francese, veniva eliminato al primo turno, dopo essersi piazzato ultimo, dietro Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen. Schröder in Germania avrebbe continuato fino al 2005 al governo: si sarebbe sistemato rapidamente con un incarico nell’azienda petrolifera russa Gazprom, ma il suo partito subì la drastica sconfitta della elezione di Angela Merkel.

La esperienza della socialdemocrazia si rivela così solo una stagione, che non lascia dietro di sé una solida eredità per la sinistra democratica.

Dell’originario gruppo di leader riformisti che va al potere dopo la metà degli Anni Novanta, l’unica continuità è segnata in Brasile, dove a Cardoso segue Inacio Lula, e in Inghilterra, dove a Blair segue Brown. Ma da oggi anche in Inghilterra la socialdemocrazia chiuderà i battenti, e con essa un’epoca e una idea.

Tempo dunque di bilanci. Che tocca fare agli storici, non ai giornali. Ma un paio di suggestioni qui si possono far balenare. La prima è che la stagione di cui abbiamo parlato, seppur breve, ha avuto una funzione fondamentale come cuscinetto fra l’intensa territorialità (fisica e mentale) della Guerra Fredda e le vertiginose aperture della Globalizzazione. La seconda è che la conciliazione fra istanze sociali e liberismo è possibile solo in società molto ricche, quali sono state le nostre in quel periodo: la Nuova Economia degli Anni Novanta e la sua drastica interruzione nel 2000 sono all’origine e alla fine del ciclo socialdemocratico occidentale. La destra che arriva quasi ovunque dopo il 2000 arriva proprio sull’onda di un ciclo economico di crisi.

Infine, un’annotazione laterale ma non inessenziale: la Terza Via fu portata al governo dalla generazione che si era formata negli Anni Sessanta. Di quella generazione ha costituito il momento forse più alto, nonché, a guardare oggi indietro, la fine.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7309&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #122 inserito:: Giugno 01, 2010, 11:37:22 am »

1/6/2010

Equilibri stravolti

LUCIA ANNUNZIATA

C’era una volta la capacità di Israele di eseguire operazioni militari con il minimo di spargimento di sangue e il massimo di successo. Un esempio, l’«operazione Entebbe» del 4 luglio del 1976, in cui 100 uomini delle forze speciali di Israele sottrassero ai palestinesi 103 su 105 ostaggi ebrei, dopo aver percorso 4000 km in volo senza farsi intercettare dai radar di mezza Africa, e dopo solo 90 minuti di azione di terra. Oggi quello stesso esercito non riesce più nemmeno a fermare una piccola flotta di pacifisti senza fare una strage.

Fra i due episodi un legame evocativo: a Entebbe l’unico morto ebreo fu il comandante del commando, il leggendario Jonathan Netanyahu; l’operazione sanguinosa di Gaza oggi è invece il suicidio politico del fratello minore di Jonathan, il premier Benjamin (Bibi) Netanyahu. Israele è terra di famiglie, terra di storia accelerata e drammatica. Il nesso fra i due Netanyahu, i loro ruoli e il loro successo o no, è una vicenda che misura nello spazio di una generazione familiare le evoluzioni del Paese. Le più rilevanti delle quali riguardano proprio, in maniera intrecciata, l’esercito e la leadership di Israele.

L’operazione Gaza nasce infatti nel segno dell’indebolimento delle forze armate israeliane. Operazione non pensata, non preparata, eseguita con il personale sbagliato - militari invece che poliziotti, tecnica di assalto invece che semplice blocco navale - e, soprattutto, con uomini privi di senso della realtà: soldati che rispondono con il fuoco alla resistenza con sbarre di ferro sono uomini impauriti, confusi sulla propria missione. Cioè l’esatto contrario di un addestrato corpo scelto.

L’indebolimento della forza militare di Israele si è del resto fatto progressivamente sempre più visibile nelle ultime guerre. L’invasione del Libano fu mal calcolata, sanguinosa anche per l’esercito ebraico e, alla fine, non vittoriosa - solo la mediazione internazionale rimise insieme i cocci e la reputazione del governo di Gerusalemme. La successiva invasione di Gaza è stata sproporzionata, inutile e, anche questa, priva di sostanziali risultati. L’indebolimento della supremazia militare israeliana è una delle maggiori evoluzioni strategiche del Medio Oriente e, come si è visto ieri, si rivela un fattore di pericolo per tutta l’area, ma anche per la stessa Israele.

Che ci sia un profondo intreccio fra debolezza militare e indebolimento della leadership è fatto innegabile. Dopo l’ultimo vero leader militare e politico, quel Rabin che piegò la prima Intifada, ma si piegò lui stesso agli accordi di pace, la guida di Israele oscilla fra pragmatici, un po’ corrotti, e superideologizzati, come Netanyahu. La mancanza di un chiaro sbocco per il futuro provoca l’ansia, la confusione, e l’autoritarismo da cui nascono tutte queste guerre sbagliate.

In questo senso il Primo Ministro di Israele è profondamente responsabile di quel che è successo nel mare davanti a Gaza, anche se era in Canada. Sua è la responsabilità di un leader che naviga a vista, e che non sembra capire la possibilità degli eventi di precipitare. Le uccisioni di Gaza sono figlie della paranoia politica che, tra le altre cose, è stata rinforzata nell’ultimo anno dalla convinzione da parte di Israele di non avere più in Obama l’alleato che ha sempre avuto nei precedenti presidenti Usa. E proprio nel nuovo strappo che la strage ha causato nel rapporto con Washington c’è la migliore prova del boomerang che la strage sulla nave costituisce per il governo di Gerusalemme. Saltato è infatti l’incontro che proprio oggi doveva avvenire a Washington fra i due capi di Stato. Questo ultimo, il quarto in pochi mesi, era stato organizzato da Rahm Emanuel, capo dello staff della Casa Bianca, a riprova dei tanti fili ancora da riparare fra Washington e Gerusalemme. Netanyahu e Obama sono oggi invece ognuno a casa propria, e la crisi assume a questo punto una valenza regionale.

Il presidente americano, impegnato con la difficile situazione in Afghanistan, con le tensioni con l’Iran e quelle fra le due Coree e, in patria, con il disastro petrolifero e le elezioni a novembre, non ha né agio né tempo per aprire nuovi fronti. Per l’amministrazione affrontare (sia pur non risolvere) la questione palestinese è snodo cruciale per poter mettere sul tavolo della sua politica in Medio Oriente la prova di qualche progresso nel conflitto più storico. Per questa ragione Washington era riuscita il mese scorso a far digerire a Israele l’idea di una ripresa di colloqui di pace - in verità così sciolti da essere chiamati «proximity talks», fatti cioè attraverso l’inviato Usa George Mitchell. Questi colloqui, appena iniziati, dopo la strage, possono considerarsi chiusi.

Così come interrotti sono ora i rapporti fra Israele e Turchia, che è stato uno dei pochi interlocutori fra i Paesi musulmani di Gerusalemme. Con la conseguenza di spingere ulteriormente in direzione radicale l’orientamento della pubblica opinione di Istanbul. Non meglio esce il rapporto costruito fra Il Cairo e Israele. Finora infatti l’Egitto ha tenuto chiusa la sua frontiera di Rafah con Gaza, in silenzio/assenso alla politica israeliana di isolamento di Hamas. La pressione sull’Egitto a rompere questa politica è ora inevitabile. La strage di Gaza consegna, infine, ad Hamas la più seria vittoria di immagine finora conseguita dall’organizzazione.

La politica palestinese in Cisgiordania e Gaza è profondamente diversa, dopo la rottura che ha opposto Hamas a Fatah. Negli ex Territori Occupati, il Presidente e il primo ministro Fayyad, riconoscono Israele, hanno mantenuto aperti i canali di negoziazione, hanno acquisito una parte di diritto di governo indipendente, in un’alleanza con i governi occidentali. A Gaza invece Hamas è fisicamente accerchiata, è disconnessa per scelta da ogni contatto con Israele, la cui esistenza non è stata mai legalmente riconosciuta, e guarda come alleato principale all’Iran. Da queste differenze sono nate guerre intestine pesanti: Fatah ha fatto prigionieri, torturato e ucciso gli uomini di Hamas - e viceversa, a Gaza. Secondo informazioni recenti, è in corso fra le due fazioni anche un’intensa guerra di spie per boicottare l’uno l’altro. In questa guerra semisegreta Egitto e Usa sono stati finora al fianco dei Palestinesi in Cisgiordania, nella speranza che la conquista di egemonia di Fatah su Hamas fosse l’unica soluzione per riprendere in mano la esplosiva Gaza.

La divisione fra Palestinesi in questi ultimi anni è stata insomma un bonus per il governo di Gerusalemme. La strage di Gaza cambia gli equilibri di nuovo, e consegna la bandiera morale al radicalismo di Hamas e, dunque, dell’Iran.

Se non fosse che Bibi è in queste ore già un politico mezzo morto, varrebbe la pena di dirgli: congratulazioni. Dopotutto ci vuole una grandiosa incapacità per rompere un intero equilibrio regionale, tutto, e tutto insieme.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7427&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #123 inserito:: Giugno 07, 2010, 09:23:31 am »

7/6/2010

Se Benedetto parla come Obama

LUCIA ANNUNZIATA

Se è possibile mischiare cose che si muovono fra cielo e terra senza irriverenza, si potrebbe dire che il Santo Padre ieri si è espresso sul Medio Oriente come un democratico americano. Usiamo questa formula non per sminuire il discorso di Benedetto XVI, ma per sottolineare con chiarezza quanto di nuovo ci sembra sia emerso dal discorso con cui ha detto addio a Cipro, e dal documento che prepara il Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma in ottobre.

