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Autore Discussione: EMANUELE MACALUSO -  (Letto 28651 volte)
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« Risposta #30 inserito:: Gennaio 27, 2009, 09:48:31 am »

27/1/2009
 
La questione sindacale va oltre la Cgil
 
EMANUELE MACALUSO
 

Epifani non firma il testo che sancisce l’accordo sulla contrattazione, elaborato e sottoscritto da Confindustria, Cisl, Uil e tante altre sigle, con l’avallo del governo, e si scatena una pioggia di accuse che investe non solo il segretario ma anche la Cgil e la sua storia. Sabato scorso Giovanni Sartori, eminente studioso dei sistemi politici, concludeva un suo editoriale sul Corriere della Sera con queste parole: «Abbiamo ancora un sindacalismo invecchiato che nella Cgil non dimentica le sue origini barricadiera e comuniste». Caro professore, la Cgil di Di Vittorio, nel dopoguerra e successivamente quella di Novella, Lama e Trentin, con i socialisti, da Fernando Santi sino a Del Turco, non è stata mai «barricadiera» ma riformista

Nel 1949 la Cgil propose il Piano di Lavoro con un netto impianto keynesiano. Nello stesso anno, Di Vittorio, in un suo discorso rivolto ai braccianti pugliesi (con salari da fame) impegnati nella lotta per il contratto disse che se si concordavano investimenti per apportare significative migliorie agrarie, i lavoratori potevano rinunciare a una parte della retribuzione. In quegli anni, Di Vittorio, sulla Cassa del Mezzogiorno assunse una posizione diversa da quella del Pci: basta leggere la sua polemica con Amendola. Potrei ricordare altri episodi che testimoniano la vocazione riformista della Cgil. Anche il contrasto con Craxi sul taglio della scala mobile, Lama lo resse con moderazione rispetto allo scontro tra Berlinguer e Craxi.

La Cgil non fu comunista nel 1956 quando sulla rivoluzione ungherese assunse una posizione che contraddiceva quella del Pci di Togliatti. E Lama, diversamente dal Pci di Berlinguer, diede un giudizio positivo su Craxi presidente del Consiglio. E nel 1972-73 Trentin firmò, con Giuliano Amato e Ciampi presidenti del Consiglio, l’accordo sulla contrattazione con la netta opposizione del Pds di Occhetto.

Quell’accordo fu firmato nel periodo in cui maturava la crisi politica che con Tangentopoli avrebbe travolto i vecchi partiti, ma con essi non travolse il sindacato. Infatti, è vero che la Cgil aveva come partito di riferimento il Pci, poi Pds, la Cisl la Dc e la Uil il Psi, ma non erano, come si usa dire, cinghie di trasmissione di quei partiti. Mantennero una loro autonomia, anche nella selezione del quadro dirigente. Tuttavia, il sindacato nel suo complesso in questi anni di transizione senza sbocco non è stato in grado di rinnovarsi, di unificarsi, di riproporsi come soggetto della contrattazione e anche come interprete di interessi generali, come vuole la tradizione confederale del sindacato italiano. Su questo Sartori ha ragione.

È prevalsa la sopravvivenza burocratica e una ripetitività di comportamenti che ricordano quelli degli anni in cui c’erano grandi partiti la cui iniziativa politica e di massa incideva anche sugli assetti sociali. Insomma, il sindacato avrebbe dovuto riproporre il suo ruolo nel nuovo sistema politico che non è certo quello degli Anni Cinquanta, caratterizzati anche dalla rottura e concorrenzialità sindacale. Ecco perché quel che emerge dalla seduta di Palazzo Chigi, dove si è firmato (solo firmato) il documento sulla contrattazione, non è il «caso» Epifani-Cgil che non firma. Emerge invece una questione dei sindacati nel loro complesso che appaiono, come negli Anni 50, schierati o col governo o con l’opposizione.

Non è, quindi, la Cgil isolata, ma il sindacato appare subalterno al governo o a forze politiche che non sono più nemmeno i grandi partiti di massa. E il Pd si è diviso tra chi sostiene i firmatari e chi no. In questo quadro, con una crisi economica che tende ad aggravarsi e a fare pagare il conto ai più deboli, il sindacato diviso non avrà ruolo autonomo e forte, in grado di difendere i lavoratori e interpretare l’interesse generale. E quel che invece capirono i dirigenti del sindacato negli anni in cui prevalse l’unità tra il ’60 e il ’70, e anche dopo la crisi di quella unità verificatasi sul decreto Craxi per la scala mobile. Lo capiranno i dirigenti sindacali di oggi? Purtroppo ne dubito.
 
da lastampa.it
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« Risposta #31 inserito:: Febbraio 11, 2009, 02:24:58 pm »

11/2/2009
 
Smentiti dall'Europa
 
EMANUELE MACALUSO
 

La sfida lanciata da Berlusconi, prima e dopo la morte di Eluana Englaro, al mondo laico sul terreno dei valori che caratterizzano la modernizzazione e la secolarizzazione dell’Occidente è destinata ad accrescere il suo isolamento in Europa e oltre l’Atlantico. La vittoria di Obama segna la sconfitta dell’oltranzismo dei teodem. Non è senza significato il fatto che uno dei primi atti del nuovo presidente sia stato quello di sospendere il divieto, ordinato da Bush, di dare finanziamenti pubblici a organizzazioni private che praticano o sostengono l’aborto. Le reazioni dei vescovi americani e dei cardinali della Curia non hanno certo fatto indietreggiare il Presidente Usa. La campagna di Berlusconi sul «caso Eluana» che ha un netto carattere strumentale, guarda solo alla politica interna, allunga la distanza che separa il presidente del Consiglio italiano da quel vasto e complesso mondo credente ma laico che ha sostenuto Obama.

Il clima, nei confronti di Berlusconi, è cambiato anche in Europa. Oggi la destra di Sarkozy guarda con interesse coloro che pensano a un’alternativa al socialismo democratico europeo su un terreno che oggettivamente costituisce una sfida alla sinistra, non solo sul tema dello sviluppo ma anche su quello dei valori che debbono caratterizzare le società moderne multirazziali e multiculturali. Berlusconi e la Lega appaiono come residuati di una guerra perduta, come chi vuole fermare con le mani un fiume che straripa. Chi pensa che le posizioni laiche di Zapatero fossero un caso isolato in Europa sbaglia. È vero, si tratta della Spagna cattolica, ma la laicità e la legislazione sui diritti individuali che non configgono con quelli della collettività, sono comuni a tutta l’Europa. Quel che Obama ha fatto ora lo aveva fatto, anni addietro, Blair in Inghilterra. In Germania le critiche aperte della cancelliera Merkel al Papa, dopo la riammissione nella Chiesa di Roma dei lefebvriani scomunicati, con loro il vescovo negazionista, è un gesto politico che va in direzione opposta a quella di Berlusconi. Il quale, con la sua storia, assume, rispetto al Vaticano, posizioni che uno, con la storia di Giulio Andreotti, considera inaccettabili.

Chi pensa che al fondamentalismo islamico bisogna opporre il fondamentalismo cristiano, è oggi smentito da ciò che vediamo in Europa e nelle Americhe. Insomma, il mondo cambia non solo in ragione della pesante crisi economica, ma anche per i processi sociali e culturali innescati dalla globalizzazione e l'Italia sembra ferma, paralizzata dalla crisi del suo sistema politico con un presidente del Consiglio che appare fuori del tempo e dello spazio che ci circonda. In questo quadro, la politica e il sistema che l’esprime non riescono ad uscire dalla rissa quotidiana e a riflettere sugli scenari nuovi che ci propone il mondo e l’Italia con esso. Lo spettacolo offerto in Senato dopo la fine di Eluana e il volgare attacco al Presidente della Repubblica di chi rappresenta la maggioranza al governo, è un segno dei tempi. E, purtroppo, non c’è un grande partito che ponga i temi essenziali e urgenti di oggi, del quotidiano, in una prospettiva del domani e del futuro.

