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Autore Discussione: Gianni RIOTTA -  (Letto 91227 volte)
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« Risposta #75 inserito:: Febbraio 03, 2013, 05:27:25 pm »

Editoriali
03/02/2013

La Francia svende il futuro

Gianni Riotta


La leggenda vuole che gli indiani della tribù Lenape abbiano venduto l’isola di Manhattan e New York agli olandesi per un pugno di perline. La storia registra piuttosto, in un documento di Pieter Janszoon Schagen del 1626, che la somma pagata sia stata 60 fiorini. 

 

Al prezzo di oggi non i 24 dollari in chincaglieria del mito, ma 770 euro: chiaro, comunque, chi fece l’affare. Il cattivo business del 1626 torna in mente oggi esaminando l’accordo - storico - firmato al Palazzo dell’Eliseo a Parigi tra il presidente francese François Hollande e il presidente di Google Eric Schmidt. Hollande è il capo tribù dei Lenape, Schmidt la versione odierna del leader olandese Peter Minuit. La visione politica e culturale di Hollande su informazione e tecnologia è ferma al XVIII secolo, quando gli Illuministi dominavano Parigi. Schimdt comprende la strategia delle notizie e del dibattito nel XXI secolo. Impressiona quanto obsoleto sia l’orizzonte del leader francese e quanto ricco di audacia quello dell’imprenditore americano.

 

Da tempo gli editori di giornali francesi, come i loro colleghi tedeschi e italiani, si lagnano del motore di ricerca Google che, a loro dire, si impadronisce di contenuti di proprietà delle aziende editrici e li rilancia sul proprio aggregatore di notizie, senza pagare. Le difese proposte contro l’algoritmo con cui Google archivia gli articoli sono state, fin qui, arcaiche. In ottobre Hollande minaccia Google con una tassa da pagare ogni volta che il motore di ricerca pesca un articolo dai media francesi. La risposta di Schmidt è duplice, appello di maniera alla libertà online, e la rappresaglia di cancellare tutti i siti web francesi da Google se la gabella fosse stata imposta a viva forza.

 

I termini della disputa sono chiari: editori e giornalisti difendono il loro diritto proprietario sui contenuti, Google manovra nel mercato aperto online. Il tema del copyright ha già costretto il mondo della musica alla metamorfosi, finché con i video di youTube e i micropagamenti via iTunes si è trovato un precario equilibrio. Gli artisti lamentano meno incassi, meno creatività, costretti ai concerti per recuperare introiti perduti con i dischi. Il pubblico ribatte che l’accesso alla musica è più semplice ed economico.

 

L’accordo tra Hollande, che rinuncia alla voce grossa, e Schmidt, riconosce a Google il diritto di non pagare tassa alcuna e non concede neppure un euro agli editori. Google si limiterà a pagare 60 milioni di euro (l’equivalente dei 60 fiorini del 1626…) a un «fondo per finanziare l’innovazione digitale nei giornali», promettendo inoltre di favorire l’aumento delle risorse pubblicitarie a disposizione online.

 

E’ una sconfitta culturale per i francesi, una débâcle strategica come a Waterloo, quando si leva il grido «La Guarde recule». La stampa francese, erede di Voltaire, D’Alembert, Aron, Camus, Hubert Beuve-Méry delega a un colosso americano nato nel 1997, 17 anni dopo la morte del filosofo Sartre, l’innovazione digitale. Riconosce cioè che la sua sola risorsa superstite sono i contenuti negli archivi e la capacità di riprodurli, cioè il passato e un labile presente, ma svende il futuro del giornalismo, la sterminata e fertilissima prateria online. E come se una nazione ricca di petrolio avesse concesso per sempre a qualcun altro l’uso dei suoi oleodotti. Google - va dato atto a Eric Schmidt e al suo capo economista Hal Varian - stravince la partita del domani, assicurandosi che ogni sviluppo digitale nell’informazione a Parigi sarà marcato dal brand. Temo che né il presidente Hollande – reduce da un tour della «vittoria» in Mali che a qualcuno ricorda la frettolosa bandiera «Missione compiuta» di G.W. Bush per l’Iraq 2003 - né gli editori francesi ricordino il monito saggio lanciato da Varian sulla rivista The Atlantic nel 2010: «Come salvare l’informazione? Innovare, innovare, innovare» http://goo.gl/cAXzG.

 

Ora tocca agli editori tedeschi, con la cancelliera Merkel che, in campagna elettorale, fa la dura, poi cederà, quindi agli italiani, che non sembrano dimostrare maggiore fede dei colleghi transalpini nel giornalismo digitale. Il commissario europeo Almunia, che «indaga» su Google ormai dal 2010, ha da venerdì sul tavolo una proposta di compromesso firmata Schimdt: la accetterà.

 

E’ pura illusione, per gli editori, i giornalisti, i governi, l’Europa, le organizzazioni internazionali, pretendere di «pilotare» la formidabile rivoluzione in corso. Amazon, Google, Apple, youTube, Wikipedia, Facebook, Twitter, giganti spesso in guerra tra loro, sono la realtà. Occorre battersi perché l’accesso ai contenuti resti libero, perché il giornalismo di eccellenza non si estingua, perché i monopoli non dilaghino, perché nelle scuole e nelle start up digitali lo Stato promuova idee e ricerche. Ma finché Hal Varian, Eric Schimdt e Google conoscono il segreto del sapere digitale, «Innovare!», e politici e media europei si ostinano a credere come Hollande nel totem rassicurante «Conservare!», sappiamo già chi plasmerà l’informazione del XXI secolo e chi farà invece da modello, elegante e sfarzoso magari, al Museo delle Cere dei Media.

Twitter @riotta

da - http://lastampa.it/2013/02/03/cultura/opinioni/editoriali/la-francia-svende-il-futuro-HegWs6WuZtMkxMXoSmYXMK/pagina.html
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« Risposta #76 inserito:: Febbraio 10, 2013, 04:32:10 pm »

politica
10/02/2013

Così le promesse dei politici accendono il dibattito in Rete

Dall’analisi di Twitter si possono ricavare informazioni molto utili per la campagna elettorale

FLUSSI, GRAFICI, MAPPE  L’analisi Tycho-Lastampa   
 
Berlusconi infiamma Twitter dopo la proposta di voler restituire i soldi dell’Imu

Gianni Riotta


Riuscirà Pierluigi Bersani a far prevalere il Partito Democratico nella volata elettorale di febbraio? Quanti consensi ha recuperato Silvio Berlusconi? Il debutto politico di Mario Monti avrà successo finale? Quale Italia rappresenta Beppe Grillo che, negli ultimi sondaggi, sfiora con le sue 5 Stelle il 20%? 

 

La Stampa avvia da oggi un’analisi della conversazione sociale sul web per rispondere a queste domande. Indagini Censis e McKinsey hanno dimostrato che una maggioranza di italiani è ormai online e, guardando la tv, che resta fonte centrale con i giornali di notizie politiche, commenta poi la situazione sul web. Studiando dunque i blog, Facebook e twitter ascolteremo il polso di elezioni che si annunciano storiche, con la tecnica usata negli Stati Uniti dal presidente Obama per vincere la Casa Bianca 2012. Non considerare più l’elettorato come una «massa» omogenea, ma come una comunità di singoli cittadini capaci di reagire online personalmente e che devono essere raggiunti, uno per uno, con un messaggio individuale.

 

L’analisi sarà condotta da Tycho Big Data, un progetto incubato presso l’istituto di ricerca dell’Imt a Lucca. Tycho «estrae» i dati del dialogo sociale dal web, con algoritmi, e ne analizza il significato politico. In questa prima puntata partiamo da Twitter, il popolare sito di blog telegrafici (140 battute) che in Italia è piazza politica dove commentare, con passione, ragione e ironia, la politica. Elaborando i tweet politici abbiamo realizzato varie mappe che rappresentano «dove», e perché, in Italia si sta discutendo dei leader politici in corsa. La prima, per esempio, illustra «dove» si discute di Silvio Berlusconi. L’ex premier, considerato spacciato un anno fa, dopo il ko del governo Monti, si conferma invece noto a tutti gli elettori e, con l’eccezione della Val d’Aosta e della Puglia di Vendola (quando una regione parla poco di un politico il colore resta bianco), è citato ovunque, soprattutto al Nord e nella Lombardia che sarà cruciale per la maggioranza al Senato. Non è che sempre si parli «bene» del capo Pdl, ma la sua vivacità online, mezzo finora estraneo al magnate tv, prova che Berlusconi non ha ancora rivali nel centrodestra. Guardate la visualizzazioni dati con l’impennata dei tweet dopo la sua proposta di restituire i soldi dell’Imu. Criticata da più parti, l’idea occupa di slancio il dibattito politico, assegnando punti alla rimonta del Pdl. Lo studioso D’Alimonte calcola che Berlusconi ne abbia rimontati 7, anche se considera difficile che ne rimonti altri 7 in 15 giorni.

 

Diverso significato ha, per Tycho Big Data, la mappa della presenza twitter del senatore Monti, che ha lanciato l’account @senatoremonti. L’intensità dei tweet nel Lazio testimonia quanto «politica» resti, per ora, l’alleanza Monti-Casini-Fini e quanto sia da radicare nel paese. È Roma, network dei blog politici, dei telegiornali, dei quotidiani, dei siti politici che tempestano la rete con commenti sul premier, Transatlantico online, il punto di forza. La presenza scende in Veneto, nel Nord Est, nelle regioni del centrosinistra, Toscana, Umbria, Marche, aree dove l’agenda Monti deve trovare consensi. Se il governo andrà all’intesa Bersani-Monti, i tweet delle regioni dove il Pd è forte indicano al senatore a vita che il rapporto di fiducia con la base degli alleati è precario e va rinforzato.

 

Fin quando non è scattata la par condicio tv, il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, ha prediletto un profilo basso in tv, con meno di un terzo del tempo occupato sugli schermi da Berlusconi e Monti. È la strategia di non «personalizzare» il voto. Bersani critica i «partiti-leader» e chiede consensi al Pd e ai suoi alleati, non al singolo candidato. Il web ne fotografa la tattica, con le regioni rosse che twittano fortemente sul segretario ma una presenza rarefatta al Sud. Là il Pd scommette sul voto organizzato, sindacato e partito, non sul voto d’opinione e Bersani è meno citato. Bersani è ancora il favorito nei sondaggi, ma dopo le elezioni deve decidere se continuare con il fioretto anche da Palazzo Chigi o attaccare. Massimo D’Alema, nella chat Stampa online, ha giudicato «troppo ottimista» la campagna Pd delle prime settimane e Tycho riscontra prudenza, senza eccessi. Per il rush finale la grinta diventa indispensabile: per intenderci serve al Pd una mappa con impennata tweet su una proposta di Bersani.