La frase che certamente ha avuto più impatto, anche emotivo, riguarda la chiara definizione di responsabilità di Israele: «L’occupazione di Israele dei territori palestinesi sta creando difficoltà nella vita di tutti i giorni, impedendo la libertà di movimento, della vita economica e religiosa», ha detto il Papa, definendola «un’ingiustizia politica imposta ai palestinesi».

Ma è davvero questa una drastica presa di posizione? In realtà su Israele il Vaticano non ha mai avuto toni teneri. Basta riandare con la mente agli interventi pubblici della Chiesa di Roma in merito alla invasione di Gaza da parte di Israele nel 2008.

Più rilevante pare oggi una precisazione che sottolinea la gravità dell’occupazione: un atto, dice Benedetto XVI, «che nessun cristiano può giustificare con pretese teologiche». Il riferimento è fra i più duri, e coinvolge quell’enorme movimento di neo-evangelici (in Usa alcuni ne contano 50 milioni) che giustificano con il percorso della fine della storia, l’esistenza di Israele, e militano al suo fianco. È un fenomeno molto conosciuto negli Stati Uniti, che ha avuto il volto soprattutto del predicatore Jerry Falwell, uomo noto per il suo radicalismo repubblicano.

Forse qui troviamo una chiave di volta del discorso del Papa. Forse è proprio la condanna di ogni estremismo, in qualunque religione, o meglio l’uso della religione come giustificazione di estremismo politico, ad essere il filo che percorre l’intervento di Benedetto XVI.

Meno risalto hanno avuto ieri le sue parole sul mondo arabo, ma non sono state meno forti. Se la relazione con gli ebrei è stata definita «essenziale, benché non facile», quelle «tra cristiani e musulmani sono, più o meno spesso, difficili», ha detto il Papa. E ha introdotto una ragione di distanza fra mondo musulmano e visione cristiana di natura politica oltre che religiosa: «Soprattutto per il fatto che i musulmani non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini». Un taglio netto, e di profonda inconciliabilità, attuato intorno all’idea di cittadinanza, e che in maniera elegante parla dell’essenza di una dittatura.

Benedetto XVI, dunque, ieri non ha risparmiato critiche a nessuno dei protagonismi radicali in Medio Oriente: che sia l’esercizio delle armi di Israele, o il giustificazionismo in nome del Vangelo, o le dittature arabe.

In questo senso la denuncia che ha fatto della precarietà e delle responsabilità mediorientali, non si riferisce solo al governo di Gerusalemme: «Da decenni, la mancata risoluzione del conflitto israelo-palestinese, il non rispetto del diritto internazionale e dei diritti umani, e l’egoismo delle grandi potenze hanno destabilizzato l’equilibrio della regione e imposto alle popolazioni una violenza che rischia di gettarle nella disperazione». In questo senso, nella sua posizione si avverte quella di Obama: la novità che agisce oggi in Medio Oriente, e che è all’origine di molte delle tensioni, è proprio il cambiamento di lettura che vi ha portato il Presidente Usa. Con il suo discorso del Cairo agli arabi, Obama ha spostato lui stesso l’accento dalla ragione di questo o quello Stato, alle ragioni della cittadinanza: diritti umani, diritti civili, libertà, benessere, ovunque essi vengano violati. Un discorso che certamente ha in parte allontanato gli Usa dal loro ruolo di difensori senza se e senza ma di Israele, che però ha il merito di poter suonare la stessa campana dappertutto, e in tutte le orecchie. Dalla diplomazia, alla società civile, si direbbe in gergo europeo.

Interessante è dunque che anche il Papa abbia parlato di cittadinanza da recuperare, nel senso dei valori di individuo e di libertà innanzitutto. Benedetto XVI si riferisce ai cristiani. Sappiamo qual è la sua preoccupazione su questo tema alla luce delle persecuzioni che i cristiani subiscono in tutti i Paesi arabi, certo non solo a Gaza o nei Territori ex Occupati della Cisgiordania. L’uccisione in Turchia di padre Padovese è ancora nella testa di tutti. La richiesta ai cristiani di diventare il metro di misura dei diritti di tutti è, in effetti, la scelta anche da parte del Santo Padre di puntare sul protagonismo della società civile prima ancora che sui grandi accordi internazionali.

Fin qui l’analisi razionale delle parole. Ma c’è un aspetto emotivo negli interventi - e anche questo va valutato. È indubbio che l’intervento papale è risuonato soprattutto per le affermazioni su Israele. Ed è indubbio che questa eco c’è stata a causa del massacro di pacifisti sulle navi dirette a Gaza. La nostra percezione, in questo senso, più che delle posizioni del Vaticano, ci racconta quanto forte sia in questo momento il sentimento nell’opinione pubblica contro Israele.

http://lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7449&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #124 inserito:: Giugno 25, 2010, 10:20:46 am »

25/6/2010

L'orgoglio del Sud
   
LUCIA ANNUNZIATA

Quando aprì nel 1972 persino la sua cruda estetica sembrò un riconoscimento di eguaglianza. L’ampia colata di cemento dei piazzali che respingevano ai margini il caos edilizio dell’entroterra, le cancellate, i pallidi fari gialli - tutta quella aspra modernità odorava di fabbrica, produzione, lavoro, operai, futuro, insomma Nord. Quando nel 1972 aprì a tempi di record l’Alfa Sud (la prima pietra era stata posata il 17 gennaio del 1968, alla presenza dell’allora presidente del Consiglio Aldo Moro) a Pomigliano d’Arco, Napoli fu travolta da un grande orgoglio.

Infatti Pomigliano divenne fin da subito il magnete della vita politica e sociale di quegli anni: il luogo dove come studenti universitari andavamo la mattina a volantinare, il posto dove i politici si facevano vedere per ottenere e dare consenso, l’appuntamento dei giornalisti per capire il polso del Paese, mentre i turni giravano, e lo Stabilimento (a Napoli è questo il termine comune per Fabbrica) accoglieva o sputava fuori fiumi di uomini e donne, che passavano, con il loro odore di lavoro, fatica, sudore, protesta, a testa alta. Tutta quella roba lì, sotto il Vesuvio, era la prova che il Sud era come il Nord, una grande immagine che mandava in archivio la questione meridionale scritta sempre tra virgolette, le parabole di Eboli, Gesù, e Masaniello.

Se oggi l’ingegner Marchionne avesse bisogno di un solo suggerimento mentre decide cosa fare, dopo il referendum di martedì, della sua fabbrica a Pomigliano d’Arco, mi piacerebbe che includesse nei suoi pensieri anche quell’orgoglio che travolse il Sud di fronte alla fabbrica oggi in discussione; che realizzasse appieno che quello stabilimento ha fatto di più per il senso dell’unificazione del Paese dello stesso sbarco dei Garibaldini più di un secolo prima. La costruzione dell’Alfasud è stata una delle più riuscite operazioni di «empowerment» (termine familiare ai manager) che il Sud abbia conosciuto. Tutto questo per dire che di fronte al grande dilemma se si può o no tornare a investire nel Sud non si può rispondere solo guardando al qui e ora. Va guardata nel suo insieme l’intera storia della industrializzazione del Sud, e, vista in un arco di tempo ampio, questa storia si rivela di segno positivo, non negativo. Al di là (e al di qua) di tutto quello che non ha funzionato nei quarant’anni scorsi, il Sud di oggi non è quello degli Anni Settanta grazie proprio alla presenza di queste grandi fabbriche. E non è certezza da poco.

Che poi questo sviluppo industriale sia stato accidentato, sbagliato, e persino frammentato da conflittualità, incompetenze, indifferenze, e corruzione, non lo nega nessuno. I dati dell’assenteismo, dello sprezzo, dei boicottaggi operai negli anni passati a Pomigliano d’Arco sono scritti nero su bianco, e nemmeno i sindacati li contestano. Ma quello che è avvenuto negli anni passati è una realtà che continuerà a perpetuarsi? C’è da augurarsi di no, c’è una nuova strada che il Sud può e deve percorrere.

Si dice che il meridionale ha nel suo Dna il ribellismo, o il rifiuto del lavoro; che la malavita organizzata ha tale presa culturale sulla società da renderne impossibile ogni inserimento in una logica trasparente di mercato; che il doppio lavoro ha tale peso nella economia in nero del Sud da non poter essere piegato alla logica della produzione continua che una fabbrica richiede. Ma a parte il fatto che ognuna di queste affermazioni ha scarsa base scientifica, la risposta che la Fiat deve dare - cioè se è il caso o no di tornare a investire al Sud - ha molto poco a che fare con l’antropologia e il consenso. Ha invece tutto a che fare con il mercato, l’efficienza e i rapporti di forza. Cioè con le leggi che regolano la produzione.

Provando a riavvolgere il nastro di questa vicenda industriale che si pone oggi come decisiva per il futuro del Paese, l’anello debole della catena di decisioni appare l’averla fatta diventare paradigmatica. La scelta del referendum, in particolare, è stata la miccia che ha caricato in maniera esplosiva quella che per altri versi poteva (e può ancora) essere gestita come una regolare vicenda industriale.
Quali sono i fondamentali economici della vicenda di Pomigliano? Che ci sono nuove condizioni della produzione che richiedono maggiore elasticità: la Fiat ha messo le sue proposte sul piatto e ha fatto una offerta conseguente. Gli operai a loro volta sanno che queste sono le condizioni, visti gli anni di crisi che hanno attraversato, e non si sono arroccati sul tradizionale rifiuto. Non fosse stato per il referendum, oggi questi sarebbero i dati di fatto.

Era proprio necessario questo referendum? per tutti i soggetti coinvolti, come si è visto, era importantissimo - con la conseguenza che è diventato paradigmatico anche per gli operai. La scelta del sì o del no ha finito infatti con il significare che non solo si doveva approvare un piano di sacrifici, ma adottarlo con «consenso».