Anche i delicati e complicati rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica sono giocati sulla redditività elettorale immediata. E il Vaticano in questa situazione pensa di avere una rendita di posizione rispetto ai due poli che cercano i suoi favori rendendo favori su temi e questioni che la Costituzione ha regolato anche incorporando i Patti Lateranensi e la loro revisione. Non è un caso che in questi giorni c’è chi ricorda De Gasperi e Togliatti o Craxi e Berlinguer e i papi del tempo, i quali, anche nel caso di un ampio conflitto politico, seppero trovare equilibri adeguati allo svolgimento della lotta politica e al ruolo anche pubblico delle religioni in un Paese in cui, come diceva Gramsci, «c’è una questione vaticana». E non sono certo mancate posizioni critiche laiche (penso ai radicali) a questa linea, ma tutto si è svolto senza mettere in discussione le fondamenta della Costituzione e dei rapporti tra Stato e Chiesa.

Oggi sembra che tutti gli argini si siano rotti nelle due sponde del Tevere e prevale una strumentalizzazione ed esasperazione dei temi controversi che si riverberano sulla famiglia di Eluana che ha vissuto e vivrà un dramma che le istituzioni e la Chiesa avrebbero dovuto rispettare. Ma qui, ripeto, sembra di essere fuori dal mondo, in un altro pianeta.
 
da lastampa.it
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« Risposta #32 inserito:: Febbraio 18, 2009, 10:58:56 am »

18/2/2009
 
C'era tre volte il dialogo
 
EMANUELE MACALUSO
 

Galli della Loggia (Corriere di domenica) ha osservato che sta finendo la stagione dell’«incontro o dialogo tra laici e cattolici». Pensa che si sarebbe aperta intorno agli Anni 90, nella crisi della prima Repubblica e dei grandi partiti Dc, Pci, Psi. E quando le «nuove» forze politiche dovettero affrontare le sfide dell’11 settembre, del neofondamentalismo religioso e del progresso delle tecnoscienze in settori come l’ingegneria genetica. Ritiene che le sfide abbiano riproposto un rapporto laici-cattolici che nulla ha a che fare col «dialogo togliattiano» e la cultura dei «cattolici democratici». Ma in quali pagine e atti politici ha letto lo svolgimento della stagione del dialogo che testimonierebbe un proficuo rapporto tra chi si richiama alla tradizione liberale e chi al cristianesimo cattolico? Parla di giornali, libri, iniziative culturali, ma non accenna a forze politiche che avrebbero espresso questa cultura. E anche sul piano culturale il «dialogo» avrebbe coinvolto «soprattutto esponenti della gerarchia, la Chiesa». La quale, osserva, ha un tasso di autoreferenzialità che rende impossibile un dialogo paritario e rispettoso delle diversità culturali. Galli della Loggia evita di analizzare come si è espresso il dialogo in politica, ma non è difficile capire che aveva presente il caso Eluana.

Il «dialogo» tra il senatore «liberale» Quagliariello e la gerarchia, per dirla con Enzo Bianchi (La Stampa di domenica), mette al centro «una politica che si finge al servizio di un’etica superiore, l’etica cristiana, e che cerca con il compiacimento dei cattolici di trasformare il cristianesimo in religione civile». Piccolo cabotaggio strumentale, se penso cos’è il Pdl che dovrebbe esprimere le culture di cui parla Galli della Loggia. Un «dialogo» che nulla ha a che fare con quello «togliattiano» né con quello «degasperiano» e i laici Anni 50: Einaudi, Saragat, La Malfa e gli intellettuali del Mondo. Ancora è la crisi della politica e i partiti che l’esprimono non recepiscono le «nuove temperie culturali». Sul fronte opposto c’è stato un altro «dialogo» tra eredi dei «cattolici democratici» e quelli del Pci di Berlinguer, espresso in alleanza politico-elettorale, l’Ulivo, poi nel Pd. Non era difficile capire che il transito dall’alleanza al partito avrebbe riproposto più acuto il neofondamentalismo religioso, non solo islamico, e i progressi nel campo della genetica. L’abbiamo visto nel dibattito su Eluana.

La squadra di Veltroni ha sempre sostenuto che su questi temi era necessaria e possibile una sintesi tra le culture che avrebbero convissuto nel Pd. Ebbene, non c’è un solo appuntamento su questi temi che non abbia visto il Pd spaccato. Il Pd non ha una politica sui temi che hanno caratterizzato le scelte di tutti i partiti laici europei, non solo quelli di sinistra. S’invoca la «libertà di coscienza» per i parlamentari, ma non per i cittadini. Una parte del Pd avrebbe votato il decreto sul «testamento biologico», oggi riproposto come disegno di legge, che nega a una parte di cittadini il diritto, accordato ad altri cittadini, di accettare o rifiutare l’idratazione e l’alimentazione artificiale con preparati confezionati da case farmaceutiche e somministrati con procedure mediche. Insomma, «libertà di coscienza» ai livelli alti e a senso unico. Ma non è il solo tema che divide il Pd, partito che sembra esso stesso alimentato artificialmente, ma che investe la laicità dello Stato. Dunque a destra e a sinistra il «dialogo e l’incontro tra laici e cattolici» si è trasformato in aspra lotta proprio sui temi della laicità e le nuove sfide del progresso e della modernità. Anche questo è un segno della crisi del sistema politico italiano. E che crisi!
 
da lastampa.it
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« Risposta #33 inserito:: Febbraio 24, 2009, 11:26:02 am »

24/2/2009
 
E se provassimo a dare fiducia a Franceschini?
 
 
 
 
 
EMANUELE MACALUSO
 
Ricordate i giorni in cui nasceva il Pd? L’orchestra di tutto il sistema mediatico suonava inni di evviva e voci forti di tenori che avevano calcato tante scene cantavano «vincerò!», non come Pavarotti alla Scala, ma come Mina a Sanremo. Sono trascorsi solo pochi mesi e la stessa orchestra suona, stonando, la marcia funebre di Chopin. Fuor di metafora, oggi molti commentatori hanno scritto che il progetto Pd era buono ma è stato condizionato e affossato, nota il mio amico Angelo Panebianco, dal «club degli oligarchi». Eugenio Scalfari fa la stessa analisi e aggiunge che con le dimissioni di Veltroni «l’oligarchia è stata delegittimata e spazzata via tutta insieme». Potrei continuare nelle citazioni. Ma, scusatemi amici miei, sedici mesi addietro non fu il «club degli oligarchi» a promuovere il Pd, a scegliere uno di loro, a candidarlo a segretario del Pd e a organizzare le cosiddette primarie? Non fu D’Alema, oggi indicato come capo del «club degli oligarchi», che disse, a chi voleva ancora l’Ulivo (Prodi) per le elezioni politiche, che bisognava fare subito il Partito democratico?

Faccio queste osservazioni non per ribadire che il progetto di mettere insieme Ds e Margherita in un partito era sbagliato. Le faccio perché osservo che oggi nell’analisi sul Pd si commettono gli stessi errori. Cioè, si continua a pensare che le cosiddette primarie siano la medicina di tutti i mali di cui soffrono i partiti, soprattutto il Pd, e solo attraverso questo mezzo sia possibile rinnovare i gruppi dirigenti e «cacciare l’oligarchia ». Il Time con un gran titolo dice che il fiorentino Renzi è l’Obama italiano. A mio avviso dice una sciocchezza.