 

Re politico del web è, da tempo, Beppe Grillo, attivissimo su twitter come @beppe_grillo (lo seguono in 869948, contro i 255447 di @pbersani e i 218452 di @senatoremonti, Berlusconi non ha account ufficiale). Grillo è presente ovunque e con molte citazioni. Roma ne discute con vivacità, presagendo lo sbarco di un centinaio di parlamentari grillini 5 Stelle. Molto citato in Emilia, lodi e critiche per le performances del sindaco Pizzarotti a Parma e discussioni con il Pd. Tycho indica l’omogeneità del dato nazionale di Grillo, che entra nel dibattito in tutte le regioni,Sicilia (dove 5 Stelle è primo partito) e Sardegna incluse. Gli under 30, secondo Renato Mannheimer, hanno in Grillo il leader prediletto: twitter conferma.

 

Infine la visualizzazione dati con le citazioni comuni dei leader (in gergo scientifico co-concorrenze). Lo studioso Ilvo Diamanti ipotizza «la fine del bipolarismo italiano» e Tycho ne identifica con precisione il giudizio: Bersani-Berlusconi-Monti sono i più citati, segue Grillo. Si discute accoppiando Bersani-Berlusconi, Bersani-Monti, Monti-Berlusconi (il legame è più largo nel grafico quante più numerose sono le citazioni), con il presidente Napolitano citato in mediazione e Grillo outsider. Fate attenzione alla rete di Matteo Renzi, (twitta da @matteorenzi forte di ben 361049 followers) nominato sempre per il in dialogo con Bersani: sta crescendo.

 

È solo il primo fotofinish del voto 2013, ma l’analisi politica ormai passerà dai Big Data.Conclude Fabio Pammolli, docente di economia a Imt Lucca e Boston University, tra i fondatori di Tycho Big Data: «La novità è studiare i trend di analisi e le connessioni rilevanti, oltre i numeri dei sondaggi tradizionali. Tycho cattura le opinioni degli individui come presentate sulla rete, nei blog, nei social media, le confronta e quantifica e avanza una prima interpretazione. Non è la sola, certamente, ma esaminando le relazioni tra i vari leader l’analisi muta e si fa più precisa. Siamo al debutto di un nuovo modo di interpretare la politica e la sua critica».

 

Twitter @riotta 

da - http://www.lastampa.it/2013/02/10/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/l-algoritmo-che-svela-XxtQiOQ16Baa3I3ikpbIpJ/pagina.html
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« Risposta #77 inserito:: Febbraio 17, 2013, 09:22:39 pm »

Editoriali
17/02/2013

Itanglish: così parlò il Partigiano

Gianni Riotta


Insegnando cultura italiana all’estero si ha talvolta l’impressione che per tanti studenti la nostra sia una lingua morta, classica, ma spenta come il greco di Omero e il latino di Orazio. Che l’italiano sia invece vivo, in trasformazione continua e mai, come in questo XXI secolo, letto, parlato, studiato e innovato, si dimentica, schiacciati dalla grandezza di Dante, Machiavelli, Manzoni. A volte ho ricordato la citazione del De Mauro, meno del 2% dei cittadini parlava italiano al momento dell’Unità, 150 anni or sono, e una letteratura viva, scritta nella lingua della gente, nasce solo nel Novecento. E per interessare i ragazzi a Princeton ho citato Pavese, che scrive in inglese le sue ultime poesie, tenere e struggenti, Vittorini, a cui Hemingway dedica di pugno una prefazione all’edizione Usa di Conversazione in Sicilia, ma soprattutto Beppe Fenoglio.

Il partigiano Johnny non è solo un capolavoro come romanzo politico - il dibattito tra Johnny e il professore comunista Corradi sulla moralità in guerra e nella battaglia ideologica resta imperdibile -, cambia anche completamente la struttura dell’italiano scritto, parlato e pensato.

 

Johnny agisce secondo una volontà morale, da individuo e tra i partigiani, comunisti e autonomi, perché pensa in una lingua che non ha più la retorica fascista e monarchica. La sintassi frenetica del Partigiano Johnny, il ritmo senza uguali nella nostra narrativa, deriva dall’ibrido di italiano e inglese che Fenoglio, scrittore sperimentale, riesce a ottenere. Ma, ecco il punto, l’effetto magnifico non nasce dall’alambicco dell’avanguardia astratta, come capiterà nel Gruppo 63. È la sperimentazione di idee nuove, il coraggio morale sincero, l’azione politica democratica che, temprata dal talento narrativo di Fenoglio, plasmano la nuova lingua. Rileggete l’incontro di Johnny con i due prigionieri alleati che non vogliono più combattere, «il motore della guerra s’è rotto dentro di noi», e pelano invece patate: «Johnny parlò abruptly. - A bit unwarlike, isn’t, to be peeling potatoes? - Si voltarono lenti, guardarono in su, senza la minima sorpresa di sentir la loro lingua, in un attimo ripresero il ritmo della pelatura. Quello d’aspetto più anziano ed imposing che disse di chiamarsi Burgess, domandò semplicemente se anche Johnny era partigiano. - Yes. What army service, then? - Artirl’ry. - Where were you caught? - Marsah Matruh, 1942. - By Graziani’s troops? - Rommel’s – precisò Burgess rather martellatamente. - Where was the camp you ran out of on the armistice day? - Near Vercelli - disse Burgess, prodigiosamente riuscendo a saltare tutte le vocali del nome. - Near the rice-marshes - disse l’altro, con una voce bizzarramente immature… Si chiamava Grisenthwaite, Johnny dovette farselo ripetere ed infine ripiegare sulla sillabazione. Grisenthwaite sillabò docilmente il suo cognome, e poi: - Have you got any spare razor blade for me? - Sorry, I haven’t. The chief here tells me you’re unwilling to fight. May I know why? - Naturalmente rispose Burgess. - We have enough of fighting, me boy, ’cause we have been through too much fighting, big big fighting in the sands. Mself I’ll never put my finger on a trigger what-soever. So will my pal here Grisenthwaite. The fighting engine’s broken inside us. Furthermore...».

 

In che lingua scrive qui Fenoglio? Un lettore italiano che non sappia, e bene, l’inglese è tagliato fuori. È Itanglish, come a New York scrivono poesie in Nuyorican, inglese e spagnolo di Portorico: la lingua futura, vaticinata dal grande romanziere del secolo scorso.

Twitter @riotta

da - http://lastampa.it/2013/02/17/cultura/opinioni/editoriali/itanglish-cosi-parlo-il-partigiano-mwzfdDpYxmZyfKLn3G6TeN/pagina.html
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« Risposta #78 inserito:: Febbraio 18, 2013, 12:12:22 pm »

Elezioni Politiche 2013

18/02/2013 - - 6 giorni al voto

Le parole e le priorità che decideranno la volata

Di chi si parla su twitter? Dove? E di cosa? Ecco le risposte

Gianni Riotta


Il Partito democratico guidato da Pier Luigi Bersani resta, secondo gli umori e i giudizi del web in Italia, favorito per la vittoria elettorale, domenica ventura. Ma l’esame dei Big Data sulla rete di twitter conferma che Silvio Berlusconi ha consolidato la propria base tradizionale.

 

La rete non scommette sulla sua completa rimonta, ma -con gioia o rammarico - riconosce che sarà attore anche nella prossima legislatura. Quanto a Beppe Grillo, gli ultimi sondaggi prima dello stop gli assegnano il voto di un italiano su cinque e la diffusa presenza online, in parallelo al successo di piazza dello Tsunami Tour, corroborano l’ipotesi che il nuovo Parlamento avrà almeno un centinaio di Grillini. Il Pd ha affrontato di petto, in queste ultime ore, gli avversarsi 5 Stelle, vedremo se l’offensiva finale darà frutti. 

 

Resta «diesel» la campagna online del senatore Monti, senza picchi forti di presenza e senza declinare. Vedremo se il quarto posto nelle citazioni che la rete riserva al primo ministro saranno, o no, previsione esatta del risultato elettorale. Agli alleati di Monti, gli ex presidenti della Camera Casini e Fini, la rete assegna un ruolo non centrale, ma ricco di citazioni. Molti su twitter collegano a sorpresa le proposte di Fini a quelle di Oscar Giannino, candidato che i sondaggi non favoriscono ma che online suscita interesse.

L’analisi dei dati che la Stampa presenta oggi – elaborata da Tycho, un progetto Imt Lucca in collaborazione con Linkalab – ascolta la conversazione sociale degli italiani su twitter-microblog di 140 caratteri – e la traduce in mappe politiche che indicano i possibili scenari del 24 febbraio giudicando, in bene o in male, le strategie dei leader.

 

E’ sempre forte la presenza di Berlusconi su twitter, marcata dalla proposta di restituire l’Imu. Esperto di tv, anche per il controllo dei tre network Mediaset, Berlusconi ha creato una testa di ponte online, grazie al lavoro di Antonio Palmieri e di account non ufficiali, ma efficaci come @berlusconi2013. Guardate la curva nel giorno storico delle dimissioni annunciate di papa Benedetto XVI: Berlusconi «fa surf» sull’onda dei commenti, magari – come spiega il professor Caldarelli nella nota metodologica – venendo criticato, o fatto bersaglio di satira, ma occupando il centro della scena.

 

La campagna di Bersani ha invece scommesso che, senza errori clamorosi, il vantaggio di partenza del Pd sul Pdl si sarebbe forse eroso, ma lasciando il partito in vantaggio alla Camera e, al Senato, con un pacchetto di voti in grado comunque di governare in alleanza di centro-sinistra con Monti, Casini e Fini. La rete incoraggia questa settimana la scelta di Bersani, più di quanto non sembrava fare 7 giorni fa. Allora la presenza del leader Pd al Sud risultava inferiore a quella di Berlusconi e Grillo, oggi – online potete cliccare su regioni e province e ottenere la forza online dei leader nella vostra città – Bersani cresce in Sicilia, Campania, Basilicata e Calabria. 

Vari dirigenti e analisti vicini al Pd hanno impegnato gli account twitter, Filippo Sensi vicedirettore del quotidiano Europa con @nomfup e Tommaso Giuntella con @3OOspartani per attivare l’attenzione della rete, spesso con ironia, polemizzando con i popolari tweet @beppe_grillo. I risultati sembrano buoni al Sud, Bersani mantiene le posizioni in Piemonte, Liguria e Lombardia, più indietro Friuli, Veneto, Trentino.

 

Le mappe indicano come Berlusconi macini bene nell’opinione politica, guardate la forte presenza a Roma, sede di giornali, tv e blog, sempre a Nord e in crescita in Puglia e Val d’Aosta dove era in difficoltà. Monti conferma la performance della settimana passata, molto citato a Roma e Milano, sedi del dibattito politico-economico, meglio, ma non bene al Sud. Grillo è sulla rete leader nazionale, capace di parlare ad ogni piazza digitale: l’esame città per città conferma che la crociata online del consigliere 5 Stelle Casaleggio funziona. Record di citazioni a Roma e Parma, dove è sindaco il grillino Pizzarotti. Potete controllare sulle mappe online Tycho-La Stampa come si batte l’ex attore nella vostra città.