Un punto di non poco conto. Industriale ed etico. Il consenso operaio a priori, eliminando alle radici ogni frizione e differenza, elimina il rischio della gestione della conflittualità, un valore che, come ogni moderno manager sa bene, è il vero azzardo delle produzioni nei Paesi democratici avanzati, con i loro diritti, il loro livello di alfabetizzazione e richieste. Inoltre, come immaginiamo un manager come Marchionne ben sappia, la costruzione di una impresa in cui il consenso sposa il sacrificio è la realizzazione non solo di un successo di produzione, ma anche di un universo conciliato, partecipe. Il sogno, molto democratico, di un mondo del lavoro che raggiunge l’equilibrio della compartecipazione.

Marchionne sogna questo sogno. Lo abbiamo ben capito da quello che ha costruito con i sindacati in Usa. Avrebbe voluto lo stesso nel Sud.
Ma senza voler costruire, come si diceva, teorie sul nulla, le relazioni che abbiamo in Italia si fondano sulle differenze, incluse quelle geografiche fra Nord e Sud e forse da noi la perfezione è impossibile.

Quale è infatti la lezione profonda del referendum di Pomigliano? Che il Sud vuole lavorare e vuole fare sacrifici, come si è visto dal risultato dei consensi del referendum che, non dimentichiamo, sono maggioritari. Quello che non vuole concedere è invece un perfetto matrimonio di intenti e di interessi. Ma è davvero questa una condizione che condanna alla paralisi o ci sono ancora strade da percorrere per allargare il consenso? E forse non dobbiamo considerarla anche una prova di consapevolezza, orgoglio, identità, sia pur caparbia, del mondo del lavoro del Sud? Questa è la partita che si giocherà nelle prossime settimane.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7517&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #125 inserito:: Luglio 01, 2010, 04:59:58 pm »

1/7/2010

Larry King la Tv gentile va in pensione
   
LUCIA ANNUNZIATA


Ha fatto 25 anni nella stessa sedia, nella stessa serata, nello stesso palinsesto, e ha portato a casa 40 mila interviste guardate e ammirate (o odiate) in tutto il mondo, da Bill Clinton a Lady Gaga, da Michelle Obama, a Dolly Parton. Ma neppure questa immane fatica lo avrebbe atterrato, alla sua tenera età, se non fosse stato per lo share, quel numerino che indica la percentuale di spettatori fra quelli che guardano la televisione in quel momento che guarda solo te. Numero magico, cui sono legati carriere e contratti, e che per Larry King negli ultimi anni è stato il termometro del suo lento declino.

Più che a un vecchio leone, il saluto a Larry e alle sue bretelle, è infatti l’addio a una formula, a un tipo di intervista, a un’era della comunicazione tv. Non morirà con lui infatti lo spazio da lui creato: ma finisce con lui quel tipo di colloquio gentile, ironico, mai puntuto, in ogni caso generico, che erano le sue interviste, indicazione di un’epoca in cui la tv parlava a tutti, doveva arrivare a tutti e farsi capire da tutti.

La conclusione della carriera di Larry King viene alla fine di un lungo periodo di trasformazione della televisione in Usa, e ne segna probabilmente la conclusione di un’era. Per quanto poco se ne parli, in effetti, questo percorso somiglia molto più di quel che si pensi all’evoluzione in corso nella carta stampata. I due grandi media della modernità, in maniera pur così diversa, negli ultimi vent’anni hanno avuto la stessa vicenda: sono passati dall’essere giganti dominanti della formazione della grande opinione pubblica, a giganti lentamente erosi dalla competizione, la dispersione, la molteplicità, e la creatività di tanti altri media.

Così come la carta stampata ha perso il suo monolitico controllo di mercato e copie, a favore di Internet, così la tv generalista e il suo gigantismo si sono frammentati nei tanti rivoli dei molti modi con cui la tv si costruisce e si fruisce, cable, web, satellite, digitale. Questo passaggio non è tuttavia solo un fatto tecnologico, ma è la evoluzione stessa della società, del modo in cui parla di se stessa, e in cui si percepisce e si costruisce.

Il c’era una volta dei media a cui Larry King appartiene, era un mondo in cui alcuni giganti, il cui numero stava ampiamente nelle dita delle due mani, rappresentavano il pinnacolo della informazione. Washington Post, New York Times, Los Angeles Times, Wall Street Journal e i network tv Cbs, Abc, Nbc costituivano la spina dorsale del formarsi della opinione pubblica americana. Una loro parola faceva e disfaceva presidenti. I loro giornalisti vincevano e perdevano le guerre. Era questo il sistema mediatico che poteva decidere di non dire nulla dell’invasione di Cuba, su richiesta del presidente Kennedy, e il pubblico (come accadde) non lo avrebbe mai saputo se non a cose fatte. Era quel sistema mediatico in cui un unico giornalista, Walter Cronkite, poteva divenire «l’uomo di cui l’America si fida di più» e il cui commento sulla guerra in Vietnam, nel ‘68 portò il presidente Lyndon Johnson a dire: «Se ho perso Cronkite, ho perso la maggioranza degli americani».

Erano gli anni in cui chi scriveva o chi andava in tv poteva formare i giovani e ispirare progetti. I loro nomi non erano infatti carriere, ma stelle del firmamento. Come David Brinkley del «Huntley e Brinkley report» degli Anni Settanta e poi di «This week with David Brinkley»; o come Mike Wallace del celebre «60 minutes» e, ancora Dan Rather inviato e anchor per eccellenza.

Era un sistema piramidale, in altre parole, come a lungo sono state le nostre democrazie.

Quel sistema piramidale è stato sconvolto dai nuovi media - che è poi soprattutto il web in tutte le sue forme. Il web ha direzioni esattamente diverse da quel sistema. E’ orizzontale nella diffusione, e va dal basso verso l’alto nella sua «infezione». Chi parlava allora non aveva bisogno di altro che della sua eco. Oggi Internet replica, discute, e, soprattutto, si sottrae alla piramide.

Questo sta succedendo alla carta stampata, e questo sta succedendo anche alla tv.

I giganti di una volta sono in affanno. Perdono copie, e spettatori, ma soprattutto soffrono di non essere più in totale controllo del mondo intorno. Oggi non ci sono più giornalisti giganti, ma tante voci - e spesso quel che conta è l’individualità di queste voci più che la loro gravitas. E’ il caso del maggior successo tv di questi ultimi anni che è la Fox Tv.

Nella nuova parzialità di protagonisti e di esperienze mediatiche si rispecchiano però anche aggregazioni di società diverse. Oggi il riconoscersi in gruppi, comunità di interessi è spesso più forte della cittadinanza generica. Di sicuro più forte del rispetto dell’ordine piramidale di una volta. E questo non è necessariamente un male.

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« Risposta #126 inserito:: Luglio 10, 2010, 11:28:55 am »

10/7/2010

Parodia di guerra fredda
   
LUCIA ANNUNZIATA

La più audace operazione messa in atto da una delle 11 spie che lavoravano da anni in Usa per i russi è stata il tentativo del ventottenne Mikhail Semenko (fluente in inglese, spagnolo e mandarino) di «stabilire contatti a Washington con think tank che ispirano la politica di Obama».

I due istituti dove ha provato a lavorare sono la New America Foundation and il Carnegie Endowment: cioè due gruppi con cui senza problemi hanno contatti tutti coloro che nel mondo, per una ragione o per l’altra, si occupano di politica estera. Se questo era il massimo cui le spie russe potevano aspirare, dopo anni di vita in America, forse avrebbero fatto meglio a entrare in una università (americana o sovietica, è lo stesso) e fare un master presso questi centri studio. Lo avrebbero ottenuto senza problemi.

La dimensione dell’ultimo capitolo della guerra di intelligence fra Washington e Mosca, chiusosi ieri con uno scambio di agenti fra le due ex potenze ex nemiche, è tutta in questo dettaglio. Nonostante l’insistito richiamo dei media a Le Carré e a Graham Greene, due narratori nelle cui mani il conflitto del dopoguerra era già stato ridotto a un cumulo di luoghi comuni, in questo ultimo round la Guerra Fredda - per citare Bbc - «è tornata in forma di farsa».

Nessuno dubita infatti che ci sia ancora una rete di spie nel mondo, che i conflitti si nutrano ancora dell’intelligence umana. Su questo piano, lo scontro fra Usa e Urss ha segnato il secolo scorso con leggendari episodi di cappa e spada. Negli Anni 30, ad esempio, i russi potevano contare su ben quattro americani che spiavano a loro favore dentro lo stesso Dipartimento di Stato, a cominciare da Alger Hiss, assistente del segretario di Stato.

A ridosso della Seconda Guerra, si scoprì che per i russi lavoravano il vicesegretario del Tesoro americano, Harold Glasser, e Harry Dexter White, uno degli uomini più influenti dentro il Tesoro. Anche dopo il conflitto mondiale, la guerra nascosta fra Occidente e Urss ha scritto storie leggendarie, come quella di Rudolf Abel, nome d’arte dell’inglese William Fischer, capo di un’enorme rete di doppi agenti occidentali che lavoravano per la Russia. Fischer venne poi liberato nel 1962 scambiato con la liberazione di un agente della Cia, il pilota Francis Powers, catturato dai sovietici dopo l’abbattimento del suo aereo. Ancora negli Anni 90 la tensione Usa-Urss ha prodotto scandali come quello di Aldrich Ames, operativo della controintelligence della Cia e spia russa, colpevole di aver «bruciato» almeno un centinaio di agenti americani, in cambio di circa 3 milioni di dollari versati da Mosca.

A fronte del livello in cui abbiamo visto svolgersi negli anni passati questa guerra fra superpotenze, la rete catturata in queste ultime settimane appare un abito tessuto e cucito con mani approssimative. Un’operazione di sapore casalingo, in cui gli undici agenti che per anni hanno vissuto in Usa sembrano non aver avuto né grandi accessi né grandi successi.