Il ricambio di un gruppo dirigente può verificarsi solo attraverso una lotta politica, su scelte da fare o non fare. Fu così nel Pci, dove pure c’era, con Togliatti, il centralismo democratico; fu così nella Dc, con De Gasperi, con Fanfani e Moro, il ricambio coincise con le svolte politiche; fu così nel Psi con Nenni, De Martino e Craxi. Questi partiti si sono spenti quando si è spenta la lotta politica fondata su scelte di fondo e quando su tutto prevalse la guerriglia per il potere. Anche nel Pci-Pds-Ds, come nella Margherita, si è verificata questa involuzione. E non si capisce perché una volta insieme, con le primarie o senza, le cose dovessero e potessero cambiare. Cambieranno solo se ci sarà una lotta politica su scelte chiare. Franceschini, se ho capito bene, ha detto che nel Parlamento europeo il Pd dovrebbe lavorare per costruire un gruppo progressista più largo di quello socialista, ma che occorre farlo insieme con i socialisti. Cioè nel gruppo parlamentare del Pse. Ha poi spiegato perché non è condivisibile il testamento biologico, proposto dalla destra, in discussione nel Parlamento, facendo sue le cose dette e ridette dal senatore Ignazio Marino. Sono due opzioni chiare su cui discutere e votare. Certo, c’è da riflettere sul fatto che Franceschini faccia oggi scelte che Veltroni non seppe fare. Dopo Prodi, sembra che nel Partito democratico, così come è stato concepito, una politica di sinistra moderata e moderatamente laica possa essere fatta solo da una personalità che proviene dalla Dc e dal mondo cattolico.

Non è vero che le «vecchie» appartenenze non contano. Contano e continueranno a contare. Tuttavia il nuovo segretario non può essere circondato dal sospetto, da parte di chi viene dalla sinistra storica, per la sua «vecchia» appartenenza. Il confronto nel Pd e tra esso e la destra deve svolgersi su fatti, su scelte, con confronti e, ripeto, con limpide battaglie politiche. Ora Franceschini si trova di fronte due grandi questioni: 1) come costruire un Partito veramente democratico superando le false alternative di cui si discute: primarie e plebiscitarismo o centralizzazione e oligarchie; 2) chiarire se il Pd mantiene quella che è stata definita «vocazione maggioritaria» o se occorre costruire un sistema di alleanze e con chi.

In definitiva si tratta di capire qual è il terreno su cui competere con la destra che, come ora dicono tanti, esercita una «egemonia» sulla società. Cioè c’è una destra, con il «Cavaliere nero» leader, che ottiene consensi. Riflettete perché. E questo mentre è in corso una grave crisi che sta sconvolgendo vecchi assetti sociali e civili in Italia e nel mondo. È questa la sfida, una sfida di lunga lena, su cui si costruiscono anche le forze politiche, oggi e domani. È questa la sfida a cui è chiamato Franceschini. Ce la farà? Vedremo.
 
da lastampa.it
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« Risposta #34 inserito:: Marzo 13, 2009, 08:55:47 am »

13/3/2009
 
La battuta quotidiana
 
EMANUELE MACALUSO
 
Berlusconi mostra una quotidiana insofferenza per le regole che reggono il sistema politico fondato, come vuole la Costituzione, sulla democrazia parlamentare.

Non riesce a dare un ordine alle sue idee e alle sue pulsioni con proposte legislative e riforme organiche. E lo fa mentre il suo governo e la sua maggioranza hanno impegnato il Parlamento a discutere del federalismo. Con le sue battute sulla decretazione come metodo per governare e sul ruolo dei capigruppo delegati a votare per tutti i parlamentari, il Cavaliere apre un altro fronte sul terreno costituzionale senza un progetto e senza una linea concordata nemmeno nel suo personale partito. Il quale si appresta a fare un congresso e l’unica cosa su cui pare si sia aperto un dibattito è il sistema di voto con cui incoronare il Cavaliere: per acclamazione o per alzata di mano.

Ma un partito è tale solo se ha un’idea politico-costituzionale dello Stato e delle sue istituzioni. Dopo la Liberazione fu questo il banco di prova dei partiti che, risorti, diedero vita alla Costituzione. E questa fu la bussola delle forze che per cinquant’anni governarono il Paese o svolsero il ruolo di opposizione. C’è da aggiungere che la grave crisi economica che scuote il mondo suggerisce alle forze politiche, al governo o all’opposizione, non solo di registrare le politiche economiche e sociali per fronteggiare la tempesta, ma anche di verificare se gli strumenti di cui le istituzioni, gli Stati e la comunità internazionale dispongono sono adeguati alla bisogna.

L’Italia vive alla giornata anche perché, questa è la mia opinione, i partiti di governo e di opposizione vivono sulla battuta quotidiana. Il discorso che ho fatto per il Pdl, l’ho già fatto, anche su questo giornale, per il Pd. C’era un vuoto politico e si pensava di riempirlo con lo stare insieme dei Ds e della Margherita. Ricordiamo i fatti più recenti. Nel momento in cui nacque il Pd e Berlusconi dal predellino della sua auto annunciava la fusione tra Forza Italia, Alleanza nazionale e la formazione del Pdl, molti osservatori scrissero che finalmente in Italia si dava vita al bipartitismo e tutto si semplificava.

I risultati elettorali dell’aprile scorso, anche se segnano una forte affermazione del partito di Berlusconi e del suo alleato (la Lega di Bossi) rispetto al Pd di Veltroni e del suo alleato (il partito di Di Pietro), sembrava che dessero ragione a chi pronosticava l’avvento di un bipartitismo virtuoso capace di riformare e consolidare il sistema politico. Non è trascorso nemmeno un anno e lo scenario appare già cambiato e devastato. Basta leggere gli ultimi sondaggi. Il Pd è sceso al 22 per cento e sono cresciuti tutti i partiti che in Parlamento e fuori sono all’opposizione: il partito di Di Pietro e l’Udc di Casini, ma anche i partiti della sinistra radicale coalizzati oggi supererebbero la soglia di sbarramento. Nel centrodestra invece si verifica un modesto cedimento del Pdl e un incremento significativo della Lega.

In questo quadro una cosa appare certa: l’ambizione di Veltroni e dei suoi amici di fare del Pd un partito a «vocazione maggioritaria» è sfumata. Franceschini non ne parla più. È in crisi l’alleanza con Di Pietro ma non si capisce quale sarà il sistema di alleanze del Pd. Comunque mi pare chiaro che le prossime elezioni confermeranno la fine del «bipartitismo» mai nato. Mai nato perché nessuno ci ha creduto: né il Pd che fece l’alleanza con Di Pietro e dopo le elezioni «scoprì» che Berlusconi era Berlusconi; né il Cavaliere il quale pensa che l’opposizione deve riconoscergli la sacralità che i suoi sodali gli hanno decretato. Tutto torna come prima e peggio di prima con la moltiplicazione dei piccoli partiti? Ora c’è anche quello di Grillo. In effetti sembra che, con le forze politiche in campo, le possibilità che il Paese sia retto da un sistema politico semplificato e condiviso siano scarse. È invece possibile che l’indebolimento dell’opposizione crei una dialettica più aperta nella maggioranza e Fini interpreta questa esigenza. Può darsi che il Pd faccia un congresso vero e definisca una politica, le alleanze e un gruppo dirigente. Può darsi che nella sinistra o in una parte di essa maturi il convincimento che una competizione dialettica virtuosa con il Pd sarebbe possibile solo se si ricostruisse un partito socialista. Ma tutto oggi sembra incerto. Non vedo processi politici forti tali da cambiare lo scenario. E nell’incertezza il governo personale nella politica, intrecciato con i poteri che governano l’economia e i media, può segnare la fase che stiamo attraversando. Spero di sbagliarmi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #35 inserito:: Marzo 26, 2009, 10:32:54 am »

26/3/2009
 
Il partito dei moderati e il carisma di Silvio
 
EMANUELE MACALUSO
 

Silvio Berlusconi ha convocato un congresso o meglio una grande assemblea per ratificare la nascita del Pdl. Non c’è dubbio che siamo di fronte a un rilevante fatto politico. Ma questa è l’assise in cui nasce il partito dei moderati? Un partito, hanno scritto alcuni osservatori, fra cui Biagio De Giovanni (Il Riformista) e Aldo Schiavone (la Repubblica), che in Italia non è mai esistito. E perciò, si dice, va salutato come un fatto destinato a colmare un vuoto e a incidere positivamente nella vicenda politica italiana, anche perché rimette il sistema politico nella direzione del bipolarismo.