 

Questa settimana Tycho propone una novità sulla quale gli spin doctors, che consigliano i leader negli ultimi giorni di campagna, si romperanno parecchio la testa. Indichiamo per ogni candidato premier gli hashtag, le raccolte di commenti su twitter collezionate dal simbolo #. È possibile cosí individuare in che contesto vengano citati Monti, Berlusconi, Bersani o Grillo, e intuire, con una certa approssimazione, perché.

 

La prima indicazione riguarda il nesso tv-internet, che fa del televisore piazzato in tinello uno strumento interattivo come il più sofisticato tablet. Ieri, quando Grillo ha annunciato su twitter di avere cancellato l’intervista a Sky la rete è esplosa in commenti, spesso negativi su 5 Stelle. Gli hashtag che concernono Berlusconi e Bersani citano sempre #agorarai e #tgla7 perché il conduttore di Agora e direttore di Rai 3 Vianello, come il direttore di La 7 Mentana, usano twitter per lanciare i propri programmi. Nel 2013 non esistono old e new media: l’arena mediatica è una.

 

Altre correlazioni segnalano #Finmeccanica, vicenda spesso legata a Berlusconi e al leader della Lega Nord Maroni, #Fisco che resta chiave per il Pdl, mentre su Bersani militanti e avversari litigano a proposito di #Ilva #tangenti e #Grecia. Il caso Monte dei Paschi non dilaga online, ma cliccando sulle mappe di Siena vedrete un alto volume di dibattito. Grillo domina con l’hashtag #Tsunamitour il suo grido di guerra, e con un sonoro #piazzapulita. Quanto a Monti si considerino i temi #scuola #Lega #Sel #Obama e #Grecia: tradotto, come si schiererà dopo il voto, e quanto peso ha il suo aplomb internazionale nella campagna?

 

Esaminate, sul sito www.lastampa.it, le relazioni online fra i leader. Vedrete che il bipolarismo ventennale Prodi-Berlusconi è diventato un poker Bersani, Berlusconi, Grillo, Monti, dove i candidati Pd e Pdl occupano il centro della scena e il fondatore del 5 Stelle sembra, fin qui, prevalere sul premier, i 4 Moschettieri della rete Italia 2013. Ma se con pazienza cliccherete sui vari incroci (più largo è il link tra due leader, più numerose le citazioni di coppia) scoprirete tanti affascinanti luoghi politici della nuova politica: i simpatizzanti di Giannino dialogano con gli elettori del Fli di Fini; il sindaco di Firenze Matteo Renzi, che ha condotto una campagna in sordina, resta collegato con forza a Bersani e spesso opposto come rivale futuro a Berlusconi. Infine Torino e il Piemonte: l’esame dei dati in Regione conferma un sabaudo «esageruma nen», esaminate la vostra città in diretta, ma la capitale Torino assegna, disincantata, attenzione «bassa» a tutti i leader.

 

Twitter @riotta 

@tychobigdata 

da - http://lastampa.it/2013/02/18/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/le-parole-e-le-priorita-che-decideranno-la-volata-5Tws6xFhW4V85ZLyV9CQ6K/pagina.html
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« Risposta #79 inserito:: Febbraio 20, 2013, 11:21:57 pm »

Editoriali
20/02/2013

Le parole di fiducia che ci servono

Gianni Riotta

Siamo tutti molto critici sui leader del nostro tempo. Obama ha deluso, la Merkel non è Adenauer, Hollande e Cameron la pallida copia di Mitterrand e Lady Thatcher. Quando poi guardiamo in casa, che nostalgia di De Gasperi, Moro, La Malfa, Berlinguer, Malagodi davanti alle delusioni presenti. 

 

L’incapacità della scorsa legislatura di riformare la legge elettorale e contrastare la corruzione ha invigorito il Movimento 5 Stelle. Beppe Grillo sarà forte nel prossimo Parlamento e, passato l’entusiasmo del «tutti a casa!», proverà a stoppare ogni provvedimento come va già facendo in Sicilia.

Di questo doloroso stato di cose possiamo, volendo, accusare «la classe politica», dimenticando però che in democrazia siamo noi ad eleggerla. E fingendo di dimenticare che, a non dimostrarsi all’altezza, è l’intera classe dirigente, imprenditori, sindacati, uomini di cultura, media, accademia, manager, finanza. Non c’è categoria che non annaspi davanti al futuro, tra scandali, clientele, omissioni, difesa di privilegi e status quo.

 

Può sorgere allora il dubbio che i leader «deboli» della nostra generazione siano invece frutto di un Paese che ha perduto valore condiviso di comunità. Nel cuore della Guerra Fredda, lo scrittore Guareschi riusciva con facilità a far intendere il prete Dc Don Camillo e il sindaco comunista Peppone, sulla Patria, la Prima Guerra mondiale, il Presepe, il Calcio, i valori rurali della Bassa contro «i signorini della città». Chiunque vinca le elezioni domenica stenterà invece a trovare il tono giusto per comunicare con gli italiani: e la stessa difficoltà logora Cameron, con Londra che vuole lasciare l’Europa e la Scozia che vuole lasciare Londra, Rajoy, sotto il 10% nei sondaggi e con la Catalogna pronta alla secessione, Hollande di cui i francesi sono delusi come delusi, subito, furono di Sarkozy.

 

In Italia e in Europa una popolazione, sempre meno giovane, guarda al passato, gli anni del boom economico, della liberazione sessuale, della pace, con nostalgia personale e politica. Alle urne impugna la propria amarezza mentre i giovani, morsi da crisi e disoccupazione, non hanno né i mezzi per innovare come i coetanei d’America, né l’entusiasmo per creare un movimento politico.

 

Ma l’amarezza non paga in politica o nella vita. Guardate alle elezioni per la Casa Bianca dal Novecento in avanti, sempre il candidato con il messaggio più ottimista prevale sul rivale cupo. A torto o a ragione, vogliamo sentire dai nostri leader parole di fiducia. Si cita spesso il «Sangue, sudore, fatica e lacrime» di Churchill come esempio di leader capace di esporre le difficoltà al Paese: ma sbagliando, perché Churchill era in quel 1940 super ottimista col messaggio di resistenza, mentre i colleghi pessimisti, Chamberlain e Halifax, volevano arrendersi subito a Hitler.

 

C’è dunque un «comune discorso positivo» che il prossimo governo possa avviare dentro e fuori dal Parlamento oltre «lacrime e sangue»? Se i sondaggi saranno confermati il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, dovrebbe avere una maggioranza alla Camera, con circa il 35% dei suffragi, contando al Senato sull’appoggio del premier Monti con Casini e Fini. Berlusconi, a venti anni dall’esordio in politica, ha ancora un blocco sociale intorno al 25% con la Lega Nord, a riprova che il suo non è stato movimento di «plastica». Quanto a Grillo, il boom 5 Stelle è monito contro chi troppo a lungo ha nascosto la corruzione, ma le tossine populiste e l’intolleranza rischiano di deludere gli elettori e creare ostruzionismo.

 

Il dialogo potrebbe nascere allora sulle riforme. In campagna elettorale nessuno ha parlato di riforme come un bene, il Paese è nervoso, troppi temono che tecnologia, ricerca, nuovo sapere digitale siano giochi snob proibiti ai senza lavoro. E’ un mito falso che farà danni terribili. Per mantenere lo sviluppo del Nord e crearlo al Sud, perché una generazione non resti disoccupata a vita, la sola strada è innovare. Pensate ai tagli della spesa pubblica necessari contro il debito: se inflitti cancellando investimenti eliminano lavoro e spaventano. Se la spesa si riduce con maggiore efficienza di pubblica amministrazione, scuola, aziende, burocrazia ecco una riforma efficace e indolore, su cui da tempo lavora l’economista Rogoff.

 

Bersani sa che una manovra fino a 13 miliardi di euro incombe sul 2013. Sa che indebitarsi non è strada percorribile, ma sa anche che il «New York Times» liberale e l’austero commentatore del «Financial Times» Martin Wolf definiscono «perversa» la filosofia dell’Unione Europea di tagliare spesa e fare un totem del bilancio, nel mezzo di una recessione con milioni di disoccupati.

 

Le riforme vere, non quelle dei petulanti che in nome della purezza liberista spaventano la gente, sono nel XXI secolo ormai al di là della lite Stato-Mercato. Lo Stato facilita scuola ricerca e start up e sostiene i lavoratori che non hanno il sapere necessario nel presente, il Mercato promuove innovazione e diffonde tecniche, per esempio printer 3D e produzione digitale, utili in un Paese di piccole imprese. In due generazioni, grazie alla tecnologia, in Sud Corea si è passati dalla fame al benessere: perché non in Sicilia, in partenza assai meno arretrata?

 

Parlare agli italiani, frustrati da vent’anni di polemica e governi deboli, di riforme per crescere, non per tagliare teste, darà al prossimo premier una chance di ascolto. La usi: e chiunque sarà all’opposizione dia una mano, perfino Grillo se non vorrà passare alla storia come il nuovo Guglielmo Giannini.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/02/20/cultura/opinioni/editoriali/le-parole-di-fiducia-che-ci-servono-q65hVABsYXJdYFNGMn5dtM/pagina.html
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« Risposta #80 inserito:: Marzo 03, 2013, 05:21:33 pm »

Editoriali
03/03/2013

Italia e Usa, perché serve il compromesso

Gianni Riotta

La politica del dopoguerra, dal 1945 in poi, in America come in Europa, tra i conservatori e i repubblicani, come tra i socialisti e democratici, ha fondato il governo sullo sviluppo, la spesa pubblica. Ogni generazione doveva avere uno standard di vita migliore della precedente e più servizi sociali, senza che le tasse pesassero oltre modo. Quando la recessione stringeva la corda, i leader trovavano un’intesa, quasi sempre appesantendo il debito futuro e si andava avanti.

 

Come l’economista Nobel Paul Krugman previde nel 1989 e come gli studiosi Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff confermano per il futuro prossimo, questa leva s’è bloccata e non tornerà. Il welfare va ricalibrato su una popolazione in cui gli anziani e i bisognosi crescono, il debito incalza e le tasse non possono salire senza ondate di populismo alle urne. Lo si potrebbe fare con la tecnologia, ma servirebbe un progetto Stato-Imprese-Università che la politica non ha la forza di disegnare e gli imprenditori non hanno la visione di rivendicare. 

L’austerità fine a se stessa, stringere la cinghia fino a trasformarla in cappio, non persuade più i cittadini. Illudersi di dribblare la crisi spendendo come se fossimo ai tempi beati di American Graffiti e della Dolce Vita però farebbe si che il film dell’orrore prevalga subito su dramma e commedia.

 

Populisti, comizianti da talk show, comici delle gag politiche avranno dunque un anno d’oro negli Usa e in Italia e budget in rialzo. Al resto di noi, a chi non ha un lavoro, a chi vede languire la propria azienda, chi sente la sudata pensione diluirsi, chi non ha i soldi per portare la figlia dal dentista, servirebbero, a Washington e a Roma, un governo e un parlamento dove i leader rivali studiassero accordi e compromessi (nobile parola, viene da «promessa condivisa», non insulto volgare) per il bene comune. E servirebbe che, una volta siglato l’accordo, sui giornali, in tv, nel tumulto del web, le voci di ragione e tolleranza, con passione, coraggio e senso dell’humor, isolassero il rancore rancido di chi ingrassa distillando odio, intolleranza, sarcasmo.