Coppie medio-borghesi, professionisti di attività di intermediazione, giornalisti apertamente critici degli Usa, precari del terziario commerciale, non hanno avuto - secondo gli stessi investigatori che li hanno scoperti - molto più accesso «di quello dell’associazione scolastica dei genitori». Più che della Guerra Fredda, questo nuovo circuito sembra piuttosto figlio dell’era di Facebook, strumento ampiamente usato da tutti loro (come da tutti noi) per prendere contatti.

Ovviamente, è sempre possibile che il gruppo si riveli retroattivamente di una pericolosa efficacia. Per ora, proprio l’aspetto leggermente farsesco dell’operazione ci rivela comunque qualcosa di vero nelle relazioni fra i due ex grandi nemici del dopoguerra. Washington e Mosca hanno affrontato il problema velocemente e senza nascondere una sorta di imbarazzo reciproco. Le autorità russe, ad esempio, pur ammettendo di fatto che si trattasse di spie, hanno anche fatto notare che non hanno mai agito contro gli interessi americani, facendo appello perché Washington «dimostri l’adeguato livello di comprensione e tenga in conto le attuali buone relazioni fra Russia e America».

Comprensione cui la giustizia americana non si è sottratta condannando gli «agenti» per «non aver notificato alle autorità americane le loro attività», paradosso usato per dare al termine agente il più ampio senso possibile. Le spie dunque non sono state condannate per «spionaggio» e il Dipartimento di Stato ha avuto, probabilmente in cambio della clemenza, il rilascio di quattro prigionieri fra cui almeno uno importante, accusato di aver aiutato a scoprire Ames.

L’unica rivelazione che sembra venire da questa nuova cattura di spie ci pare dunque essere che né Russia né Usa vogliono essere disturbate da questi vecchi giochi. Le relazioni diplomatiche fra i due Paesi sono molto migliori di prima, ma sono anche attraversate da tensioni serissime. Terrorismo, petrolio, deriva islamista in Caucaso e Medioriente, sanzioni per l’Iran, espansione cinese: a fronte dei tanti temi su cui Mosca e Washington possono scontrarsi, il destino di una bella spia rossa con gli occhi verdi è (giustamente) del tutto irrilevante

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« Risposta #127 inserito:: Luglio 27, 2010, 09:41:49 am »

27/7/2010

Il giornalismo che cambia la storia

LUCIA ANNUNZIATA

Una meditazione sulla guerra e una meditazione sul giornalismo.E forse una preghiera sulla tomba di quella che fu la nostra sensibilità di cittadini. Questo dobbiamo alle rivelazioni emerse ieri sulla guerra in Afghanistan, il cui impatto si profila già come capace di ridefinire il corso della storia attuale degli Stati Uniti, e dunque, in parte,anche della nostra.

Novantaduemila rapporti classificati del Pentagono che coprono sei anni di guerra in Afghanistan, dal gennaio 2004 al dicembre 2009, dunque sia durante l’amministrazione Bush che durante quella Obama, sono stati resi noti domenica da tre dei maggiori quotidiani internazionali, l’americano New York Times, l’ingleseTheGuardian e il tedesco Der Spiegel, che hanno lavorato su archivi segreti della guerra resi pubblici da Wikileaks, il portale Internet creato per diffondere documenti riservati. Il racconto che ne esce è quello di un conflitto combattuto con approssimazione, cattiva coscienza e, soprattutto, schermato da un altomuro di bugie di Stato.

Si tratta della maggiore fuga di notizie militari mai avvenuta. E, come si diceva, si presta a una lettura a tanti livelli da muovere interrogativi che vanno dalla capacità e trasparenza delle istituzioni mondiali alle nostre coscienze individuali, infilzando, nel passaggio, la credibilità dell’intera macchina informativa.

Cominciamo dal conflitto afghano. Dalle migliaia di pagine di racconti in prima persona, rapporti ufficiali e testimonianze - molte delle quali, siamo sicuri, saranno negate dalla amministrazione americana, come ha già iniziato a fare - prendono forma tre indiscusse verità. La prima, la più dolorosa, riguarda i numerosi morti civili di cui non è mai stata data notizia. La seconda, la più dannosa per Washington, è la confusione e la pochezza decisionale nella conduzione della guerra. Si apprende ad esempio che gli americani nell’epoca Obama hanno aumentato l’uso di droni, aerei senza pilota, nel tentativo di risparmiare il pericolo per i propri uomini, in realtà mettendo in moto un meccanismo più pericoloso di prima per i civili e per gli stessi militari, costretti spesso a pericolose operazioni di recupero degli aerei caduti, per evitare che i taleban ne catturino la tecnologia. Ma il maggior fallimento militare riguarda la natura stessa dell’alleanza intorno a cui si incardina il conflitto, quella fra forze Nato e Pakistan: i documenti rivelano infatti che sono gli stessi agenti segreti del Pakistan (Paese con l’atomica) a aiutare i taleban, in un doppio gioco, un vero e proprio tradimento consumato con continuità e convinzione da parte di un Paese che nelle stesse parole del Dipartimento di Stato questa guerra dovrebbe difendere da una presa del potere dei taleban. La considerazione finale che si trae dai documenti è che «dopo aver speso 300 miliardi di dollari in Afghanistan, gli studenti coranici sono più forti ora di quanto non lo fossero nel 2001». Ma, per dirla con l’editorialista Leslie Gelb, «non sono tutte cose che conoscevamo già?». In fondo i giornalisti in questi anni non sono stati esattamente con le mani in mano. Un’idea di come stessero le cose ce l’eravamo già fatta.

Le rivelazioni che stiamo leggendo in effetti hanno valore, più ancora che per quello che ci dicono, per tutto il resto che implicano. La differenza fatta da queste carte è proprio nella loro resa pubblica: come già accaduto in passato, la differenza non è fatta dalla notizia ma dalla volontà di farla apprendere. Non è la prima volta, infatti, che questa dinamica tra informazione e conflitti si materializza nella storia recente, e anche oggi, come nelle volte precedenti, è frutto di una lacerazione nella tela del consenso ancor prima che in quella della verità.

L’esempio del Vietnam è sempre quello da cui ripartire. In quel conflitto il giornalismo riuscì a intercettare e incanalare la rottura di consenso intorno a una guerra che pure era definitoria della identità stessa degli Usa. Sono nati in quell’epoca paradigmi giornalistici che hanno ispirato generazioni, dal lavoro di Peter Arnett, a quello di Philip Caputo, David Halberstam, a Neil Sheehan, Tom Wolfe e Sydney Schanberg. Anche allora, alla fine la notizia capovolse il consenso. Pensiamo alla storia della strage di My Lai a firma di Seymour Hersh, e alle parole con cui nel 1968 Walter Cronkite concluse un reportage della Cbs report: «Appare sempre più chiaro a questo giornalista che l’unica via razionale per uscirne è negoziare, non come vincitori, ma come uomini d’onore». Leggenda narra che furono quelle frasi a far dire al presidente Johnson «Se ho perso Cronkite, ho perso l’opinione pubblica americana». Anni dopo qualcosa del genere è accaduto in Usa sul fronte interno, con il caso del Watergate. E, più di recente ancora, è accaduto, nel 2004, con un reportage di 60 Minutes sulle torture agli iracheni da parte di soldati Usa nella prigione di Abu Ghraib.

In ognuno di questi casi la pubblicazione di una notizia ha segnalato la fine di un consenso, prima ancora che di una verità ufficiale. Così accade oggi, per l’amministrazione Obama.Ma non solo.

C’è qualcosa in più da segnalare in questa vicenda. Qualcosa che ci parla anche di giornalismo e cittadini. Da anni non vedevamo i media impegnati in operazioni come quella i cui risultati stiamo leggendo. Le sue dimensioni e complessità riportano a galla un modo di lavorare che appare da lungo tempo defunto nelle redazioni di tutto il mondo. Con in più un intreccio fra new media e grande comunicazione tradizionale, che seppellisce molte sciocchezze dette sulla fine del giornalismo nell’epoca di Internet. I new media, per la loro stessa facilità di uso, flessibilità e, non ultima, economicità, si rivelano in questa inchiesta il motore di un potenziale rinnovamento dello spirito stesso del giornalismo sempre più appannato negli intrighi commerciali e proprietari del nostro attuale sistema editoriale.

Operando così lo squarcio di un miracolo: i 92 mila documenti, peraltro consultabili da chi volesse, sono un trillo di sveglia anche per noi stessi, i lettori. Noi stessi forbiti interpreti di troppi cinismi, su tante guerre, vicine e lontane, signori del chissenefrega, contenti e accontentati da una informazione senza verifiche e senza fonti.

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« Risposta #128 inserito:: Luglio 31, 2010, 08:27:53 am »

31/7/2010

L'ombra del partito del Sud
   
LUCIA ANNUNZIATA


La linea del prossimo scontro viene disegnata dalla semplice verifica dei luoghi di nascita del gruppo di deputati e senatori che si sono schierati con il presidente della Camera. Su 43 contati ieri, solo 9 sono nati al Nord: 1 bolognese, 2 piemontesi, 4 lombardi, 2 veneti. Il resto degli uomini e delle donne di Fini si raggruppano in Lazio, Campania, e Sicilia, con qualche nome eccellente anche in Basilicata, Abruzzo e Puglia. La battaglia si sposta al Sud. Qualunque sarà l'occasione che dividerà, formalmente o meno, Berlusconi da Fini, o il governo attuale da un eventuale governo istituzionale, o il sistema dei partiti di adesso dalla definizione di nuove alleanze; qualsiasi sarà insomma la strada su cui la attuale rottura dentro il Pdl porterà il paese, questa strada passerà per il Sud. Una regione che mai come oggi è in condizioni di grande incertezza. I successi della Lega, lo scontro intorno a Pomigliano d'Arco, i tagli della finanziaria, le continue critiche quasi «antropologiche» al Sud, hanno creato un calderone da cui salgono i fumi di una vecchia sfiducia che torna a galla, una stizzita presa d'atto dell'inevitabile ripresentarsi per il Meridione di un destino di serie B. E' per ora solo un cocktail di sensazioni, paure, e incertezze cui però la crisi dentro il governo e il Pdl può fornire una dimensione molto politica. L'origine prevalentemente meridionale del gruppo che rimane con Il Presidente della Camera non è in sé una sorpresa; si sa che la base tradizionale dell'ex An è sempre stata nel centro-meridione.