Io sono meno ottimista dei miei due amici anche perché ho presente nella mia memoria le cose che furono scritte e dette da tanti analisti nel momento in cui nasceva il Pd. Si disse allora che finalmente nasceva il partito dei progressisti italiani, il quale metteva in moto, senza una legge, una riforma del sistema politico fondato sul bipartitismo.

Dopo un anno abbiamo visto un Pd rimpicciolito e in affanno e crescono l’Udc di Casini, l’Idv di Di Pietro e la Lega di Bossi. Anche a sinistra del Pd si riorganizzano forze che sembravano destinate a scomparire. Il Pd, ha cambiato segretario, ma non riesce a darsi un asse politico culturale necessario per essere un partito con un suo progetto e non una coalizione per contrastare il potere berlusconiano.

Anche il Pdl nasce come una coalizione, con un leader carismatico e padronale, in cui convivono ex socialisti che ritengono di essere gli eredi del «vero Psi», ex democristiani, laici e clericali, liberisti e colbertisti, cattolici integralisti e liberalradicali, tutti radunati in Fi, a cui ora si è associata An con la «sua storia e identità», come hanno dichiarato i confluenti. Non c’è dubbio che questo coacervo oggi abbia un insediamento rilevante nelle istituzioni nazionali e locali e anche, come si dice oggi, sul territorio. E non c’è dubbio che si tratti di una coalizione che ha un comune denominatore: non è solo nel Cavaliere, ma anche nell’avversione alla sinistra così come si è espressa in passato (comunista!) ma anche con i governi di Prodi. Un’avversione che oggi si manifesta con una politica di governo e un esercizio del potere in cui si ritrovano gli strati della società che non credono in un’alternativa, per convinzione o per necessità.

È questo il terreno su cui si è costruita «un’egemonia» del berlusconismo. In tale quadro, si può dire che con il Pdl nasce il partito dei moderati destinato, come è stato scritto, a caratterizzare in termini più moderni il sistema politico? Può darsi che mi sbagli, ma io penso di no. Il Pd nacque con Veltroni come forza che archiviava l’antiberlusconismo e inaugurava una competizione bipartitica su un terreno diverso su cui si era costruita l’unione prodiana. Non ha retto su tutti i fronti. Il Pd infatti ha riproposto il «vecchio antiberlusconismo» e non è stato in grado di battersi per un suo programma, per una sua visione rispetto ai problemi posti dalla società: dalle riforme costituzionali necessarie a far funzionare il sistema alle questioni che pongono oggi il Nord e Sud. Per non parlare della forma stessa del partito, della sua vita democratica e della selezione dei gruppi dirigenti.

Nel Pdl in termini diversi e con contenuti diversi, si ripropongono le stesse questioni: sintesi politica, leadership, democrazia interna, forma partito, cultura condivisa. Insomma, sia a destra che a sinistra, con le coalizioni o con i partiti-coalizione, ancora oggi sembra essere sempre in una transizione condizionata dal ruolo che ha assunto la leadership di Berlusconi. Anche le posizioni interessanti ed effettivamente revisioniste assunte da Gianfranco Fini sono condizionate dal ruolo di Berlusconi che obiettivamente limita una reale dialettica democratica nel partito del centrodestra.

Aldo Schiavone, a proposito del Pdl, come partito conservatore di massa, dice che «la Dc era un’altra cosa, anche se nel suo amalgama la destra rappresentava una componente essenziale». È vero. Era un’altra cosa, non solo perché aveva un suo riconoscibile asse politico-culturale, ma anche perché le leadership carismatiche di De Gasperi, Fanfani e Moro ebbero una base esclusivamente politica, quindi con ricambi possibili. De Gasperi fu sostituito da Fanfani in un cambio di fase politica. Lo stesso avvenne con Moro che sostituì Fanfani e così di seguito.

Una leadership carismatica, nata nel corso di una crisi di sistema può radunare una coalizione moderata, ma non può dare vita al partito dei moderati se non mette in discussione la sua stessa leadership. Altrimenti la crisi del leader si identificherà con la crisi del partito e la stabilità del sistema, incentrato su quella leadership. Questo è il punto. Comunque è positivo il fatto che anche grazie a questa assise si apra un dibattito che investe l’avvenire del Paese in un momento difficile caratterizzato da una crisi economica senza precedenti.

Mi auguro che questa discussione coinvolga le formazioni di destra e di sinistra.
 
da lastampa.it
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« Risposta #36 inserito:: Aprile 15, 2009, 08:57:15 am »

15/4/2009
 
Berlusconi nel deserto politico
 
EMANUELE MACALUSO
 
La tragedia del terremoto che ha colpito nei giorni scorsi l’Abruzzo ha scosso anche il sistema politico.
Silvio Berlusconi infatti con la sua iniziativa ha accentuato il ruolo personale che esercita non solo nel suo partito ma più in generale nella complessiva vita politica italiana.

Non è questa la sede né il momento per discutere quanto di strumentale e calcolo politico ci sia stato nella sua singolare presenza nelle zone terremotate e quanta emotività e sincerità ci fossero nel suo fare e nei suoi gesti. Forse c’è un intreccio di due spinte convergenti. Certo, quando ai funerali ha lasciato la «prima fila» dove si trovavano tutti gli esponenti delle istituzioni per stare con i parenti delle vittime e la folla, Berlusconi ha voluto sottolineare, con un gesto discutibile, una «separazione» che ha un significato politico: le istituzioni e chi le rappresenta sono roba vecchia, ora ci sono io e il popolo, io garante che le cose che dico si faranno.

Tuttavia, i successi e le grida contro il personalismo non servono se non a sottolineare l’assenza di un’opposizione in grado di essere percepita dal popolo, sì dal popolo, come reale e convincente alternativa. Questo quadro va collocato in uno scenario nazionale in cui convivono, da un canto, processi sociali, politici e culturali, che ormai mettono in discussione la stessa unità nazionale, così come l’abbiamo ereditata dal Risorgimento; e, dall’altro, la routine dei partiti senza idee che anima sinistra e destra, che si «unificano» guerreggiandosi, che governano, o al governo si oppongono, senza una strategia che delinei il domani degli italiani. Mi ha colpito la pagina della Stampa di domenica scorsa dedicata a chi pensa e lavora per una Confindustria del Sud o a un partito del Sud, mettendo in evidenza come il divario economico, sociale, civile tra il Nord e il Mezzogiorno sia cresciuto in termini e forme inedite. Le tensioni che oggi si registrano tra il Pdl «unificato» di Berlusconi e Fini (e al suo interno) e la Lega di Bossi e Maroni (ma anche il Mps, il movimento di Lombardo che governa la Sicilia) partono dal sottosuolo della società e si riverberano in superficie nell’agone politico segnato dal contrasto su certe leggi e soprattutto sul referendum per la legge elettorale. Angelo Panebianco nel suo editoriale di domenica scorsa sul Corriere dice che la competizione tra il Pdl e la Lega ha come obiettivo «l’egemonia sul Nord e in particolare sul Lombardo-Veneto». E la partita riguarda la rappresentanza politica sulla «classe media indipendente» del Nord: piccoli e medi imprenditori, professionisti, commercianti, quelli che venivano definiti «ceti borghesi». Nell’interessante analisi di Panebianco il Sud non c’è. La partita si gioca solo al Nord. Tuttavia l’unificazione tra Fi e An, dice l’editorialista del Corriere, ha meridionalizzato il partito di Berlusconi il quale «gravita più al Sud che al Nord». Di qui la contraddizione che nasce dal fatto - aggiungo io - che la nuova borghesia del Nord non si pone la questione del Sud, il quale è considerato non solo un mercato ma anche un canale di infezione mafiosa. La Lega più libera dai condizionamenti del Sud può quindi aspirare all’egemonia sulla «borghesia indipendente» del Nord.