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da - http://lastampa.it/2013/03/03/cultura/opinioni/editoriali/italia-e-usa-perche-serve-il-compromesso-KOqsTCqVGZarYm6cUe9dOJ/pagina.html
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« Risposta #81 inserito:: Marzo 07, 2013, 05:24:24 pm »

Editoriali
07/03/2013

Venezuela, la finta democrazia

Gianni Riotta

La folla che ha accompagnato il feretro di Hugo Chavez, i militanti che hanno subito aggredito gli studenti democratici «siete contenti ora che è morto?», gli intellettuali che piangono l’ultima icona nemica degli «yanquis» americani, riconoscono nello scomparso presidente del Venezuela un «combattente contro la povertà». 

 

E senz’altro, nella carriera che lo ha portato da recluta dell’esercito a condannato a due anni di carcere per un golpe fallito, a leader del Paese e bandiera populista nel mondo, l’attenzione ai derelitti delle periferie è fulcro della popolarità di Chavez. Rilanciata dalla sua fantastica retorica da comizio, la capacità di attizzare il risentimento popolare contro Usa, ricchi, dissidenti con insulti fantasiosi, «apátrida», senza terra, bastarda, «escuálido», squallido, «pitiyanqui», americano formato tascabile. 

 

Indirizzando nei quartieri popolari un po’ dei profitti del petrolio di cui il Paese è ricchissimo, Chavez ottiene il consenso di tantissimi, maturato poi in ammirazione formidabile, alla Peron in Argentina: un leader, spesa pubblica sfrenata, folla adorante. Se l’opposizione democratica, rappresentata alle ultime elezioni dal governatore di Miranda Henrique Capriles, tornasse al potere non potrà dimenticare i quartieri popolari chavisti: altrimenti un Paese spaccato a metà, finirà per scontrarsi con se stesso.

 

Davanti al Venezuela del Comandante Chavez tante star, il regista Oliver Stone, l’attore Sean Penn, il linguista Noam Chomsky, hanno visto solo il macho che tiene duro contro George W. Bush, sconfiggendo un golpe dopo averne progettato uno, l’amico di Gheddafi in Libia, Castro a Cuba, Ahmadinejad in Iran. Un populista che leggeva da giovane i romanzi di Gárcia Márquez e sognava di essere un liberatore come Simon Bolivar. Per tanti, nelle casupole del Venezuela e nelle università europee e americane, questo era Chavez. Basco da parà, camicia rossa, due o tre ore di sonno al giorno, comizi perenni, carisma emozionante.

C’è però «l’altro» Hugo Chavez, censurato dalle cronache commosse. Il Chavez che impone a tutte le tv i propri, infiniti, discorsi. Il Chavez che licenzia 19.000 lavoratori del Petróleos der Venezuela perché hanno osato scioperare senza permesso. Il Chavez che impone un suo «lodo» per togliere autonomia alla Corte Costituzionale e cambia le regole elettorali pur di conservare la maggioranza di deputati all’Assemblea Nazionale.

 

L’imponente spesa pubblica, una sorta di Cassa del Mezzogiorno lubrificata dal petrolio, gli fa vincere le elezioni e oggi lo fa rimpiangere a tanti cittadini. Ma spaventa e costringe all’emigrazione i migliori professionisti del ceto medio, dottori, ingegneri, docenti universitari e fa crollare investimenti e fiducia, tra nazionalizzazioni sfrenate e corruzione. Appalti, progetti locali, finanziamenti ad aziende, niente in Venezuela si muove se la macchina politica chavista non riceve le sue mazzette. La corruzione è rampante, e chi non fa parte dei clan deve andarsene. Giornalisti, intellettuali, politici, imprenditori, studenti dissidenti hanno vita dura.

 

Malgrado l’immensa ricchezza del petrolio il Venezuela è in panne economica. Moises Naim, ex ministro a Caracas e direttore di Foreign Policy, osserva che il Venezuela ha «uno dei deficit fiscali maggiori al mondo, alto tasso di inflazione, valuta in pessimo stato nei cambi, un debito che cresce come nessun altro, crollo della produttività, inclusa industria petrolifera. Cadono gli investimenti, sale la corruzione. Un leader arrivato al potere con la promessa di eliminare gli oligarchi e scandali, è circondato da quelli che in Venezuela si chiamano boliburgueses, casta di dirigenti chavisti, familiari, clienti che hanno ammassato enormi patrimoni in affari loschi col governo».

 

Davanti a queste critiche la risposta è spesso «Chavez è stato eletto, no?». E’ una prospettiva – non importa se presa in buona fede o con malizia - che non vede quello che sarà il lascito più duraturo di Chavez, anche quando, speriamo al più presto, il Paese ritroverà equilibrio politico, sociale ed economico. Un regime dove di «democratico» c’è solo il rituale plebiscito elettorale, spento poi nel conformismo autoritario ogni dibattito, dissenso, dialogo. Un neopopulismo rilanciato nelle piazze, in tv e nei social media dove il leader salta mediazioni e controlli, ignora o umilia la stampa locale, flirtando con i media internazionali. Un modello ibrido, dove si vota per il capo ma poi lo si lascia lavorare in silenzio, dove per i poveri non si creano scuole, sanità, istruzione, lavoro, promozione sociale, ma li si droga di sussidi che ne alleviano le pene, legandoli però al boss locale del partito. Un modello che funziona in Iran, in Russia e che ha funzionato, grazie al petrolio e alla personalità di Hugo Chavez, a Caracas. Una malattia diffusa della democrazia del XXI secolo di cui speriamo il Venezuela guarisca, ma a ben guardare a cui nessun Paese è immune e che la crisi economica, il malcontento e la disoccupazione possono presto rendere, ovunque, epidemia perniciosa.

 

Gianni Riotta Twitter @riotta

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« Risposta #82 inserito:: Marzo 09, 2013, 11:38:33 pm »

Elezioni Politiche 2013
09/03/2013

Lo tsunami delle urne “I giornali sotto accusa”

Social network contro gli organi di informazione: incapaci di raccontare la realtà delle persone

Ma è andata davvero così?

Gianni Riotta
New York


Se chiedete nella redazione di un giornale, o al bar della piazza di paese, «Da dove vengono i guai della stampa?» la risposta tuonerà «da internet». Come tanti luoghi comuni, però, anche questo va in pezzi confrontato con la Maestra Realtà. Sapete infatti qual è l’anno record delle tirature dei giornali negli Stati Uniti? Il 1974, ben venti anni prima del web. 

 

In Italia, ancora a metà degli anni ’80 cioè venti anni prima del boom web di casa nostra, i giornali aumentavano di pagine e influenza.

Non dal web nasce la rivoluzione nell’informazione. Il mutamento è la fine della società di massa del XX secolo, impiegati, imprenditori, studenti, casalinghe, operai, contadini, soldati, destra, sinistra, cattolici, ceti o gruppi di opinione omogenei tra loro, che potevano leggere lo stesso editoriale, la stessa inchiesta, con soddisfazione condivisa.

 

Quando, dopo 1968, Concilio Vaticano II, declino della catena di montaggio, femminismo, scuola dell’obbligo, va in pensione «l’uomo a una dimensione» deprecato dal filosofo Marcuse, ogni cittadino si scopre con gusti, idee, curiosità, bisogni, interessi variegati, diversi. Per quasi vent’anni non c’è ancora un mezzo che soddisfi questo caleidoscopio di opinioni poi arriva il web.

 

La stessa analisi fotografa il ruolo dei giornali durante le elezioni italiane 2013. Molti osservatori, in buona fede o con malizia, assimilano l’informazione alla decadente Casta, incapace di anticipare l’umore dispeptico del paese. Se dai siti dei giornali populisti, o dal popolare blog di Beppe Grillo, si denunciano i giornalisti come «venduti», «maiali», più raffinati suggeritori insinuano che non ci sia più bisogno di un professionismo dell’informazione, basterà accedere al grande e fantastico del web per redigere, in proprio, la prima pagina del MarioRossiTimes o della GazzettaCarlottaBianchi.

 

È davvero cosí? Fino a un certo punto. La stampa italiana ha coperto il voto 2013 secondo antiche tradizioni e filosofie, molto schierata in alcuni settori, obiettiva in altri, con la novità dei siti online. È vero che i sondaggi hanno dato una dimensione minore al boom di Grillo, ma è sempre difficile calcolare il voto di una formazione debuttante e fuori dal campione. Sugli altri partiti son stati precisi.

 

Chi si ostina a vedere una trincea irta di filo spinato tra old media e new media, giornali, tv e web non coglie la realtà integrata del nostro mondo. Grillo ha reinvestito online la vecchia popolarità degli show tv. Twitter rende Agora, Porta a Porta, Ballarò, Sky, interattive come un sito, si guarda e commenta. Un metodo di lavoro che La Stampa ha impiegato sui Big Data con il progetto Tycho-Imt. È la riedizione del classico lavoro del cronista, suola di scarpe e parlare casa per casa con la gente, moltiplicato dalla potenza dei dati che si possono raccogliere in massa sul web con algoritmi, reti da pesca di opinioni e idee. Il silenzio sui candidati minori, la mancanza di scintilla nel centro di Monti, il veleggiare senza impeto di Bersani, la spallata di Berlusconi dopo il no all’Imu, sono stati tutti colti con precisione.

 

I dati Tycho-La Stampa hanno colto lo tsunami di Grillo, ma al tempo stesso anticipato il suo dilemma strategico futuro: il 25% è consenso con la piattaforma online del 5 Stelle o invece sprezzante no agli altri partiti? La seconda risposta sembra corroborata dall’alta frequenza con cui Grillo è citato dalla sua, appassionata, base militante ma dagli scarsi rilievi con cui interagisce invece nella discussione con gli altri partiti. Un voto Findus, compatto ma congelato in se stesso se Grillo e il suo braccio destro Casaleggio non decideranno infine di «far politica».

 

Ancor meglio i dati parlano se confrontati con il territorio. Come dimostrano i calcoli dei flussi del professor Roberto D’Alimonte per il Cise, è stato il Sud, in particolare Campania e Puglia, a toglier fiato al Pd, negandogli la vittoria. E sulle mappe regionali Tycho-Imt (www.lastampa.it) il Pd al Sud stentava molto, in Puglia non riuscendo neppure a passare la soglia minima delle citazioni. Visualizzazione dati di una sconfitta annunciata.

 

I dati cantano dunque, ma i dati vanno analizzati, ponderati. Uno studio del Journal of Computer-Mediated Communication dimostra come i «troll», i calunniatori online, i sarcasmi di chi commenta nichilista in fondo agli articoli, danneggino la credibilità dei loro obiettivi in modo grave e imprevisto. Napolitano, Benedetto XVI, il Papa, Rita Levi Montalcini, nessuno è immune all’acido della perfidia online. Un pericolo che induce il pioniere del web Jaron Lanier, nel suo nuovo libro «Who owns the future» (chi possiede il futuro?) a temere che l’informazione libera finisca in mano a pochi grandi monopoli punzecchiati dai troll che alla lunga elimineranno, come pulci su un elefante.