Più interessante è rilevare che questo insediamento è rimasto uguale, anche dopo anni di «fusione» di An dentro il Pdl. Se ancora ce n'era bisogno, anche questa è una ulteriore prova di come il Pdl non sia mai divenuto davvero un partito. Ora, dopo la separazione, è dunque piuttosto facile immaginare che le distanze mai accorciatesi fra i due spezzoni si riacutizzeranno. Come in fondo è già successo. Se oggi si guarda infatti da questa angolatura alle differenze politiche maturate nel governo durante i mesi passati, vi si rintracceranno bene le impronte «meridionaliste» delle posizioni finiane. Così, la punta di diamante dello scontro fra Berlusconi e Fini, cioè la eccessiva influenza della Lega, ha in effetti un doppio versante: quello della difesa dell'Unità nazionale, e di conseguenza della unità con il Meridione; facile da vedere nella divisione sulla immigrazione anche la sensibilità prodotta dalle immigrazioni dal Sud al Nord; e non è certo un caso se la divisione sulla moralizzazione della politica si è fatta aspra proprio fra rappresentanti del Pdl tutti del Meridione. Va aggiunta a questa realtà strettamente regionale, anche quella più culturale dei potenziali simpatizzanti di Fini. Il presidente della Camera, come dimostrano i consensi che ha avuto in questo suo recente ruolo è posizionato molto bene per raccogliere l'eredità di voti che la ex An e prima ex Msi ha sempre avuto nelle istituzioni e nell'apparato dello Stato, dalle forze dell'ordine, alle prefetture, alla magistratura. Corpi istituzionali in cui la gens meridionale è molto rappresentata. Dunque, il premier Berlusconi separandosi dal cofondatore si ritrova oggi davanti potenzialmente un partito del Sud. Proprio quella regione in cui lui ha una presenza forte numericamente, ma fragile nelle identità: la ex Forza Italia nel Sud è stata soprattutto il partito dei senza casa, Dc, socialisti, spezzoni vari. Sono tanti ma non sanno fare «testuggine». Anzi in battaglia si dividono. Basta qui ricordare lo scontro che divide in due il Pdl in Sicilia, e quello in Campania, combattuto a colpi di dossier. Non sarà dunque facile per il premier cancellare con un colpo di spugna questo radicamento meridionale dei finiani. Tanto più se, come si diceva all'inizio, il Sud è oggi un luogo di tremende instabilità. Non c'è molta percezione dei tremori che scuotono questa area del nostro Paese perché, come per tutto il resto, anche nella informazione il Sud è tagliato fuori dalla attenzione nazionale. Quello che sfugge al resto della nazione è, ad esempio, la inquietudine che il successo della Lega sta provocando nel Meridione. Prendiamo il federalismo: è una riforma necessaria, e su cui è certamente possibile costruire il consenso di vasti strati illuminati del meridione, ma è indubbio che per il Sud significa una riduzione di spesa. Ora, se tale prospettiva viene condita, come è successo, da una forte retorica antimeridionali - pasticcioni, imbroglioni, fannulloni - è molto difficile che non appaia invece come solo una misura punitiva. Questo è il calderone di cui si parlava prima. Gli uomini ex An lo conoscono molto bene. Nella loro storia ci sono molte rivolte meridionali. Come i comunisti, hanno nella loro memoria automatica un modo di star per strada e raccogliere le persone. Una cultura che non hanno perso in questi anni, se solo riandiamo indietro alla forza con cui a Roma hanno agitato la opposizione contro la giunta di centrosinistra.

Nella battaglia politica dei prossimi mesi questo «vigore» (non so che altro vocabolo usare per descrivere la combattività degli ex fascisti) potrebbe tornare loro sottomano. Gli servirà di sicuro. La Campania è la seconda regione, dopo la Lombardia, per numero di voti. Il Sud è stato decisivo nelle recenti tornate elettorali. La sinistra, nonostante la tenuta delle regioni rosse, ha perso quando ha perso il meridione. Viceversa solo con la vittoria al Sud si è consolidato per Berlusconi un governo come quello attuale che pure ha la testa e il cuore al Nord. E nella prossima tornata elettorale amministrativa, il prossimo aprile, tra le grandi città in cui si vota c'è anche Napoli.

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« Risposta #129 inserito:: Agosto 02, 2010, 09:23:36 am »

2/8/2010

Il sogno infranto del Cavaliere

LUCIA ANNUNZIATA


Quel che avrebbe potuto essere. C’è una sorta di tristezza nella foga con cui Silvio Berlusconi sta provando in queste ore a rassicurare tutti sulla tenuta del suo governo.

Comprensibilmente. Qualunque sia l'analisi che se ne fa, e qualunque ne sarà lo sbocco, la rottura dentro il Pdl lascia come principale vittima sul terreno il sogno che il Premier aveva accarezzato nei primi mesi del suo terzo governo.

Quello di divenire l’uomo che dopo aver spaccato l'Italia l’avrebbe ricostruita, trasfigurandosi da leader di parte in Statista. Quello che avrebbe potuto essere, appunto. Per misurare il reale impatto nel governo della crisi di questi giorni, occorre riandare con la memoria agli straordinari inizi e successi della attuale legislatura. Nell’aprile del 2008 Silvio Berlusconi tornava a Palazzo Chigi in maniera inaspettata, dopo un brevissimo governo Prodi che aveva consegnato alle ceneri ogni futuro della sinistra. Tornava sull’onda della crisi della spazzatura, uomo del destino, uomo di popolo, santino di una Napoli che adora i Masaniello, e raccoglieva una maggioranza senza precedenti nelle legislature del dopoguerra. L'uomo del fare sembrò confermare la sua fama pochi mesi dopo l’elezione, con la sua reazione al terremoto dell’Aquila: subito in mezzo alla gente, risolutore, risanatore, affettuoso leader.

Agli occhi della sua maggioranza più che l’avvio di una legislatura, quel primo anno di Silvio Berlusconi sembrò l’inizio di un intero futuro. In quei mesi circolava nelle vene delle aule di governo una fiducia senza limiti, che poteva essere paragonata solo alla disperazione con cui il centro-sinistra si immergeva in una lenta autodistruzione che avrebbe portato alle dimissioni di Veltroni. Persino in quel centro-sinistra si immaginava che Berlusconi avrebbe governato per sempre: «Durerà venti anni» si sentiva dire dappertutto.

Se si vanno a rileggere oggi i giornali e i commentatori politici di allora, vi si troveranno gli scenari di quell’entusiasmo: si vedeva già Silvio al Quirinale, dopo una rapida riforma che avrebbe trasformato apposta per lui un sistema Parlamentare in uno Presidenziale; si parlava già persino di manovre per accorciare la Presidenza Napolitano, tanta era la convinzione e la impazienza del leader. Del resto, va ancora ricordato, è quello il clima in cui è nato il più singolare partito della storia moderna: il partito a leadership carismatica, unico possibile titolo per dimostrare la assoluta grandezza di un Premier che si fa votare con un applauso della assemblea nazionale.

Dentro i successi e la sicurezza di quel primo anno prese forma una convinzione più grande della stessa leadership, o, se volete, un sogno: che si fosse arrivati a una vera svolta nella storia, che l’Italia fosse pronta a diventare un nuovo Paese e che Silvio potesse diventare l’uomo che dopo averla divisa, sfondata, cambiata, poteva riunificarla.

Perché non immaginarlo, d’altra parte? Nel suo terzo governo (formalmente quarto, per via di un rimpasto nel 2005) Berlusconi riceve un consenso persino da quella élite del Paese che per lungo tempo si è tenuta lontana: direttori di giornali, imprenditori, artisti, intellettuali ammettono la sua potenza. Se si rilegge oggi la collezione di - ad esempio - «il Foglio», si capirà bene la ampiezza del sogno.

Il momento più alto di questa tendenza è raggiunto il 25 aprile del 2009, festa di sinistra cui di solito il Premier si è sempre sottratto. Per questo 2009 «il Giornale» invece annuncia: «Silvio ci sarà e sarà una prima volta storica». Effettivamente ci va e sceglie una location significativissima: il paesino di Onna, da poco devastato dal terremoto, teatro in passato di un eccidio nazista, patria della «leggendaria» (parole di Berlusconi) brigata partigiana Maiella. Vi pronuncia un discorso che ancora oggi è il più serio invito mai pronunciato dal premier alla riunificazione dell’Italia: «In quel momento - dice parlando della Resistenza - tanti Italiani di fedi diverse, di diverse culture, di diverse estrazioni si unirono per seguire lo stesso grande sogno, quello della libertà. Vi erano fra loro persone e gruppi molto diversi. Vi era chi pensava soltanto alla libertà, chi sognava di instaurare un ordine sociale e politico diverso, chi si considerava legato da un giuramento di fedeltà alla monarchia. Ma tutti seppero accantonare le differenze, anche le più profonde, per combattere insieme. I comunisti e i cattolici, i socialisti e i liberali, gli azionisti e i monarchici, di fronte a un dramma comune, scrissero, ciascuno per la loro parte, una grande pagina della nostra storia». Segue un elogio alla Costituzione, che suona ancora oggi sorprendente, se si pensa a tutte le polemiche successive: «Una pagina sulla quale si fonda la nostra Costituzione, sulla quale si fonda la nostra libertà. Fu nella stesura della Costituzione che la saggezza dei leader politici di allora, De Gasperi e Togliatti, Ruini e Terracini, Nenni, Pacciardi e Parri, riuscì ad incanalare verso un unico obiettivo le profonde divaricazioni di partenza. Benché frutto evidente di compromessi, la Costituzione repubblicana riuscì a conseguire due obiettivi nobili e fondamentali: garantire la libertà e creare le condizioni per uno sviluppo democratico del Paese».