Ma il Pdl non può certo cedere altri spazi alla Lega. Insomma l’unificazione accentua la conflittualità tra due partiti che l’hanno voluta (le posizioni di Fini e la preparazione delle liste amministrative lo testimoniano) e mette in forte tensione l’alleanza con la Lega. La leadership di Berlusconi è ancora per tutta la maggioranza un punto fermo, ma l’unificazione anziché rafforzarla ha reso più difficile la mediazione e più incerto il futuro. Nel centrosinistra le cose sono molto più complicate perché ha subito una sconfitta e non è riuscito a ridisegnare una strategia. L’unificazione tra Ds e Margherita non ha fatto un partito e non c’è un leader di riferimento. Esaurita la politica veltroniana della «vocazione maggioritaria», nel Pd i suoi epigoni cercano di rimetterla in giuoco con il referendum: «vocazione maggioritaria» per legge, non per consenso politico. Ma c’è anche chi (Enrico Letta e altri suoi amici) auspica un forte partito di centro che si allei con la sinistra indebolita. E proprio questa prospettiva fa pensare ad altri, sempre nel Pd, che occorre ricostruire un ponte con la sinistra che oggi si ritrova nella lista di Vendola, Nencini, Fava e Francescato. Può un partito esercitare con forza l’opposizione e delineare un’alternativa nelle condizioni in cui si trova oggi il Pd? Non credo. I problemi incalzano con la crisi economica e quelli che propone il terremoto. E sulla scena Berlusconi appare protagonista in un deserto politico con istituzioni depotenziate, i mezzi di comunicazione più autonomi in difficoltà. Ma, attenzione, il problema non è Berlusconi che rompe regole e comportamenti tradizionali, anche nei rapporti con le istituzioni, e impone la sua leadership. La responsabilità è delle forze politiche e sociali che non riescono a esprimere una politica, una coalizione e una leadership alternativa.
 
da lastampa.it
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« Risposta #37 inserito:: Aprile 27, 2009, 04:31:44 pm »

Macaluso: «Bene "Silvio partigiano" la sinistra smetta di gridare allo scippo»
 
 

ROMA (27 aprile) - «Berlusconi celebra finalmente il 25 aprile e certa sinistra si fascia la testa, si sente scippata. E’ assurdo». Le parole di Emanuele Macaluso arrivano nette e chiare dal treno che lo sta portando a Reggio Emilia dove è stato chiamato a commemorare Camillo Prampolini, sindacalista riformista di fine Ottocento.

L’ex dirigente del Pci ed ex senatore, spirito critico della sinistra, valuta molto positivamente il discorso berlusconiano del 25 aprile, e incita il fronte progressista a non sentirsi defraudato o preso in contropiede.

Senatore Macaluso, le piace il Berlusconi ”partigiano”?
«Sono anni che ci combattiamo, sono decenni che Berlusconi non riconosceva il valore della lotta partigiana e della Costituzione, e adesso che finalmente lo fa mi dovrei mettere paura? Suvvia. Per qualcun altro, invece, sembra che gli abbiano portato via il bambolotto di pezza».

Non si sente scippato?
«Ma quando mai. E’ stata una giornata importante. E’ da gran tempo che il capo dello Stato, Giorgio Napolitano, dice e ripete che bisogna mettere al centro le radici comuni della Costituzione e della Repubblica. Adesso, anche Berlusconi che al 25 aprile non aveva mai partecipato riconosce che la Resistenza è base della Repubblica e della Costituzione, documento in cui tutti gli italiani devono riconoscersi. Bene, era ora. La considero una vittoria di tutte le forze che si sono battute perché questo riconoscimento ci fosse».

Eppure alcuni editoriali e commenti parlano di effetto boomerang, di autogol di Franceschini e del Pd.
«Ma dico: se Berlusconi riconosce che Togliatti, dico Togliatti, assieme a Terracini sono da considerare tra i padri della Repubblica, che dovrei fare, mettermi a gridare ”giù le mani?”. E’ una vita che aspettavo riconoscimenti del genere. Ho visto le cose che ha scritto Parlato sul Manifesto e qualcun altro, miopia politica pura, minoritarismo. Quelli che parlano così organizzino loro una bella e forte e seria opposizione, facciano vedere come si fa».

Non è che Berlusconi fa questi riconoscimenti solo adesso perché la sinistra è più debole e non fa paura?
«Può anche darsi. Ma se l’opposizione non sa cogliere neanche questi momenti per capire come rafforzarsi, si indebolirà sempre più».

Perché proprio ora, queste posizioni del premier?
«Molto importante è stato il ruolo giocato da Fini, la sua è stata una revisione vera, profonda, che ha aperto contraddizioni reali nel centrodestra».

C’è il Quirinale, nel mirino di queste revisioni?
«Se Berlusconi aspira al Colle non ci vedo nulla di illegittimo. E’ anche naturale che ci pensi, uno che è stato più volte presidente del Consiglio. Io lo vedrei negativamente e non me lo auguro, ma è più che legittimo. Certo, non si può aspirare al Quirinale con quelle posizioni di ”dàgli al comunista”, con quelle tesi tipo ”la Costituzione è sovietica”: in quel modo parlava ai moderati, adesso vuol parlare a tutti, ha altri obiettivi».

Ha pure fatto ritirare al Pdl la legge sull’equiparazione tra Salò e partigiani.
«Bene, un altro fatto positivo e importante, speriamo che quella certa sinistra non si rimetta a strepitare alla Di Pietro».

Che c’entra Di Pietro?
«C’entra perché punta a fare concorrenza al Pd con posizioni da giustiziere più ancora che giustizialiste.
Di Pietro è stato inventato politicamente da D’Alema, Prodi e Veltroni, ora Franceschini sembra aver capito che è ora di chiudere l’alleanza con l’ex pm per poter condurre una opposizione più chiara e determinata».

da ilmessaggero.it
 
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« Risposta #38 inserito:: Maggio 27, 2009, 10:13:03 am »