 

Un destino malinconico ma non obbligato. Se, come ha già cominciato a fare sperimentalmente nel 2013, la stampa impugnerà rete e dati per informare, i risultati saranno sorprendenti. A un seminario della Scuola di Giornalismo alla Columbia University, durante la recente Social Media Week, Amanda Zamora e Blair Hickman hanno parlato di callout, inviti diretti alla rete a dire la propria nel corso di un’inchiesta, sulle case fatiscenti, la scuola che non funziona, la crisi finanziaria. Anziché intervistare le solite, poche, fonti, attingere a una massa larga di esperienze, storie, aneddoti, emozioni. Insomma, se guardate senza astio al voto 2013 possiamo dire che l’informazione ha davanti a sé un grande futuro: a patto, beninteso, di non avere paura del futuro, di amarlo, studiarlo, sperimentarlo.

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/03/09/italia/speciali/elezioni-politiche-2013/tsunami-annunciato-nelle-urne-la-protesta-IIssuIyeke7wt46FdIqZhM/pagina.html
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« Risposta #83 inserito:: Marzo 15, 2013, 06:33:36 pm »

Editoriali
15/03/2013

Aung, l’angelo caduto nell’inferno della realtà

Il premio Nobel da icona positiva a bersaglio di accuse e attacchi: un destino comune ad altri leader


Gianni Riotta


Non c’era icona più magnifica della signora Aung San Suu Kyi, dissidente e premio Nobel per la pace birmana, detenuta da una giunta selvaggia, figlia di un padre della patria, bellissima, simbolo per chi ha ancora a cuore sulla nostra Terra libertà e giustizia. Vederla lasciare gli arresti domiciliari, parlare al suo popolo, ispirare rinascita democratica e tolleranza è stata un’ora da ricordare. 

 

Ma, come tutti i simboli che tornano nella realtà, riprendono a fare politica fuori dal mito, nella vita comune, oggi la signora Aung San Suu Kyi è criticata, commette errori, vede la sua immagine corrosa nel vortice dei blog online, dei giornali. Sul sito prestigioso del Council on Foreign Relations lo studioso del Sud-Est asiatico Joshua Kurlantzick denuncia da mesi l’ipocrisia con cui la premio Nobel tace, minimizza, occulta la feroce persecuzione in corso nel suo Paese contro la minoranza musulmana dei Rohingya, un milione di esseri umani senza difese che vivono nella regione occidentale di Myanmar (l’antica Birmania) nello stato di Rakhine (già Arakan). 

 

San Suu Kyi ha invocato l’esercito contro di loro, ha negato di considerarli cittadini come tutti gli altri, non ha speso una parola per mitigare la violenza dei buddisti birmani contro i fedeli all’Islam. 

 

Ora arrivano accuse di finanziamenti controversi, di eccessiva scaltrezza nella trattativa politica, insomma il mito torna umano, fragile, imperfetto. Lesti gli avversari di un tempo si uniscono ai seguaci delusi: Aung San Suu Kyi è come tutti gli altri. Gli errori di oggi cancellano, sporcano, inquinano il coraggio e la sofferenza di ieri.

 

È il passatempo preferito, creare icone preziose e poi travolgerle nella furia della realtà. Il nuovo papa, Francesco, era ancora sul balcone di San Pietro a chiedere la benedizione della folla, prima dell’Urbi et Orbi, e già online circolavano polemiche per la sua condotta negli anni della dittatura militare in Argentina. Cronaca corretta e rigore storico lasciavano subito posto alla diffamazione garrula: il regista premio Oscar Michael Moore lanciava sul suo account twitter una «foto» di Bergoglio che porge la Comunione al sanguinario despota argentino Videla, salvo, 24 ore dopo, suggerire che non è autentica.

 

Vogliamo in copertina, in diretta tv, in homepage online, Angeli e aspettiamo golosi l’attimo in cui dichiararli Demoni. Ci sfugge, per ingenuità, ignoranza, malafede, che sono solo Uomini e Donne, capaci di gloria, di mediocrità, nefandezze. Ad Obama è stato dato un acerbo premio Nobel per la Pace che gli si rinfaccia adesso a ogni attacco di droni sull’Afghanistan. L’ex presidente della Federal Reserve americana Alan Greenspan era così riverito da avere una biografia chiamata «The Maestro»: ora non c’è studente di secondo anno di economia che non gli affibbi la responsabilità intera della crisi finanziaria. Così va il mondo nel 2013.

 

Delusi dalla realtà ci rifugiamo in una patetica ricerca di purezza assoluta, nel mondo o a casa nostra. Per chi oggi decide - deluso da anni di corruzione in Italia - di dar fiducia a Beppe Grillo e agli uomini delle sue 5 Stelle nulla riesce a intaccare il miraggio di perfezione dei suoi «giovani». Eccessi retorici, ingenuità politiche, investimenti opachi che agli avversari sarebbero contestati con furore vengono invece perdonati a propri leader. Un modello, del resto, che a centro-destra, da anni, è applicato all’ex premier Berlusconi, osannato dai suoi, mai studiato dagli avversari.

 

Nello sport non amiamo altro se non fischiare gli assi per cui ci sgolavamo ieri, nello spettacolo non c’è show più popolare di vedere la stella invidiata cadere nel fango. E’ sempre stato così, potrebbe obiettare il lettore: vero, questa meschinità fa parte della natura umana. 

 

Ma il mondo iperconnesso in cui viviamo impedisce ai leader ogni normalità. Churchill mandò lettere di adulazione a Mussolini fino a pochi giorni prima della dichiarazione di guerra nel 1940, pur di tenerlo neutrale. L’eroe pacifista Gandhi non esitò a incontrare il Duce, nemico dei suoi nemici inglesi. Roosevelt salvò l’America dalla crisi e il mondo da Hitler, ma internò, senza colpa, i civili giapponesi in California. Il mestiere di quei leader che definiamo «grandi» nei manuali di Storia sarebbe stato ancor più difficile in un’era con falangi di petulanti frettolosi - alla Moore - ad attaccarli via web ad ogni istante.

 

Le critiche alla signora Aung San Suu Kyi sono fondate, il suo comportamento non è purtroppo all’altezza della fama e del rispetto di cui gode. Speriamo presto si ravveda e capisca che i diritti umani per cui tanti si sono battuti in suo nome non conoscono ragione «politica», e vanno sempre affermati, quando conviene e quando non conviene alla propria fazione.

 

Nel frattempo però, in Italia e ovunque, smettiamo di incensare i leader del momento ebbri di fede, studiamoli, vediamone luci ed ombre, accettiamone con serietà limiti umani, contraddizioni, errori, incertezze. Accettiamo che torti e ragioni non stanno mai solo dalla nostra parte. Non solo capiremo tutto meglio: ci eviteremo domani una precipitosa umiliazione quando gli Angeli, che senza logica avevamo posto in Cielo, cadranno come Demoni grotteschi nell’Inferno della Realtà.

 

Twitter@riotta 

da - http://lastampa.it/2013/03/15/cultura/opinioni/editoriali/l-angelo-caduto-nell-inferno-della-realta-HROyhDJlQedZa2njwCfzRM/pagina.html
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« Risposta #84 inserito:: Aprile 16, 2013, 02:57:47 pm »

Editoriali
16/04/2013

Non si tratta solo di eleggere un presidente

Gianni Riotta


In 48 ore il Partito democratico gioca una partita che peserà a lungo sul futuro italiano e che, altrettanto a lungo, determinerà l’identità del Pd, la sua strategia, il suo modo di esistere. 

Molti dei nomi che circolano in queste ore per il Quirinale, per la successione del saggio presidente Napolitano, sono di politici perbene, dagli ex premier Prodi e Amato, all’ex presidente del Senato Marini, alla senatrice Finocchiaro. 

E  anche nella lista dei nove prescelti da Beppe Grillo e dai suoi militanti M5S, tra giuristi come Rodotà e Zagrebelsky e lo stesso Prodi, si nomina Emma Bonino, apprezzata ex Commissario Europeo.

 

Ma come sa bene il segretario Bersani, il nome che il Pd dovrà indicare al Parlamento ha una doppia importanza. L’uomo, o la donna, che andrà al Quirinale rappresenterà l’Italia in sette cruciali anni in cui l’Europa diventerà nuova comunità politica, dovrà ritrovare in Patria dialogo e sviluppo, ma soprattutto darà – al di là delle sue intenzioni - il segnale per un possibile governo a quasi due mesi dal voto.

Nell’indicare un Presidente, il Pd sceglierà che partito essere. Ogni formula è legittima, ma la rotta presa non si invertirà senza fatica. Rompere con il centro-destra, non con Silvio Berlusconi o il suo Pdl ma con la comunità di cittadini che vota a destra, bocciandola come «non democratica», implica un Pd militante, sintonizzato sugli umori di base e iscritti, meno su quelli degli elettori, favorevoli a intese parlamentari per sbloccare lo stagno, minaccioso in crisi economica.

 

I giornali indicano in Romano Prodi il candidato che incarnerebbe questa scelta per il Pd, lettura paradossale visto che Prodi, tecnocrate cattolico raziocinante, ha vinto le elezioni contro Berlusconi nel 1996 e nel 2006 proprio con i voti centristi, perdendo poi il governo per i capricci della sinistra radicale.

L’altra scelta è riconoscere, con pragmatismo, la situazione di arrocco del 24 febbraio, prendere atto dei no irridenti di Grillo e Casaleggio e fare quel che i padri del Pd, la vecchia Dc e il vecchio Pci, dal 1946 al 1994 tante volte hanno fatto, rinunciare agli slogan e lavorare nella realtà. Per i militanti che si sono sacrificati con entusiasmo potrebbe non essere gratificante, per i cittadini che vedranno un governo che mette mano all’economia, finalmente, sarebbe una preoccupazione in meno.

 

In questo caso il candidato favorito dai media sarebbe Giuliano Amato, e anche qui non manca il paradosso, visto che a guardare a tanti voti cattolici e moderati sarebbe chiamato un laico rigoroso (malgrado una sensibilità seria sull’aborto), l’ex direttore del Centro Studi della Cgil, un uomo della classica sinistra europea.

Il doppio paradosso, in realtà, non ha ragion d’essere, arrivati al Quirinale i candidati responsabili, da Prodi ad Amato, sanno di dovere guardare all’interesse nazionale e lo faranno. La scelta strategica di Bersani e dell’intero Pd è dunque, più che il nome, che «mandato» dare all’eletto, e in che direzione cercargli una maggioranza. Per un governo largo, sia pure a tempo, o per un governo che viva, come in Sicilia, con le mance di Grillo?