Il discorso irrita i nemici acerrimi, spiazza tutti, e commuove i partigiani - i quali applaudono il premier, lo circondano quando scende dal palco e gli regalano il fazzoletto della Brigata Maiella. Circondato a quei vecchi eroi, con sulle spalle quel fazzoletto simbolo della resistenza, Berlusconi fa il giro del paese terremotato. Il giorno dopo il suo consenso è, secondo tutti i sondaggi, il più alto che abbia mai raccolto. Ma è anche l’ultimo momento di felicità del Premier. Il giorno dopo, il 26 aprile, si reca a Casoria alla festa di una ragazzina di 18 anni. Una decisione che segna simbolicamente una lunga discesa in un lungo anno, fra polemiche, scandali, divisioni, inchieste e dimissioni. Fino alla separazione di questi giorni.

Di quello che accadrà ora, dopo la crisi apertasi con Fini, è difficile dire. Silvio Berlusconi ha dimostrato in questi quindici anni di politica, di essere un uomo forte, astuto, cocciuto, cinico, abile, popolare. Ha dimostrato insomma di essere un vero politico, e infatti ha saputo più volte risorgere dalle sue difficoltà. I segni della sua popolarità sono ancora forti anche in queste ore, e se si andasse a votare presto rivincerebbe. Ma nemmeno una nuova vittoria potrebbe riportarlo indietro al tempo di cui abbiamo parlato. La crisi ha tolto al premier la sua onnipotenza, la sua intangibilità, il suo «magico». Un governo che in soli due anni arriva a schiantarsi su una crisi parlamentare, sia pur controllata, è infatti solo un governo come tanti altri. E di conseguenza, Silvio Berlusconi si è lui stesso ridimensionato a un politico come tutti gli altri. Il giocattolo che aveva nelle mani quando ha riattraversato la soglia di Palazzo Chigi per la terza volta si è definitivamente rotto.

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« Risposta #130 inserito:: Agosto 05, 2010, 03:34:32 pm »

5/8/2010

L'orizzonte ristretto di Fini
   
LUCIA ANNUNZIATA

Di partiti ne abbiamo visti nascere, spaccarsi, morire, rifondarsi anche nella nostra (nemmeno tanto lunga) vita. E sempre, in una maniera o in un’altra, ragionevoli o irragionevoli che siano stati, comunisti, socialisti, liberisti, terzomondisti, autoritari, nazionalisti, qualunquisti, sempre comunque nati intorno a un principio da difendere con la ragione, il cuore, le mani se necessario, le armi se chiamati.

Intorno a una passione, insomma. Mai, assolutamente mai, ne abbiamo invece visto nascere uno sulla negazione della scelta: l’astensione. Qualcosa è andato perso per strada, ieri, durante il voto di sfiducia al sottosegretario Caliendo. Qualcosa che pure aveva rianimato il dibattito politico di questo Paese negli ultimi mesi: il vigore della polemica, il desiderio di scegliere, la passione dell’opinione, appunto.

Lo sappiamo, lo abbiamo ben capito. L’astensione del gruppo di Fini, insieme a quello di Casini, ha ragioni istituzionali molto serie: non precipitare il Paese nel caos di una crisi al buio. Ma questo orizzonte è già in sé una rinuncia, un rinchiudersi in un orizzonte tutto parlamentare-politico. Una negazione in sé, dunque, della battaglia che lo stesso Fini ha finora condotto, e che ha avuto l’impatto che ha avuto proprio perché aveva spaccato il recinto del politicismo istituzionale.

Qualunque cosa ne dica il Premier, il presidente della Camera ha pesato non perché (o non solo) ha compiaciuto la sinistra, ma perché ha reso trasparente il dissenso interno a un partito, perché ha verbalizzato con semplicità le conseguenze pratiche dei diversi principi. Fini è stato efficace, insomma, perché è uscito dai circuiti giornalistico-politici, rotto le pareti dei Palazzi, del Parlamento stesso, ridando ai cittadini la possibilità di capire e scegliere fra coloro con cui si è d’accordo e coloro con cui non lo si è. Che è poi il centro della dinamica democratica, ed è l'aria che manca in un sistema parlamentare che, ricordiamoci, è stato costruito con liste bloccate, cioè senza dare alcuna scelta a chi vota. Non a caso, i temi agitati dal presidente della Camera non sono stati di natura tecnica, ma temi essenziali, comprensibili a tutti: la moralità pubblica, la tenuta anticorruzione, l’unità della nazione, la distinzione fra eroi veri ed eroi sbagliati. Quando poche settimane fa, ad esempio, pronunciava il suo «Borsellino è un eroe, Mangano (lo stalliere di Arcore, nda) no», dava alla politica di nuovo il suo ruolo di guida del Paese in una scelta di valori. Che la sua sia stata una battaglia popolare, a dispetto dei sondaggi del Cavaliere, lo prova il numero stesso di deputati e senatori che ha deciso di seguirlo - secondo la regola spesso citata da Churchill (ma non da lui inventata) che nessun tacchino anticipa il Natale, questi parlamentari non pensano certo che il loro è un suicidio.

Rispetto a tutto il «furore» dei mesi scorsi, l’aula ci ha restituito ieri invece un gruppo finiano smortaccino, sedato più che calmo. L’intervento di Della Vedova, più che volterriano è stato l’apologia dei distinguo. La definizione di un sé politico scritto più da quello da cui si prende le distanze che da quello per cui si scende in campo. Garantismo e giustizialismo non sono «opposti estremismi» come ha detto Casini, nuovo alleato ufficiale da ieri, di Gianfranco Fini. Il garantismo è un concetto legale, il giustizialismo è un vizio della politica. Non riusciamo a credere che ieri non si potesse scegliere sulla questione Caliendo, sul filo di un rigoroso garantismo: quello dovuto ai cittadini, ad esempio, che hanno diritto per definizione a un governo senza ombre. In realtà, nemmeno Fini e i finiani, in questa loro più modesta versione, hanno dato l'impressione di credere in quello che facevano. Le buone ragioni istituzionali per cui si sono mossi in questo modo per altro non sono state affatto difese, dal momento che i 304 voti contrari e astenuti sono comunque una messa in mora, sia pur non formalizzata, di un governo che ha contato solo 299 consensi. Ma allora tanto valeva dirlo. Dire che ci si asteneva per ragioni nobili ma tattiche. Ed evitare un po’ di imbarazzo a tutti.

Fossi Fini mi chiederei stamattina quanto hanno capito di tutto quello che è successo e ancora succederà i cittadini che sono stati a guardarlo in questi ultimi mesi. Nel bar collettivo in cui di solito collochiamo l’opinione pubblica, mi immagino sentire la domanda: ma valeva la pena di spaccare un partito, e un governo, per astenersi?

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« Risposta #131 inserito:: Agosto 18, 2010, 11:09:58 am »

18/8/2010 (7:18)  - GLI ANNI DI PIOMBO

"Kossiga" e i troppi misteri mai svelati

I lati oscuri di uno dei pochi veri protagonisti del nostro Paese

LUCIA ANNUNZIATA
ROMA

C’è una foto di Cossiga che fa parte, a pieno titolo, della galleria della storia di questo Paese. È in bianco e nero, sgranata come all’epoca erano le foto. Il Presidente emerito vi appare in un loden, si intravede il suo profilo aquilino in quel volto lungo e spesso, da sardo. Poche ore prima di quello scatto ha compiuto un gesto obbligato: si è dimesso da ministro degli Interni.

Solo, dunque, spoglio di ogni responsabilità ufficiale, ha probabilmente trovato la forza di aprire l’ultimo, muto, dialogo con il suo amico Aldo Moro, sepolto lì, davanti a lui, in quella tomba di Torrita Tiberina. Aldo Moro, ucciso il 9 maggio 1978, dopo 55 giorni di prigionia, dalle Brigate Rosse; ma quanta colpa c’è in quella morte anche del ministro degli Interni che ha guidato il ministero durante il rapimento? Cosa pensa Cossiga su quella tomba, mentre un fotografo scatta quel fotogramma? Pensa di aver peccato? E se sì, qual è la sua colpa: impotenza, incapacità, mancanza di volontà? Il suo dolore è evidente, la sua figura piegata dentro il loden è la perfetta illustrazione fisica del peso che la morte di Aldo Moro ha fatto cadere sulle sue spalle, e su quelle del partito, la Dc. Quell’immagine coglie l’inizio della fine della Prima Repubblica.

Da allora, tutte quelle domande hanno continuato ad aleggiare intorno alla poderosa personalità dell’ex ministro degli Interni poi divenuto Presidente della Repubblica. Ma non ne avremo mai risposta diretta. Sappiamo però con certezza, perché lo abbiamo vissuto allora, che nell’attizzare le polveri del terrorismo che avrebbe lacerato il Paese e portato al rapimento di Aldo Moro, Francesco Cossiga fu uno degli apprendisti stregoni.

L’anno cardine di questo giudizio è il 1977, dodici mesi in cui una nuova esplosione di movimenti studenteschi naufragò nella violenza. Un breve periodo in cui una generazione di studenti fu presa in mezzo (o se preferite: si lasciò prendere in mezzo) da uno scontro che in Italia già ribolliva e da forze che non aspettavano altro che di essere evocate. I gruppi armati da una parte, le già organizzate Brigate Rosse, nuove sigle con una nuova leva di adepti, e lo Stato dall’altro: forze dell’ordine, magistrati, e su tutti Lui, il ministro degli Interni, Francesco Cossiga, il più inflessibile dei difensori delle istituzioni statali.