27/5/2009
 
La lega del Sud e il sonno della Sinistra

 
EMANUELE MACALUSO
 
Commentando l’iniziativa del presidente della Regione siciliana, Lombardo, di licenziare gli assessori per mettere in piedi un altro governo, alcuni giornali hanno parlato di «milazzismo». Il richiamo è dovuto al fatto che il «nuovo» governo non farebbe più riferimento alla larga maggioranza che sino a ieri ha sostenuto Lombardo (Mpa, Pdl, Udc), ma a un sostegno assembleare, senza riferimenti ai partiti. E il governo non sarebbe più costituito da una coalizione di partiti. Ma l’accostamento tra quel che vediamo oggi e la «rivolta» milazziana è improprio, se c’è una continuità va ricercata nella piaga del trasformismo tradizionale che oggi però tocca punte inimmaginabili. L’operazione Milazzo maturò nel 1958 dopo una lunga battaglia sui temi dello sviluppo, dell’industrializzazione e dell’autonomia, condotta da una forte opposizione della sinistra (Pci e Psi) unita e dal sindacato, che incideva anche nel mondo influenzato dalla Dc. Non fu un caso che parte rilevante di quel movimento che scosse la Sicilia l’ebbe la Sicindustria, diretta dall’ing. La Cavera, che si contrappose alla politica nordista della Confindustria sino alla rottura: La Cavera fu espulso dalla presidenza nazionale degli industriali. La Dc si spaccò e Silvio Milazzo, vecchio popolare sturziano eletto dall’Assemblea regionale siciliana in contrapposizione al candidato ufficiale del partito sostenuto da Fanfani, formò un governo «anomalo»: composto da dc scissionisti (che diedero vita a un partito autonomista) con la partecipazione di socialisti, un indipendente eletto dal Pci e di uomini della destra, appoggiato dall’esterno dal Pci. Una coalizione che fu sostenuta da un forte movimento di massa.

Nel 1959 si svolsero le elezioni regionali e la Dc, per tornare al governo, stipulò un «patto anticomunista» con la destra, ma Milazzo col suo partito ottenne un grande successo, fece un nuovo governo «monocolore» sostenuto solo dalla sinistra. Resse meno di un anno: il governo centrale e i poteri forti si mobilitarono e acquisirono per conto della destra siciliana alcuni assessori di Milazzo. Sarebbe lungo scrivere sulle cause più profonde di quella crisi che maturò mentre a Roma incubava il centrosinistra di cui il Psi sarebbe stato una componente fondamentale. Mi preme sottolineare la diversità su cui oggi matura la crisi in Sicilia. Non c’è più un forte movimento di massa paragonabile a quello che si manifestò a fine Anni 50. Oggi la crisi sembra maturare essenzialmente come contraddizione all’interno della maggioranza. Le cronache raccontano la guerriglia di potere scatenata all’interno del partito berlusconiano, la rottura tra il vecchio presidente della Regione, Cuffaro, e il nuovo, Lombardo, che ha sradicato un sistema di potere per costruirne un altro. Lo scontro tocca anche i vertici romani dato che il Pdl in Sicilia è governato dal presidente del Senato Schifani e dal ministro della Giustizia Alfano, attraverso un «coordinatore», Giuseppe Castiglione, definito «un farabutto» dal sottosegretario Miccichè, tutti uomini del Cavaliere.

Ma attenzione. La crisi ha anche un risvolto politico e sarebbe sbagliato non vederlo. Il «sicilianista» Lombardo aveva stretto un patto con Berlusconi (per la «rinascita» dell’Isola) e si ritrova a contrastare il governo più nordista che l’Italia abbia mai avuto. È l’accusa che l’on. Adriana Poli Bortone dalla Puglia ha fatto, motivando il suo distacco da An e dal Pdl e promuovendo un movimento per il Sud. L’intreccio tra motivazioni politiche e di potere è spesso stretto, ma occorre leggerne i caratteri. Oggi sembra che sia la debolezza dell’opposizione a sollecitare una lotta politica e di potere nel partito berlusconiano. Annibale non è alle porte e le guerriglie sono all’ordine del giorno. Tuttavia, questo panorama segnala un appannamento del ruolo di Berlusconi. Il quale è in difficoltà non solo per il «caso Noemi» ma per un certo mutamento del clima politico. La crisi economica si fa sempre più stringente. E le difficoltà politiche più serie possono venire dall’ulteriore emarginazione del Sud, dal riproporsi in termini nuovi di una questione meridionale, mentre si discute solo di una «questione settentrionale» nei termini imposti dalla Lega. La risposta, però, non può essere la Lega del Sud a cui forse pensano Lombardo e altri. Ma se la sinistra non si sveglia, in questo Paese, oggi tutto è possibile.
 
da lastampa.it
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« Risposta #39 inserito:: Settembre 02, 2010, 10:05:08 pm »

2/9/2010

Il Pci e le stroncature a Vasco Pratolini
   
EMANUELE MACALUSO


Caro direttore,
ho letto l'interessante articolo di Osvaldo Guerrieri (La Stampa, 31 agosto) in cui racconta la vicenda di una sceneggiatura, scritta da Vasco Pratolini, per un film mai realizzato, del regista argentino Fernando Birri. Chi ha titolato l'articolo dice: «Così lo scrittore tradito dal Pci, raccontò una saga anarchica». Per la verità nel pezzo di Guerrieri non si parla di «tradimento», ma siccome viviamo un'epoca in cui del Pci, che non c'è più, si dicono le cose più strampalate, si può anche fare quel titolo. Guerrieri ricorda che Pratolini, come tanti intellettuali, dopo la rivoluzione ungherese, si era allontanato dal Pci (nel quale non era iscritto) e il Pci da lui. Eppure distaccandosi scrisse: «La mia fedeltà alla classe operaia non potrà venir meno»; e rivendicò la sua «lealtà nei confronti del Pci». Guerrieri parla delle stroncature delle opere di Pratolini dopo la separazione dal Pci come ritorsione alla sua scelta politica. Io ricordo invece che a stroncare i romanzi e le sceneggiature di Pratolini, nel 1955, fu Carlo Muscetta, allora condirettore della rivista del Pci «Società», col quale polemizzarono con vigore, su un'altra rivista del Pci «Il Contemporaneo», Carlo Salinari e Antonello Trombadori. E lo stesso Palmiro Togliatti scrisse una lettera a Società in polemica con Muscetta e a sostegno dell'opera di Pratolini. Parlo di tempi in cui la battaglia culturale, anche all'interno del Pci, con i limiti che conosciamo, era cosa seria.

Nell'articolo di Guerrieri si dice che lo scrittore toscano pagò un «conto salato» per la sua «ribellione al Pci» e cita il fatto che «i suoi romanzi trovarono nel comunista Asor Rosa uno stroncatore implacabile».

Ho ricordato che, le stroncature al «Martello» e ad altre opere di Pratolini, il comunista Muscetta le aveva fatte prima della separazione dello scrittore dal Pci. E francamente non si capisce come e perché l'opera critica di Asor Rosa (discussa e discutibile per i suoi giudizi su tanti scrittori) viene identificata col Pci! Non solo, ma Guerrieri, per rafforzare la sua tesi sulla persecuzione comunista, cita l'introduzione di Goffredo Pascale alla sceneggiatura del film mai uscito in cui si dice che «negli Anni Novanta la Mondadori rinunciò persino a pubblicare, senza giustificazione, il terzo Meridiano pratoliniano».