 

Il Pd è il partito che con più forza ha pagato prezzo al sacrosanto rinnovamento della politica e alle sue code populiste. Veltroni e D’Alema, che sono stati rispettivamente il software e l’hardware dei partiti nati dal Pci, hanno rinunciato al Parlamento. Alla Camera e al Senato sono andati due non dirigenti Pd. In campagna elettorale non una parola è stata spesa contro Grillo, nell’illusione che M5S mordesse Berlusconi, mentre dissanguava il Pd. Molti grillini, dice lo studio dei flussi elettorali di D’Alimonte e Mannheimer, hanno votato Berlusconi nel passato, il suo braccio destro Casaleggio si candidò perfino in una lista fiancheggiatrice, la loro ostilità va alla «Kasta», non alla Destra.

 

Il Pd sta decidendo in queste ore come toccava un tempo alla Dc, chiamata ogni sette anni a dare, o lasciar passare, un nome per il Quirinale. Da questo nome vedremo quanto «forza di governo» è oggi, quanto capace di «egemonia» politica e culturale, nel senso dettato dal fondatore del Pci Gramsci. Gramsci sapeva che in politica si è «egemoni», non quando si persuadono gli iscritti al partito, ma quando si porta in sintonia con le proprie ragioni chi è lontano, avversario. Gramsci studiava Machiavelli, distingueva politica, morale, propaganda e temeva il populismo.

 

Chiunque vada al Quirinale dovrà lavorare a un governo possibile o a elezioni senza caos. Perché, e qui forse la foga post voto qualche amnesia nel Pd l’ha aperta, i problemi italiani di non crescita, stagno economico, disoccupazione e perdita di peso internazionale (vedi caso India) restano interi. Chiunque vada a Palazzo Chigi dovrà combattere la disoccupazione e per farlo dovrà leggere il rapporto McKinsey Global Institute sul lavoro di marzo (integrale http://goo.gl/5uB0x ). I 40 milioni di disoccupati del mondo industriale pagano pegno alla tecnologia, che negli Usa ha cancellato 2.000.000 di posti tradizionali, creandone meno di 500.000, tutti però per personale qualificato. Dove il lavoro c’è, i lavoratori non hanno il sapere necessario: nel 2020 agli Stati Uniti mancheranno un milione e mezzo di laureati e 6 milioni di diplomati, in Francia oltre due milioni di laureati e due e mezzo di diplomati. Da noi la situazione peggiore. 

 

La sinistra italiana ha una lunga tradizione di lavoro sull’educazione dei lavoratori, dall’Umanitaria di Milano alle 150 ore dei metalmeccanici: la rispolveri per creare lavoro dove c’è nel mondo globale, non dove manca. Se Matteo Renzi, malgrado gli scatti che fanno arrabbiare qualcuno, piace agli elettori è perché dà l’impressione di volersi misurare con questa realtà, di non fermarsi a una sinistra industriale, ma di vivere in quella post industriale di oggi. Inutile dividersi se avesse ragione la Thatcher o no, se Blair è stato leader laburista grande o no. Quella stagione è finita, la sinistra deve saper vivere in un mondo con più robot e meno operai. Vedremo se il Pd sarà capace di questo salto perché stavolta, come cantavano gli Inti Illimani in un altro tempo: «Non si tratta solo di eleggere un Presidente…».

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/04/16/cultura/opinioni/editoriali/non-si-tratta-solo-di-eleggere-un-presidente-u3EvLLKJwo4bZcCeyy2BNP/pagina.html
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« Risposta #85 inserito:: Aprile 30, 2013, 11:29:38 am »

Editoriali
29/04/2013

L’ipocrisia che giustifica la violenza

Gianni Riotta


La sparatoria di Luigi Preiti che a Roma ha ferito gravemente - rischia la paralisi - il brigadiere dei Carabinieri Giuseppe Giangrande e colpito l’appuntato Francesco Negri e una passante incinta, non è la strage di via Fani del 1978 con la strage della scorta e il rapimento del presidente Aldo Moro. La Repubblica non è sotto scacco dei terroristi, il Paese è maturato. Ma il sollievo, dopo mesi di palude politica, seguito alla nomina di Enrico Letta e al giuramento del governo di larghe intese Pdl-Pd è stato subito cancellato e nuove ansie che si sono proiettate sull’opinione pubblica, provata da crisi economica e caos politico.

 

I ministri stavano ancora sorridendo nel solenne palazzo del Quirinale e davanti al vero regista del governo, il saggio presidente Giorgio Napolitano, quando le scene cui siamo purtroppo avvezzi, uomini in divisa a terra nel sangue, civili in fuga, cronisti con le telecamere Sky e Rai News e social media in diretta, ci hanno ricordato che il governo ha davanti tempi, e prove, terribili.

 

La Seconda Repubblica, nata dalla crisi dei partiti storici, ha avuto come pilastro centrale, sua vera Costituzione Materiale, l’impossibilità di ogni accordo tra Silvio Berlusconi e il centrosinistra. Ogni mossa in tal senso veniva denunciata, «tradimento!» o, con parola mal tradotta dal dialetto napoletano, «inciucio», dagli ultras di destra e sinistra e dai loro organi di informazione, ieri nei giornali, oggi sul web. Rendendo impossibile la normale dialettica parlamentare, le riforme indispensabili, in economia e nelle istituzioni, soprattutto da quando la crisi finanziaria più dura dal 1929 ha spazzato via il nostro modo tradizionale di produrre e lavorare.

 

Con il suo discorso al momento del secondo incarico, il presidente Napolitano ha incenerito quel pilastro di divisione e sciolto quel crampo ideologico e ha – davvero con frasi che passeranno nella storia italiana - richiamato alla realtà, oltre le idee e i giudizi diversi e sacrosanti delle parti. La realtà del risultato elettorale richiamava tutti, compreso Beppe Grillo e il suo M5S, a una collaborazione pur temporanea. Davanti al «no» di Grillo non restava che l’intesa Pd-Pdl. Enrico Letta, grazie alla disponibilità dei due partiti, ha creato un governo con molti uomini e donne eccellenti, che ha avuto plauso nel mondo.

 

Illudersi però che un discorso del Presidente, una lista di ministri, un premier giovane e una maggioranza di parlamentari che tornano a ragionare potessero, come d’incanto, dissolvere astio, rancore, risentimento, sfiducia che anni di corruzione, intolleranza, abusi e sfiducia hanno radicato sarebbe stato ingenuo. Chi sia Preiti, quali sentimenti e motivazioni personali o pubbliche abbiano armato la sua mano, lo sapremo dalle indagini. La reazione emotiva seguita al suo gesto e alla sua grottesca autodifesa «Volevo colpire i politici», invece, valgono quanto un’analisi dei Big Data sul web: confermano l’identikit di un’Italia divisa e amareggiata, che ha bisogno di un lavoro lungo, da parte del governo, degli intellettuali, dei media, dei partiti per ricostruire un tessuto condiviso di valori e interessi nazionali.

 

Ha fatto bene Beppe Grillo a dichiarare subito solidarietà ai Carabinieri, e meglio avrebbe fatto a non pubblicare, sul suo popolarissimo sito web, commenti farneticanti che rivendicano appoggio e comprensione al killer mancato Preiti «dovevi sparare ai politici!». Di certo, oggi, dovrebbe duramente rampognare i suoi militanti, tra cui un improvvido consigliere torinese, che fanno campagna sul «colpire nel mucchio» gli avversari. Otto milioni di elettori Cinque Stelle non meritano di vedersi coinvolti nella violenza.

 

La classe dirigente italiana tutta, politici, imprenditori, media, cultura, sindacato ha mancato in questi anni di governare il Paese, privandolo di fari morali, innovazione, sviluppo. Napolitano, memore degli anni seguiti alla guerra, quando insieme i nostri padri ricostruirono il paese, pur tenendo vivo un vivacissimo dibattito in Parlamento e nelle piazze, non ha chiesto di cancellare idee diverse e diverse agende, e neppure ha proposto ai giornalisti di fare da agenti stampa del governo. Ha detto quel che l’ammiraglio Nelson segnalò con l’alfabeto delle bandiere, ai marinai della sua flotta alla vigilia della battaglia di Trafalgar, 1805: «L’Inghilterra si aspetta che ciascuno di voi faccia il suo dovere». Niente di più, niente di meno, tocca ora a noi, fare il nostro dovere.

 

L’hanno fatto certo ieri i carabinieri feriti a Roma, con i loro colleghi, che invece di crivellare di colpi l’attentatore rimasto senza cartucce in canna, come sarebbe accaduto in moltissime altre capitali in un giorno ad alta tensione, lo hanno arrestato senza un graffio, consegnandolo incolume alla giustizia. Prova professionale ed umana da Paese civile – rara, lo ripeto, anche per tante democrazie - di cui ringraziarli ed essere fieri.

 

Le malefatte della «Casta» non giustificano in alcun modo la violenza. Nemmeno ci servono a comprenderla, o ne attenuano la colpa: gli anni del terrorismo insegnano che questa velenosa ipocrisia distrugge il garantismo e nasconde alla fine complicità. Neppure ci serve imputare alla «Casta» ogni impotenza del nostro presente, siamo in 60 milioni di liberi individui, non siamo servi della gleba russi, anime morte di Gogol. L’Italia ha bisogno di lavoro, sviluppo, benessere, unità. Di dare uno stipendio a ragazzi che non l’hanno mai avuto, di usare il loro talento e la loro cultura frustrate e svilite. Non sono le pistole, non sono gli slogan di odio, non è il predicare che una parte sola, la «nostra» abbia il monopolio di etica e democrazia, che ci faranno crescere dopo una generazione di stagno.

 

Desideravamo vivere una domenica tranquilla intorno a Enrico Letta e ai suoi ministri, speravamo in un varo tra i sorrisi, non nel sangue. La storia ha voluto diversamente: ma l’immagine del brigadiere Giangrande riverso sui sampietrini di piazza Montecitorio, davanti al Parlamento cui la Costituzione Repubblicana affida la democrazia nel nostro paese, ci richiama a un dovere rinnovato. I ministri e il premier, i parlamentari tutti ma anche noi cittadini semplici, davanti ai quei sassi bagnati dal sangue di un uomo che lavora per difendere la nostra libertà, abbiamo un dovere semplice e aspro: fare insieme, ogni giorno, come Giangrande, il nostro dovere.

DA - http://lastampa.it/2013/04/29/cultura/opinioni/editoriali/x-MVe0v34catinKZp18sPG5K/pagina.html
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« Risposta #86 inserito:: Maggio 04, 2013, 03:42:52 pm »

Editoriali
04/05/2013

La Rete è lo specchio del nostro tempo

Gianni Riotta


La rete siamo noi, la nostra vita globale è online, come persone e come cittadini. I nostri affetti più intimi sono su Facebook, il nostro lavoro appare su LinkedIn, le nostre foto non vanno nell’album come una volta ma su Instagram. Leggiamo online, scegliamo online i nostri viaggi, online si matura il dibattito politico e culturale.