Dietro tutti loro agivano tensioni, o forse solo suggestioni e paure, più grandi: lo scontro fra Est e Ovest, i rubli del Kgb, i dollari della Cia, l'Italia frontiera della Guerra Fredda, la inflessibilità di un Segretario di Stato americano, Kissinger, di accento e patria tedesca, già impigliato nella fine del Vietnam, e ossessionato, per quella sua teutonica origine, dal timore di una nuova espansione sovietica in Europa.

Di tutto questo sapevano ben poco i ragazzi del ’77, che irruppero in scena a differenza dei loro predecessori del ’68, armati solo dell’ironia, della creatività, delle radio e delle droghe. Indiani metropolitani, si definivano, incoscienti contestatori di leggendari leader sindacali come Luciano Lama; rivoltosi distratti nei cui cortei giocavano a rimpiattino infiltrati delle Br, della nascente autonomia, e agenti del ministero dell’Interno travestiti da manifestanti. Il solito Forattini che già allora aveva una imperdonabile matita, disegnò una vignetta in cui era proprio il ministro degli Interni, con i suoi riccioli, e una maglietta a righe, a sfilare armato di pistola. Furono pochi mesi di una miscela esplosiva, dall’inizio alla primavera del ’77, in cui il corso degli eventi poteva essere indirizzato in una maniera o un’altra, e purtroppo andò per il verso peggiore.

Già nell’autunno divenne evidente che quella mobilitazione giovanile aveva alla fine fatto solo da riserva d’acqua per i pesci di una nuova ondata di terrorismo. In quell’autunno nasce l’onda lunga che pochi mesi dopo, nel 1978, porta al rapimento e alla uccisione di Aldo Moro. La responsabilità di quell’assassinio rimane tutta sulle spalle di chi lo rapì e poi lo uccise. Eppure, proprio perché le cose avrebbero potuto essere diverse, nessuno poté in quegli anni dirsi totalmente innocente. Nessuno di quei giovani che sfilarono, nessuno dei dirigenti dei partiti del Paese, dal Pci alla Dc, e certamente non Cossiga, ministro degli Interni, che nei momenti più difficili scelse sempre la linea dello scontro, dello schianto. Cossiga, detto anche Kossiga.

Non a caso, nel corso della sua lunga vita il Presidente ha poi scelto di rivisitare spesso quegli anni. Consapevole di aver lì gettato una radice fatale del suo destino. Contattò i terroristi in carcere e quelli fuori, divenne amico di molti ex ragazzi del movimento. Di tutti loro cercò di essere un interlocutore. In realtà ne era piuttosto distaccato studioso, come un entomologo davanti a un covo di formiche. Non c’era mai fine alle storie che ricordava e a quelle che faceva ritornare a galla, sugli Anni Settanta e il terrorismo. A casa sua, o all’Harry’s Bar di via Veneto. Ma nonostante l’amicizia offerta e la spontanea logorroica esposizione della memoria, mai, assolutamente mai, si è saputo da lui nulla che aiutasse a sciogliere i principali interrogativi sui fatti di cui fu protagonista e di cui è stata travolta la Prima Repubblica. In questo tremendamente simile al suo amico nemico di sempre Giulio Andreotti.

La morte di Aldo Moro fu per Cossiga un dolore personale immenso. Che in lui si è sempre avvertito. Forse perché il fato lo ha punito con il più ironico dei regali: farlo diventare Presidente della Repubblica, esaudendo il sogno che già nel ’77 aveva ispirato la linea da salvatore della Patria. La sua è stata, dunque, una Presidenza nata sotto un sole nero. Finita, non a caso, come si sa, in mezzo alla furia distruttrice. Facendo di lui una delle poche, vere, tragiche e grandi figure della nostra storia politica.

http://lastampa.it/redazione/cmsSezioni/politica/201008articoli/57732girata.asp
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« Risposta #132 inserito:: Agosto 20, 2010, 12:35:07 pm »

20/8/2010

Sette anni senza gloria
   
LUCIA ANNUNZIATA

Conclusione senza gloria - né quella della vittoria, né quella della sconfitta. Il conflitto che gli Usa hanno scatenato in Iraq, finito ieri, con prudenti dieci giorni di anticipo, è stato a tutti gli effetti una guerra mediocre.

Che si ricorderà più per quello che ha involontariamente rivelato, che per quello che ha volontariamente ottenuto. Iniziata come Guerre Stellari, finita alla chetichella. Iniziata con una seduta dell’Onu in mondovisione per svelare le armi di distruzione di massa in mano a Saddam, finita con una silenziosa corsa notturna nel deserto della colonna corazzata della «4th Stryker Brigade», ultima brigata combattente degli Usa in Iraq. Niente di eccezionale ha immortalato il momento, nessuna emozione particolare, nessun elicottero che si alza in volo con gli ultimi civili. Della fine della seconda guerra irachena possiamo dire che ci ricorderemo solo la eccezionale quiete della ritirata notturna, perfetto contrappunto alla rumorosa galoppata con cui sette anni e mezzo fa la cavalleria meccanizzata americana aveva attraversato quello stesso deserto puntando a Baghdad. Fra l’inizio eroico e questa fine silenziosa giace un periodo del declino della stessa storia americana.

Ricordiamola ora. Nella strategia del presidente americano George Bush, la guerra a Saddam Hussein ha avuto un posto senza precedenti. Gli Stati Uniti usciti a malapena integri dall’attacco alle Torri Gemelle, nel 2001, avevano già risposto aprendo un fronte di guerra al terrorismo di Al Qaeda in Afghanistan, con il consenso e l’aiuto di tutti i suoi alleati europei. Ma la sicurezza del mondo era ben lontana dall’essere restaurata.

L’intervento in Iraq venne individuato da Washington come la prima mossa per riorganizzare i rapporti di forza globali, nell’era in cui agli Stati Uniti toccava l’onere e l’onore di essere l’unica grande potenza rimasta a garanzia contro il caos. Iraq piattaforma geografica perfetta nel cuore del Medioriente radicale religioso, Iraq forziere petrolifero ancora ampiamente non sfruttato e, soprattutto, Iraq governato da un indiscusso dittatore con un conto aperto con gli Usa e la famiglia Bush da una guerra precedente. Iraq dunque nuovo laboratorio di un futuro migliore - la prima guerra americana in cui gli Usa non si limitavano a «difendere» la democrazia, ma si impegnavano a esportarla, creandone le condizioni dalla radice. Dopo le Due Torri, gli Usa sarebbero stati al sicuro solo se si fosse ridisegnata la mappa morale e sociale e politica delle nazioni come le conoscevamo.

Teoria affascinante e pericolosa, che Washington abbracciò ammettendo con chiarezza - anche questa per la prima volta nella sua storia- che gli Usa potessero essere i primi ad attaccare, che le vecchie regole diplomatiche erano solo dei lacci che indebolivano il mondo, che le alleanze come si conoscevano erano solo una vecchia scarpa con cui non si poteva più correre.

A rievocare questi pensieri, le paure da cui erano nati, non meraviglia, oggi, ripensare anche alla carica quasi messianica che Washington mise nel preparare l’intervento in Iraq. Per sostenere la necessità di combattere Baghdad venne mandato all’Onu a dire bugie sulle armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein un bravissimo uomo e un ottimo generale, Colin Powell, la cui carriera ne è uscita distrutta. Sullo stesso altare vennero sacrificati Tony Blair e molti degli alleati europei che giurarono sulle stesse prove non provate. Si chiamò alla fine «guerra preventiva», e ben prima della caduta di Saddam Hussein, portò con sé la cancellazione del multilateralismo, la fine della diplomazia, e la spaccatura dell’Alleanza Atlantica.

E forse è stato solo conseguente che un conflitto nato su delle forzature, e su delle pure bugie, si sia poi sviluppato senza grandi successi, e senza onore. Saddam venne rovesciato, è vero. Ma di tutto quello che avrebbe dovuto essere, questo è stato quasi l’unico obiettivo raggiunto. Per il resto, sette anni e mezzo in Iraq hanno svelato solo il volto peggiore delle guerre moderne: senza eroi, senza scopo, e con troppo denaro in ballo.

Ricorderemo così il conflitto iracheno come la involontaria esposizione di piccole e grandi infamie. Dell’Iraq ora sappiamo come era fatto: generali che si vendettero agli Usa mentre ancora giuravano fedeltà al capo, un dittatore che dopo tanti assassini e tanti proclami corse a nascondersi in un buco nell’ora della disfatta del suo Paese, bande di terroristi armati dediti al rapimento, alle uccisioni di massa, alla vendetta religiosa tra versioni varie dell’Islam. Degli Usa, anche, sappiamo oggi più di prima: sappiamo delle torture di Abu Ghraib, sappiamo di un esercito di professione ormai proletarizzato e insufficiente nei numeri, sappiamo dell’impiego massiccio di contractors (mercenari), sappiamo di attacchi indiscriminati ai civili e dell’uso del fosforo nei combattimenti.

Sette anni e mezzo senza gloria, appunto, come si diceva, da una parte e dall’altra. Sette anni e mezzo in cui insieme a Saddam è caduta una parte molto importante del discorso politico Usa: non solo la democrazia non si può esportare; in discussione oggi è la stessa missione etica del popolo americano.

L’Iraq in questo senso segna la fine dell’innocenza di una grande nazione, senza neppure l’alibi di un grande scontro, di una grande passione ideologica, come quello che fu combattuto intorno al Vietnam. Senza eroismo da segnalare da parte degli americani, né eroi da additare ad esempio - come, va ripetuto, il Vietnam pure aveva prodotto.