Insomma, anche la Mondadori del Cavaliere Berlusconi ha contribuito a fare pagare a Pratolini il «conto salato» per la sua ribellione al Pci che non c'è più? Ormai, tutto è possibile.

http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7776&ID_sezione=&sezione=
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« Risposta #40 inserito:: Settembre 15, 2010, 08:59:04 am »

Emanuele Macaluso*,   12 settembre 2010, 18:01

Una grande forza popolare, socialista e di sinistra

Politica     

Pubblichiamo il messaggio inviato da Emanuele Macaluso per la terza assise del gruppo di Volpedo: "La globalizzazione prima e poi la crisi economica internazionale hanno proposto sfide nuove e senza precedenti alla cultura e alla prassi dei socialisti"


Cari compagni, innanzitutto voglio inviarvi il mio apprezzamento per una iniziativa, quella del Gruppo di Volpedo, che ha acquisito progressivamente visibilità e prestigio nell'area vasta e variegata dei circoli di cultura e di ispirazione socialista, intendendo con questo termine non solo quanti derivano la loro storia dal Partito socialista italiano, ma anche i tanti che fuori e dentro specifiche organizzazioni partitiche, si richiamano al socialismo e ritengono che il PSE e l'insieme dei partiti socialisti e socialdemocratici europei costituiscono ancora l'imprescindibile punto di riferimento per chi voglia essere dalla parte della sinistra e delle battaglie per la giustizia sociale. Dico questo con ciò ribadendo un punto fermo della battaglia che da tempo conduco nel nostro paese. Ritengo infatti che solo con la costruzione in Italia di una grande forza popolare, socialista e di sinistra sia possibile incanalare il sistema politico italiano su un percorso "normale", che ci liberi dalle incongruenze di una pretesa originalità che con la nascita del PD ha complicato e reso più difficile la battaglia della sinistra in Italia, oltre le stesse difficoltà che la sinistra vive in tante parti d'Europa.

La stessa fuoriuscita dal berlusconismo, che potrebbe realizzarsi prima di quello che si pensava fino a qualche tempo fa, non produrrà per la sinistra i frutti necessari se non si tradurrà in una riorganizzazione del sistema politico che abbia in un partito di tal fatta un perno decisivo. Come si possa raggiungere questo obiettivo è oggetto di confronti e di diverse prassi politiche anche fra quanti ne sono profondamente convinti.

C'è chi pensa che sia possibile attraverso una lotta politica per la trasformazione dall'interno del PD, chi lo coltiva all'interno della piccola realtà del PSI, chi pensa a nuove formazioni politiche come SEL o si affida prioritariamente alla semina politica e culturale di circoli,associazioni e reti di collegamento come quella rappresentata dal vostro Gruppo.

Per parte mia non ho ricette sicure da offrire e cerco di dare il mio contributo insieme ai compagni con cui facciamo vivere da anni Le nuove ragioni del socialismo. Tuttavia non sfugge il fatto che oggi il Pd è un partito di centrosinistra essenziale per la costruzione di una alternativa alla destra. La battaglia politica quindi deve muoversi, a mio avviso, su un binario che, non accettando il Pd come il partito della sinistra europea (ruolo rifiutato dallo stesso Pd), tenda a una sua evoluzione, a una crisi virtuosa e non distruttiva.

Dobbiamo però tener presente che i problemi sono di portata maggiore di quelli che ho prima richiamato e che occupano tanta parte del nostro dibattito corrente.

La globalizzazione prima e poi la crisi economica internazionale hanno proposto sfide nuove e senza precedenti alla cultura e alla prassi dei socialisti. Ne sono prova drammatica le difficoltà che il PSE e i vari partiti nazionali vivono in questa situazione ,in cui continuano ad avanzare movimenti di destra populista e i partiti conservatori,che sono stati alfieri del neoliberismo e dunque i responsabili della crisi,riescono ancora a promuovere politiche che scaricano sui lavoratori e la parte più debole della società i costi della crisi,senza pagare eccessivi prezzi politici.

Questo vuol dire che davvero c'è qualcosa di profondo da rivedere nella cultura e nelle politiche degli ultimi 10/15 anni della maggior parte dei partiti socialisti in Europa,cui non sono state estranee anche quelle del PD. Vediamo con grande interesse che da un po' di tempo si è aperto un dibattito vivace all'interno di molti di questi partiti, nei loro circoli intellettuali, in fondazioni e riviste ad essi collegate. Anche noi ci siamo inseriti in questa ricerca con il seminario tenuto il 17 giugno scorso su Il socialismo europeo e la crisi economica internazionale. Mi pare che le linee di tendenza emerse anche in recenti documenti del PSE e nella dichiarazione congiunta della SPD e del PSF,vadano nella direzione di riprendere con forza, a partire dal livello europeo, il tema di un governo dello sviluppo che non sia succube degli interessi del capitale finanziario internazionale e delle dottrine neo-liberiste.

Occorre dunque ripensare gli strumenti di cui l'Europa e i singoli stati devono dotarsi, recuperando senza tabù non solo il tema di regolazioni più rigorose e meno compiacenti, ma anche e soprattutto i temi della programmazione e del ruolo della mano pubblica. Ma perché questo programma non resti un velleitario disegno illuministico occorre rimettere radici nuove e più solide nel mondo del lavoro e nelle sue complesse e inedite articolazioni, e recuperare grandi aree di ceti popolari abbandonati alle scorrerie del populismo della destra e alla rassegnazione.

E questo va fatto rilanciando anche a livello europeo l'Europa del Welfare State e dei diritti del lavoro,se no continuerà a diffondersi il modello Marchionne, l'arroganza dei più forti e la crescita delle disuguaglianze sociali. Dobbiamo immaginare su scala internazionale un cambiamento di paradigmi quale quello che si realizzò dopo le lunghe traversie seguite alla crisi del '29. Costruire una politica socialista oggi vuol dire mettersi sull'onda di cambiamenti di questa portata. Se si crea questa sintonia si può anche sperare di realizzare questo ambizioso disegno.

http://www.paneacqua.eu/notizia.php?id=15727
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« Risposta #41 inserito:: Settembre 11, 2013, 05:00:37 pm »

IL CAVALIERE E IL COLLE

Macaluso: "Napolitano coerente su Berlusconi: niente grazia tombale né voto col Porcellum”

Il grande vecchio del Pci, amico personale del presidente della Repubblica, osserva il braccio di ferro "Per me la legge Severino è costituzionale, ma il Pd non deve dare l’impressione di una decisione già presa"

di UMBERTO ROSSO


ROMA — Le eccezioni sollevate in Giunta dal Pdl? «Possono anche essere approfondite, così il Pd non offre l’alibi del plotone di esecuzione già schierato. I tempi non sono poi così essenziali. Vedrete, Berlusconi all’ultimo istante si dimetterà ». Il Cavaliere che spera sempre nel Quirinale per la grazia tombale? «Tutte balle. Napolitano è stato chiarissimo: niente clemenza sulle pene accessorie».

E i falchi berlusconiani che vogliono rovesciare il tavolo del governo?
«Nessuno si illuda. Il decreto di scioglimento delle Camere non lo firmano certo nè Brunetta ne la Santanchè. Napolitano non scioglierà finché resta in piedi il Porcellum ». Emanuele Macaluso, grande vecchio del Pci e grande amico del Colle, osserva il braccio di ferro e va controcorrente.

Senatore, il Pdl non sta cercando di far saltare le decisioni sulla decadenza?
«Battaglia persa. Lo ha spiegato perfino l’ex avvocato di Berlusconi, Pecorella, e ormai c’è anche la data per il processo: il 19 ottobre a Milano sarà ricalcolato il “quantum” di interdizione dai pubblici uffici per Berlusconi. E a quel punto finirà comunque fuori dalla scena politica».

E la guerra scatenata nella giunta per le elezioni?
«Una campagna politica. Una dichiarazione di esistenza in vita. Berlusconi spedisce l’ultimo messaggio ai suoi elettori: ci sono ancora, sono qui. Poi, un attimo prima che il presidente apra le votazioni, il Cavaliere si dimetterà».

Ne è sicuro?
«Berlusconi non darà mai al centrosinistra la soddisfazione di finire sotto i colpi di una votazione che lo dichiari incandidabile».

Il Pd fa muro contro le richieste del relatore Augello.
«Io penso che, se non servono solo a perdere tempo, le questioni si possano discutere e approfondire. Compresa la storia della retroattività.
Per me, che non sono giurista ma ho 41 anni da parlamentare sulle spalle, la Severino è pienamente costituzionale. Ma visto che ci sono illustri giuristi che sollevano dubbi... Sono d’accordo con Violante: consentire a Berlusconi di difendersi, non dare l’impressione di una decisione già presa».