 

Dieci anni fa il mondo digitale ha cambiato la musica, cinque anni fa i giornali, presto toccherà alle università trasformarsi, programmi come i Moocs o Coursera costringeranno gli atenei a confrontarsi con l’istruzione via Internet. Papa Francesco è su Twitter, ieri la Cei si interrogava sull’evangelizzazione online in Italia con una relazione di Monsignor Pompili. Il finanziere e mecenate americano Warren Buffett arriva sui microblog di 140 caratteri, senza tweet non raggiunge ormai l’americano medio.

 

La rete è specchio del nostro tempo, realtà del XXI secolo. Ci parla di libertà e oppressione, ci fa stampare merci con i printer tridimensionali, ci fa perdere posti di lavoro nei settori tradizionali. Nessuno sfugge al suo onnipresente network. Regolare il web sembra dunque indispensabile, perché nessun Far West resta senza steccati, sceriffi e bounty killer per sempre. Ma regolare la rete senza lacerarla, appesantirla con i piombi di leggi e filtri che ci privino della libertà digitale non è semplice.

 

Ora la presidente della Camera Laura Boldrini riapre il caso «responsabilità e web» dopo le minacce razziste subite da siti squallidi e pericolosi. Rete aperta non può implicare - come troppi illusi e furbi predicano, per ignoranza o interesse - che ognuno possa, protetto dall’anonimato personale e di website, ricattare, calunniare, infangare, minacciare leader politici e semplici cittadini. Negli Anni Settanta l’informazione italiana impose ai giornali di pubblicare i bilanci, perché conoscendo la proprietà di una testata è più semplice distinguerne gli interessi. Nel web non è così, di influenti siti non conosciamo bilanci, sponsors, proprietà.

 

Questo è un tema - trasparenza delle testate - su cui lavorare. Il resto, come purtroppo la presidente della Camera scoprirà, è assai complesso. Il blocco delle leggi Sopa e Pipa in America, e il fallimento delle velleità Onu di «regolare il web» lo dimostrano. È ovvio che minacce di morte, ricatti, violenza negli slogan vadano messi al bando dalla rete, ma se ci provate in concreto vedrete che non è semplice come mettere il lucchetto al garage. Ieri due dirigenti del centrodestra, Maurizio Gasparri e Antonio Palmieri, hanno preso sul tema posizioni opposte, Gasparri d’accordo con la Boldrini – che pure è stata eletta con la sinistra -, Palmieri contro.

Perché non si tratta più di dialettica Destra-Sinistra come ai tempi dell’Illuminismo, ma di valutazione sulla natura delle Rete. A Gasparri Palmieri spiega che la Rete non «risiede» in Italia, in America o in nessun luogo, regolarla non è semplice. Perfino i cinesi, che hanno un sistema di censura sofisticato e costosissimo, non riescono a fermare i dissidenti, figuriamoci noi in democrazia con gli invasati.

 

La presidente della Camera, del resto, denuncia anche i paparazzi che inseguono sua figlia 19enne mentre corre in motorino mettendola a rischio, o i miserabili che cercano di fotografare suo fratello, autistico. Anche gli old media, purtroppo e non solo il web, pullulano di guai, arroganze, materialismi da quattro soldi. 

La tecnologia è, e resterà, più veloce del diritto. Le leggi sull’agricoltura e la sua proprietà ebbero millenni per regolare un settore che mutava pochissimo di generazione in generazione. L’industria classica ebbe un secolo, dallo sfruttamento dei bambini al welfare state, per trovare l’intesa con la legge. I primi giornalisti in Germania, dopo Gutenberg, vennero scuoiati vivi, e la loro carcassa impagliata e mostrata nelle fiere a monito contro l’informazione. Ci vollero secoli per una regola democratica ma alla fine arrivò.

 

Il web, che richiedeva prima un computer da tavolo, poi da borsa e oggi arriva in tasca con i cellulari, muta ogni sei mesi, i social media che scandiscono la nostra vita erano sconosciuti solo dieci anni fa. Oggi l’esercito israeliano e Hamas si insultano a vicenda su Twitter, portando l’odio in tasca a ciascuno di noi. Altro che Paradiso online!

 

Non è però il web a rendere feroci i siti, è la ferocia che c’è in giro ad animali. A Torino hanno inneggiato in corteo allo sparatore di Roma, come usava con le Br negli Anni 70 e allora il web non c’era. Una legge non fermerà il populismo violento, anche se, certo, chi minaccia online va punito: e fa male, molto, Beppe Grillo a illudersi di guidare la tigre della rete afferrandola per la coda e fingendo di credere che la Boldrini chieda censure. L’ex attore e oggi capo del M5S, che distruggeva un tempo i computer sul palcoscenico, si accorgerà presto che, scatenato, l’Apprendista Stregone non si riesce più a fermare.

 

Le leggi ci sono e si possono, lentamente, migliorare. Ma alla lunga la battaglia tra Tolleranza e Intolleranza, Equilibrio e Violenza, Ragione e Ricatto online la si vince su valori, argomenti, chiarezza, ideali. Il web non è arma del Male o Scudo del Bene: è il campo di battaglia tra Bene e Male, tra democrazia e populismo irrazionale. La repressione serve in casi estremi ma giorno dopo giorno ci serve una paziente opera di persuasione. Con l’umile consapevolezza che tanti lavoreranno contro e che, a guardare il web di oggi, non ci appare affatto un vincitore certo. Per vincere contro grassatori, razzisti, violenti online una legge non basta, servono intelligenza, forza d’animo e amore per la rete e la giustizia.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/05/04/cultura/opinioni/editoriali/la-rete-e-lo-specchio-del-nostro-tempo-KwJE02o2cx748jN2IelUxO/pagina.html
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« Risposta #87 inserito:: Maggio 20, 2013, 11:55:28 pm »

Editoriali
19/05/2013

Obama, l’eredità più forte degli scandali

Gianni Riotta


Brutti giorni per il presidente americano Barack Obama: i repubblicani lo accusano di non avere protetto l’ambasciatore ucciso in Libia con altri tre funzionari; il movimento conservatore dei Tea Party è furioso perché l’Irs, il fisco Usa, ha tenuto sotto mira i suoi finanziamenti; perfino la sinistra liberal, Guardia Pretoriana della Casa Bianca, lamenta un ministero della Giustizia ficcanaso sulle telefonate dei cronisti Associated Press. 

Ogni presidente nel secondo mandato è vittima di scandali, veri o presunti, con cui l’opposizione, e una stampa ridotta alla petulanza dall’incapacità di analisi e di critica serie, cercano di limitarne l’opera. Prima di Monica Lewinsky, Clinton e sua moglie furono martoriati su una speculazione in Arkansas, il caso Whitewater, di cui nessuno capì il senso. Reagan inviò una torta agli ayatollah in Iran, nella vicenda disgraziata Iran-Contras. Bush figlio fu crocifisso per l’alluvione a New Orleans.

I repubblicani esagitati chiedono addirittura l’impeachment, l’incriminazione davanti al Senato, contro Obama. 

Sarà dura, nella storia bisecolare della Repubblica solo due presidenti sono stati rinviati a giudizio, Andrew Johnson nel 1868 e Clinton nel 1998, entrambi prosciolti. La raffica di scandali serve a tenere il Presidente sotto scacco, paralizzare la riforma sanitaria, bloccare la legge sull’immigrazione, stopparne l’agenda per il ceto medio. 

Come reagirà la Casa Bianca? Fin qui Barack Obama, cerebrale, distaccato, amletico, è riuscito a eludere le critiche non di parte, sia in America che in Europa. Denunciato a destra come «socialista» e coccolato dai sostenitori «un vero liberal», Obama è invece solo un centrista moderato. Nei suoi libri incoraggia la fine dello scontro politico in America e rimprovera le minoranze per il culto del vittimismo. «Tiratevi su i pantaloni fratelli» e andate a lavorare dice severo ai giovani afroamericani. In politica estera, dopo il magnifico discorso del 2009 all’Università del Cairo Al-Azhar in cui promise di «Ricominciare» il dialogo con i musulmani salutandoli «Assalaamu alaykum», Obama ha ordinato più raid con i missili droni di quanti non ne siano partiti sotto «il falco» Bush figlio. I repubblicani hanno difficoltà a dipingerlo da sinistrorso perché Obama la pensa giusto come la maggioranza degli americani: via dall’Iraq, via dall’Afghanistan, Dio ci scampi dall’intervenire in Siria, colpiamo i terroristi senza mettere a rischio i soldati, con robot teleguidati. Che questa sia una posizione «liberal» sembra difficile da sostenere, ma il fascino del presidente funge da cosmesi politica.

I bombardamenti allontanano la fiducia delle popolazioni civili predicava già nel 1963, in un testo dimenticato, James Eliot Cross, «Conflict in the shadows», guerra nell’ombra: «L’aviazione è troppo veloce per le guerre “politiche”, non distingue il nemico combattente dall’uomo o la donna civile e innocente, nemmeno se i soldati si fanno riconoscere agitando i fucili. La perdita di consenso dei bombardamenti sui civili pesa più di qualunque successo contro i guerriglieri eliminati». Cross, massimo esperto di controguerriglia, parlava di Vietnam ma la sua massima pesa adesso su Obama. Al tempo stesso, però, come dipingere da «debole» un presidente che scaglia dalla Casa Bianca missili droni come Zeus le sue folgori dall’Olimpo?

È dunque probabile che il Presidente se la cavi, salvo imprevisti. È ormai assodata la sua incapacità di «far politica» in Congresso, raccogliendo i voti dei repubblicani – per esempio sul porto d’armi, riforma benemerita e fallita - con la pazienza e l’umiltà di Lincoln nel bellissimo film di Spielberg. Ma i suoi rivali irritati e i suoi sostenitori perplessi, finiscono insieme per perdere la cifra che la Storia assegnerà a Barack Obama. Il suo carisma non trova riscontro nelle riforme approvate, ma il Presidente – grazie alla comprensione razionale dell’America del XXI secolo, identificata via Big Data raccolti dai suoi collaboratori - ha cambiato natura alla politica Usa. Oggi il partito democratico ha l’egemonia sui ceti urbani modernizzanti delle due coste, tra le donne e spopola tra gli emigranti, futura maggioranza. L’ottusità partigiana relega i repubblicani nella condizione di partito di minoranza in cui i democratici hanno languito dal 1968 al 1988, vincendo in venti anni una sola volta, e male, con Carter.

Allora i democratici premiavano alle primarie i candidati radicali, finendo bastonati alle presidenziali dai centristi, ora lo stesso destino tocca ai repubblicani che, senza le ubbie dei Tea Party, controllerebbero anche il Senato.