Una mediocre guerra, di una mediocre presidenza americana. Il cui unico simbolo che rimarrà è un uomo nudo, tenuto in piedi dai fili elettrici che lo torturano. Ma senza volto, coperto da un cappuccio. Segno che nemmeno il nemico, anche quello che si tortura, si conosce più.

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« Risposta #133 inserito:: Settembre 04, 2010, 09:33:04 am »

4/9/2010

Medio Oriente, neanche Obama fa miracoli
   
LUCIA ANNUNZIATA

Il processo di pace fra israeliani e palestinesi è per i Presidenti americani una sorta di pellegrinaggio a Medjugorie: la regolare, sia pur quasi sempre disperata, ricerca di un miracolo. Neppure Barack Obama ha fatto eccezione a questa regola. Il suo recente tentativo di ravvivare la speranza in Medioriente convocando a Washington i leader più direttamente coinvolti nel conflitto ha ottenuto risultati definiti «modesti» anche dai più benevoli osservatori. L’accordo fra le parti consiste infatti nell’essersi accordati ad incontrarsi ogni due settimane - il prossimo incontro è per il 14 e il 15 settembre - per la durata di un anno, nella promessa che in un anno «si raggiungerà la pace». Il primo ostacolo si profila già per il 26 settembre. In quella data scade la moratoria sulla costruzione degli insediamenti, e Israele non avrebbe intenzione di prolungarla.

Quello che rimane della due giorni di Washington è dunque solo una domanda: perché mai questi colloqui sono stati convocati? E forse la parte più interessante dell’appuntamento è proprio il tipo di risposta che comincia a circolare: forse il metodo (oltre che il merito) dei colloqui di pace in Medioriente ha fatto il suo tempo. In epoca di leadership deboli, quale è - a dispetto di tutti i suoi ammiratori - anche quella di Obama, forse gli Stati Uniti non sono più i migliori mediatori.

Prima di arrivare ad esplicitare questi dubbi, va ricordato che l’intervento americano in Medioriente ha, in politica estera, una forte valenza narrativa. Lo racconta molto bene William Quandt, membro del National Security Council, nella riedizione aggiornata di un suo libro, un classico per il settore: «Peace Process: American Diplomacy and the Arab-Israeli Conflict Since 1967». L’intervento Usa in Medioriente è, vi viene ricordato, relativamente nuovo, ma ha un alto impatto simbolico. Dal primo coinvolgimento diretto nella questione arabo-israeliana di Lyndon Johnson, che nel 1967 appoggiò l’invasione e occupazione dei Territori della West Bank, fino all’Obama di oggi, il ruolo americano è una lunga catena di speranze, successi, e delusioni.

Johnson vede spezzata la sua speranza di pace con la guerra del 1973, che portò poi il Medioriente dritto sul tavolo di Kissinger e Nixon, essi stessi ben altrimenti occupati dal conflitto in Vietnam. L’idea di un negoziato americano nasce, nota Quandt, tuttavia, proprio dal metodo che porta alla fine del Vietnam - l’idea appunto di un tavolo di trattative in cui gli americani siano la forza propulsiva. Il primo successo di questo approccio lo coglie Carter, con il Camp David del 1978, in cui Begin ed Anwar Sadat si stringono la mano. I due leader ricevono il Nobel per la Pace, ma nemmeno quel successo dura: la presidenza Carter è oscurata dalla crisi iraniana, e nell’era Reagan, l’assassinio di Sadat nel 1981, poi l’uccisione di 242 marines a Beirut nel primo suicidio bomba della storia, infine lo scandalo Iran-Contras, chiudono definitivamente l’era di Camp David. Vi riproverà il primo Bush, con la shuttle diplomacy inventata da James Baker, che porterà alla conferenza di pace di Madrid, e i cui frutti saranno colti da Bill Clinton con gli accordi di Oslo del 1993. Le guerre non si fermano.

Nel 2000 prima di chiudere il suo secondo mandato Clinton rifarà un tentativo, che verrà ricordato solo per la cerimonia che scimmiotta il primo Camp David. C’è poi un secondo Bush, il cui lavoro finirà nel mare magno della doppia guerra nel Golfo (Iraq e Afghanistan). Infine Obama, il cui segretario di Stato e un altro Clinton, Hillary, che della pace con il mondo musulmano ha fatto la più rilevante promessa della sua campagna elettorale.

Sulla strada di questa pacificazione Obama si è molto impegnato. Va ricordato il suo discorso al Cairo, il primo fatto in territorio musulmano da un presidente Usa; il ritiro dall’Iraq, e quello, promesso, dall’Afghanistan; ma anche la decisione di dare via libera alla moschea vicino al sito dell’11 Settembre. Per questo lavoro Obama ha anche pagato dei costi: primo fra tutti una crescente tensione con Israele, che fin dall’inizio ha guardato alle sue attività mediorientali come a una presa di distanza, nei fatti, dalla tradizionale amicizia senza se e senza ma fin qui esistita fra Israele e Washington.Ma il dossier Palestina-Israele è cresciuto, comunque, nei mesi passati: gli Usa hanno ottenuto un isolamento parziale di Hamas, nella West Bank hanno rafforzato la leadership palestinese moderata che sta costruendo un primo abbozzo di Stato; dalla stessa Israele, nel bene o nel male, hanno ottenuto la moratoria sugli insediamenti.

Eppure, come si è visto in questi giorni chiaramente, il processo di pace rimane sempre più «un processo», e sempre meno «pace».
Si torna così alla domanda: perché allora convocare questi appuntamenti? La risposta tradizionale, cui si accennava sopra, non è più sufficiente. L’impegno in Medioriente è un «obbligo» per la politica estera americana, e i colloqui danno ai presidenti lustro, specie in periodi di difficoltà politiche. Ma l’altalena storica di successi e insuccessi è ormai probabilmente troppo lunga persino per i meglio intenzionati. Un’atmosfera di scetticismo accompagna ormai, infatti, questi incontri: gli stessi leader che vi intervengono non nascondono i loro (mal)umori.

Sfogliando il dibattito politico a più ampio raggio, si ha l’impressione che da questa impasse stia emergendo un ripensamento dell’intero approccio. Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia in Israele, ed ex negoziatore israeliano, due giorni fa ha scritto in merito una riflessione che punta dritto al cuore del problema. Ricordo - scrive - che siamo riusciti non poco tempo fa a stendere 500 pagine di accordi dettagliati in cui tutte le questioni venivano risolte, ma le 500 pagine sono rimaste lettera morta. Perché? La risposta è semplice e difficile insieme: la pace non è un negoziato, dice Beilin, la pace è un atto politico.

Gli fa eco un altro ex negoziatore, Aaron David Miller che è stato a lungo consigliere sul Medioriente per segretari di Stato sia repubblicani che democratici. Miller, che ha scritto «The Much Too Promised Land: America’s Elusive Search for Arab-Israeli Peace», è intervenuto sul numero di maggio-giugno di Foreign Policy denunciando la sua sfiducia in quella che secondo lui, negli anni, è diventata una convinzione quasi religiosa: «L’America ha usato il suo potere per fare guerre, può dunque usarlo anche per fare la pace. Ne ero un credente. Oggi non lo sono più».

Le ragioni di questa sua disillusione vanno probabilmente lette - da chi volesse saperle - direttamente su Foreign Policy. Quello che davvero rimane del suo intervento sono i dubbi che innesta nelle sicurezze fin qui coltivate: «Il vecchio modo di pensare su come costruire la pace vale ancora oggi in un nuovo contesto? Il conflitto arabo-israeliano è davvero al centro di tutto? E, dopo due decenni di grandi speranze seguite da violenza e terrore, possiamo davvero credere che le negoziazioni servono? Infine, davvero l'America ha il potere di fare la pace?».
In assenza di risposte, la grande politica mondiale rimane in stand by.

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« Risposta #134 inserito:: Settembre 16, 2010, 10:12:32 am »

16/9/2010

Quell'allarme delle donne di Ciudad Juarez
   
LUCIA ANNUNZIATA


All’inizio ci fu (non è sempre così?) una donna. Anzi, le donne: le 394 ragazze giovani e indifese uccise, dopo tortura e goduria inflitte ai loro corpi, e abbandonate nel deserto, a fertilizzare con le loro ossa e con il loro terrore, la psiche del Messico. Oggi lo vedono tutti che il Messico ha quasi varcato la soglia di ogni possibilità di recupero dalla sua deriva di stato canaglia - eppure da qualche parte un campanello d’allarme suonava per farci capire cosa stava succedendo. Quel campanello era il «feminicidio» di Ciudad Juarez, lo stillicidio di uccisioni femminili continuo, organizzato e gaudente come appunto spesso sono le pulizie etniche o gli olocausti.

Nel 1993 cominciò la via crucis della ragazze dello stato di Chihuahua, in particolare di Ciudad Juarez, città proprio al di qua della frontiera con gli Usa, città del miracolo economico della prima ondata di globalizzazione, poi organizzata e rinsaldata dal Nafta, il primo accordo di libero commercio fra gli stati nordamericani, firmato tra l’altro proprio nel 1992. Quell’ onda di cambiamento a Ciudad Juarez si chiamava «maquilladoras», le manifatturiere che le grandi aziende americane avevano convenientemente spostato sull'altro lato della frontiera Usa. Donne giovani in particolare il cui lavoro era, e rimane, in nero, sporco, privo di sicurezza. In quel flusso umano i serial killers hanno trovato l’appagamento, facile, dei loro sogni di sesso e morte. Eppure nessuno per anni ha mai voluto vedere. Le morti divennero dieci, centinaia, e a lungo la polizia le ha trattate come crimini isolati, frutto di violenze familiari o prostituzione. Ci sono stati film , documentari, e manifestazioni, ma ancora oggi di giustizia vera non se ne vede. In compenso è sempre più evidente il legame fra quelle morti e le condizioni generali di decadenza del Messico.

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