Questa eredità storica Obama lascia non al Paese, ma al partito: una nuova coalizione sociale. La coalizione di F.D. Roosevelt tenne – con la parentesi centrista e moderata di Eisenhower - i democratici alla Casa Bianca dal 1933 al 1968 grazie a lavoratori, intellettuali, minoranze, sindacati. Obama raccoglie minoranze «quasi maggioranze», ceti tecnologici, donne, città. Nixon rigirò la bilancia e diede una generazione di egemonia centrista ai repubblicani del Grand Old Party con i bianchi del Sud e gli operai ostili al 1968: quanto ci vorrà perché i suoi eredi battano la destra estremista e tornino a dialogare con ispanici e donne emancipate? Secondo molti osservatori lo schieramento di Obama durerà almeno una generazione. Secondo me il pendolo Progressisti-Conservatori che lo storico Arthur Schlesinger considerava simbolo della politica americana non si muove più al ritmo languido di un blues di Ella Fitzgerald, ma alla frenetica cadenza del rapper Nas. Obama ne ha rivoluzionato lo spartito e sopravviverà ai guai di oggi. I repubblicani impareranno però infine a suonare la salsa ispanica, i brani di The Voice cari alle donne giovani e la musica rap dei neri. Per ora, alla Grande Orchestra America, il bastone da direttore resta in mano al Maestro Obama.

Twitter @riotta

da - http://www.lastampa.it/2013/05/19/cultura/opinioni/editoriali/obama-l-eredita-piu-forte-degli-scandali-TWrM9On3CSvDftT1il9oyO/pagina.html
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« Risposta #88 inserito:: Maggio 24, 2013, 11:18:39 am »

Editoriali
24/05/2013 - lo choc online

È inglese l’assassino che voleva restare nei video del mondo

Gianni Riotta


I passanti con i telefonini, la donna coraggiosa che cerca di distogliere i killer da ulteriori crudeltà, i cronisti che dai computer si collegano via radio in dirette immediate. Immagini che un tempo sarebbero state condensate in poche frasi strappate ai testimoni dai cronisti più svegli, diventano ora parte della nostra coscienza, orrore online.

 

Pensate alla grande strage dell’11 settembre 2001 a New York: rivedete l’aereo colpire la seconda Torre, l’incendio, gli sfortunati che volano dalle finestre, il crollo del vecchio World Trade Center, la nuvola di polvere che insegue i sopravvissuti Lower Manhattan. Sono immagini riprese dalle televisioni o scattate da fotoreporter professionisti, come il maestro Jim Natchwey.

 

Non vengono da smartphone, telecamerine portatili che ciascuno di noi conserva in tasca o nella borsa: oggi una strage, un attentato, un’emergenza trasforma impiegati e casalinghe in cronisti della storia. La social media editor del «New York Times» Jennifer Preston, la donna che sta pilotando il quotidiano più importante al mondo nel futuro, racconta di quando vide apparire su Twitter la fotografia del jet finito sul fiume Hudson: i fotografi del quotidiano erano ancora lontanissimi dalla riva e già un passante aveva fermato per sempre i passeggeri che, uno dopo l’altro, si allineavano salvi per miracolo sull’ala del velivolo a fior d’acqua. In un secondo la Preston capisce che frenesia del giornalismo e maestà della Storia sono cambiate, ogni evento è scolpito per sempre. Ad Atene si attendevano i marmi del Partenone, a noi basta un cellulare.

 

Ogni momento della nostra vita, il sorriso di un bambino, un piatto ben riuscito, la fine della partita a tennis, i dati del documento che ci scoccia ricopiare, vengono ormai registrati in immagine o video da smartphone. La Samsung promette perfino l’immagine doppia, che riprenderà insieme chi vogliamo fotografare e noi stessi, sovrapposti, un doppio occhio che avrebbe affascinato i grandi critici dell’arte fotografica, Walter Benjamin e Susan Sontag. Se possiamo avere sulla stessa foto nostro figlio e noi, il gol della squadra e il nostro urlo felice, la fidanzata che desideriamo e il ritratto del nostro desiderio, è purtroppo parallelo anche il doppio obiettivo sul male. Il grido di Allah U Akbar che gli assassini han lanciato è perpetuato ora su Google, YouTube, Twitter, Facebook i social. Un tam tam elettronico che non conoscerà freno, né oblio, preservato per sempre nei «cloud», i serbatoi elettronici di memoria collettiva.

 

I terroristi lo sanno, come lo sanno i killer solitari che prima di far strage nelle scuole americane si riprendono «dressed to kill», vestiti a morte. Nessuno potrà fermare questa Macchina della Verità Eterna e Globale in cui abbiamo scelto di vivere con regole o divieti. È nella natura umana, dai fregi primitivi sulle grotte di Lascaux ai graffiti metropolitani, ostinarsi a fermare la realtà con un segno. Chi vuol seminare morte e odio nel nostro Pianeta confida che il web sarà la sua velenosa ragnatela. Chi non smette di credere che la tolleranza e il dialogo siano più forti della mannaia insanguinata – come la donna che ha forse impedito altri morti oltre allo sfortunato Lee - ha invece nel web un alleato. Per esempio, rilanciando ovunque, anche nel mondo arabo, le parole sagge del premier inglese Cameron, che ha parlato di «tradimento dell’Islam» nell’agguato di Woolrich. La reazione di Cameron è quella giusta, fede nella democrazia, fede nella giustizia e nel diritto, ancora una volta new media e old values, mezzi di comunicazione nuovissimi, per preservare valori antichi e benigni.

 

Twitter @riotta 

da - http://lastampa.it/2013/05/24/cultura/opinioni/editoriali/inglese-lassassino-che-voleva-restare-nei-video-del-mondo-YfhAjQ6nHaW0E3S5ThLz4K/pagina.html
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« Risposta #89 inserito:: Giugno 07, 2013, 06:39:43 pm »

Editoriali
07/06/2013

Non evocate il Grande Fratello

Gianni Riotta


Capire bene la vicenda del traffico telefonico americano controllato sotto l’amministrazione democratica di Barack Obama, ci permette di intravedere non solo il futuro politico americano, ma anche la nostra vita quotidiana prossima.

La questione è semplice solo in apparenza: il quotidiano inglese The Guardian rivela che, da aprile, la Casa Bianca fa controllare la rete di telefonate della grande compagnia Verizon, grazie alla legge Patriot Act contro il terrorismo approvata ai tempi del repubblicano George W. Bush.

Non si tratta, guardatevi dall’errore diffuso, di tradizionali intercettazioni: le autorità dello spionaggio Nsa, National Security Agency, non ascoltano il contenuto dei dialoghi ma, connettendo tra loro le informazioni – in gergo metadata, dati sui dati - creano un identikit perfetto degli individui, delle loro relazioni, movimenti, affari e, nel caso dei terroristi, intrighi e trame.

Il presidente Obama ha ieri difeso la pratica sostenendo, tramite un portavoce, che né si ascoltano voci, né si schedano cittadini. Le organizzazioni di tutela della privacy, come l’Aclu, si ribellano, il Congresso si divide, qualcuno – come il National Journal - irride la «Casa Bianca Bush-Obama», sostenendo che, al di là della propaganda, tra bombardamenti con i droni, Guantanamo, controllo ai reporter Ap, inchiesta fiscale sui Tea Party, Grande Fratello Nsa, lo stile non è cambiato.

Il chiasso politico sarà forte, ma non dobbiamo farcene distrarre. La questione centrale è: opporre alla vicenda Casa Bianca - Nsa - Verizon un concetto primitivo di privacy, per intenderci precedente il web, la telefonia mobile e i social media, è come voler fermare le cascate del Niagara col secchiello da spiaggia. Una generazione fa si intercettava una telefonata per costruire un processo, registrando legalmente, o illegalmente. Oggi i dati esistono «comunque», già a disposizione delle compagnie telefoniche, informatiche, dei motori di ricerca. Le aziende li analizzano di routine e spesso non si tratta di dati carpiti in segreto, ma di informazioni che i cittadini rendono pubbliche volontariamente, via Facebook, Twitter, blog.

Chi è «padrone» di questi dati? Noi? Le aziende che ci offrono un servizio pubblico gratuito, Facebook, Twitter, YouTube, Google Gmail, proprio in cambio di notizie da rivendere ai pubblicitari? E se Verizon, un ospedale, una scuola, una biblioteca, Amazon, conservano dati a valanghe, non ha diritto lo Stato a controllarli per tutelare la nostra sicurezza? Non è l’analogo informatico delle umilianti perquisizioni cui ci sottoponiamo partendo in aeroporto? Fate attenzione alla differenza: non sono informazioni che occhiuti 007 collezionano di nascosto, sono dati già schedati dalle compagnie: è giusto o no contribuiscano a difenderci da attentati?

Ieri la Casa Bianca ha ribadito che il Patriot Act tutela i controlli Nsa e ha negato che l’intelligence conosca l’identità dei cittadini coinvolti, disegnandone via data visualization solo la rete. Purtroppo entrambe le dichiarazioni di Obama suscitano interrogativi. Come scrive il giurista dell’Università di Harvard Noah Feldman, la Corte che assicura la legalità dell’operato di Obama, l’interpretazione giuridica del Patriot Act stesso, sono tutelate dal segreto della legge, quindi i critici, e perfino gli avvocati, non hanno accesso trasparente alle norme. Il dettaglio fa infuriare l’ex vicepresidente Al Gore, ma permette a Obama di schivare i controlli, lasciando i cittadini in balia dello Stato.

È vero che l’analisi dei metadata è fruttuosa contro i terroristi: per fare un esempio di casa nostra, lavorare sui metadata sarebbe cruciale per scovare gli evasori fiscali, a patto di avere un sistema informatico all’altezza. E per questo molti americani non protesteranno poi troppo contro le rivelazioni del Guardian. A patto però di essere coscienti, oggi in America e domani in Italia, che dalla mappa del traffico della rete, all’identificazione dei cittadini stessi via smartphone, i passi sono pochissimi e banali.

Un saggio apparso su Scientific Reports, firmato da studiosi del Mit e dell’Università di Lovanio, ha analizzato 1.500.000 telefonate da cellulari in Europa in 15 mesi: usando solo 4 coordinate spazio-tempo ha identificato ben 95 cittadini su 100. Basta coordinare, per esempio, la chiamata da una certa località con un post su Facebook o Twitter, e il gioco è fatto. Se due ricercatori, un dottorando e un assistente universitario ci riescono con i mezzi limitati dell’Università, immaginate cosa non riesce a fare il dominio di computer Nsa.

Il caso Nsa - Verizon - Casa Bianca illumina dunque il mondo in cui abbiamo scelto di vivere nel XXI secolo, smartphone in tasca. Una sfera dove «pubblico» e «privato» non hanno più confini e dove i «dati» sulla nostra vita sono già raccolti, esaminati e schedati da burocrazie commerciali o politiche, in gran parte dati offerti da noi stessi. Gridare al Grande Fratello di Orwell non serve, scrivere leggi da Cyber-Azzeccagarbugli che la tecnologia aggirerà domani stesso, neppure. Servono coscienza dei cittadini sulla nuova realtà (e coraggio di studiare il futuro per chi si occupa dei media), trasparenza per politici e magistratura. Perché fanno più danni una legge segreta e un tribunale opaco, di tutti i metadata del mondo.

 
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da - http://lastampa.it/2013/06/07/cultura/opinioni/editoriali/non-evocate-il-grande-fratello-IOZyDfsOvg3PfiUjZlLKAN/pagina.html
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