Al Cavaliere non resta che insistere con Napolitano per un atto di clemenza tombale. Può ottenerla?
«No. Il capo dello Stato, nella sua nota del 13 agosto scorso, lo ha spiegato con estrema chiarezza. In quella dichiarazione, reagendo anche ad una campagna di falsificazioni e illazioni in cui si è distinto il Fatto, Napolitano ha spiegato che lui una grazia estesa anche alla pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, non la concederà mai. Non è materia di discussione. Una eventuale valutazione sarebbe circoscritta, quando e semmai dovesse arrivare una domanda di Berlusconi al Quirinale, alla condanna principale».

Il capo dello Stato «confida» nel sostegno dichiarato da Berlusconi al governo.
«Un riconoscimento alle parole pronunciate dal leader del Pdl, alle assicurazioni che sono state fornite al Colle, e di cui evidentemente è stato preso atto».

Però nel Pdl sono pronti ad affondare Letta se passa la decadenza.
«Un ricatto al Pd, ma sbagliano. Nel Pd sono divisi su tutto ma nel mettere fuori gioco il Cavaliere dentro il partito, dal “fiorentino” al “piacentino”, si ritrovano in totale sintonia».

Ma se Letta cade?
«Il decreto di scioglimento delle Camere non lo firmano certo i falchi del Pdl. Il presidente della Repubblica seguirà sempre gli interessi generali del paese, e non scioglierà mai senza una riforma del Porcellum».

Troppo alto il costo politico di tenere in vita il governo?
«Le larghe intese sono uno stato di necessità. Vittorio Sermonti ha torto nella sua lettera a Napolitano sul costo della difesa del governo, sono d’accordo con quel che gli ha risposto Scalfari».


(10 settembre 2013) © Riproduzione riservata

http://www.repubblica.it/politica/2013/09/10/news/emanule_macaluso_napolitano_sar_coerente_su_berlusconi_niente_grazia_tombale_n_voto_con_il_porcellum-66233324/?ref=HRER1-1
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« Risposta #42 inserito:: Marzo 16, 2014, 10:55:27 am »

Macaluso, una vita difficile: "Io, comunista, in galera per adulterio"
Lotte e storie private: i 90 anni dell'ex dirigente del Pci. "Togliatti più importante di Berlinguer"

di CONCETTO VECCHIO
   

ROMA - «A sedici anni mi ammalai di tubercolosi, mi diedero pochi mesi di vita, finii in sanatorio, a Caltanissetta era su in collina, un monte chiamato Babbaurra, là rimasi rinchiuso per molti mesi, non mi veniva a trovare nessuno, solo mio padre veniva, ma una mattina, sfidando il bacillo di Koch, mi trovai davanti Gino Giannone, il figlio del libraio della città. Era più grande di me, tante volte avevamo condiviso le nostre idee. Disse: 'Conosco i tuoi sentimenti. Se vuoi ti posso collegare al Partito comunista'. Tutto intorno a me sapeva di morte, ogni giorno usciva una bara, io invece mi salvai.
Avevo 17 anni, era il 1941, e fu così che per me inizia un’altra storia: un destino diverso da come fin là me l’ero aspettato».

Vogliamo provare a fantasticare cosa sarebbe diventato Emanuele Macaluso senza la politica, senza la pedagogia del partito? Perito minerario? Impiegato di concetto? «Lei non può immaginare la povertà nella Sicilia di quegli anni, nessuno la immagina più». E invece la politica è stata la sua grande avventura, attraverso tutte le tempeste del Novecento: dirigente sindacale negli anni di Portella della Ginestra; amico di Vittorini e Sciascia; l’incontro a Roma con Togliatti («fu freddo e cortese») con cui compie un viaggio in Russia; l’amicizia con Berlinguer; il sodalizio con Napolitano sbocciato nel Dopoguerra a Palermo, dove il futuro Presidente della Repubblica faceva il militare; le battaglie per il Mezzogiorno, le cupezze del terrorismo, la direzione dell’Unità. È lui a fare quel titolo «TUTTI» il giorno dopo i funerali di Berlinguer. Chi è stato più importante, per la sinistra, e per il Paese: Berlinguer o Togliatti? Ci pensa. «Togliatti, senza dubbio».

Testaccio, interno piccolo borghese. «La casa è tutta qui», Macaluso indica il salone pieno di libri ai quattro operatori di Repubblica tv che sono venuti per registrare l’intervista sui suoi 90 anni: li compie venerdì 21 marzo e Napolitano lo festeggia al Senato. Sono le 9 e ha già letto i giornali. «Mi sveglio alle sei, faccio colazione, poi passeggio un’ora sul Lungotevere, passo dall’edicola a comprare i quotidiani, la notte mi addormento con un romanzo in mano: dormo sei ore. Non male, no?». Ai muri due quadri di Guttuso, «insieme girammo la Sicilia quando lo candidai per il Pci al Senato». Fuori Roma splende di luce.

C’è stato un momento, durante l’intervista, in cui il silenzio si è fatto più spesso, l’attenzione di tutti più acuta: ed è stato quando ha raccontato della sua storia d’amore con Lina, «donna sposata », una relazione clandestina che costò ad entrambi il carcere per adulterio nel 1944. «Io avevo 19 anni, lei 23, ci conoscemmo a una festa da ballo pomeridiano a Caltanissetta. Si era maritata a 14 anni con un uomo di 35 anni che lavorava in Comune, e avevano due figli. Ci innamorammo perdutamente. Andammo avanti in segreto per un anno, poi, a Sicilia liberata, le dissi che dovevamo uscire dalla clandestinità: dalla doppia clandestinità che avevo fin lì vissuto, con lei e con il Partito comunista. Andammo ad abitare in un basso, nell’ostilità di tutti: dei miei, di sua madre, del partito. Una notte bussarono alla porta, era il maresciallo Vacirca, lo conoscevo perché il figlio era stato a scuola con me: 'Vi debbo arrestare'.
Trascorremmo alcune settimane nel carcere Malaspina, il processo si fece rapidamente, fummo condannati a sei mesi di reclusione». Per adulterio? «Per adulterio».

Dieci anni dopo uomini legati alla Dc lo denunciarono di nuovo, sostenendo in un esposto anonimo che i gemelli avuti da Lina, Pompeo e Antonio, non potevano essere figli loro, ma del marito di lei, perché così prevedeva la legge. Il magistrato lo avvertì: «Macaluso, lei rischia otto anni di carcere». Allora Amendola gli ordinò di sparire e mandò il grande avvocato Battaglia a risolvere il caso in Cassazione. Macaluso rimase chiuso per mesi in un casolare a Vignola, nel Modenese, in attesa della sentenza: per fortuna il verdetto fu favorevole. «Quella Dc era miserabile!» e si lascia andare nella poltrona.

Gli chiediamo la foto di Lina. Dice: «Non ce l'ho». E poi: «Non la trovo». Che generazione fatta col fil di ferro. A 17 anni comunista, a 19 sfida la morale comune per la donna di un altro, a 23 Di Vittorio lo promuove capo della Cgil siciliana. Perché si diventava uomini fatti così presto allora? «Io frequentavo solo adulti, gente più grande di me. C’era stata la guerra - le guerre - e c’era stato il fascismo: non si poteva parlare, questo portava a riflettere, a indagarsi». Macaluso voleva fare il ginnasio, ma nell’Italia classista il ginnasio era roba per ricchi, allora fece l’Istituto minerario, dove si non pagavano le tasse di iscrizione, «una scuola che non amavo, mi piaceva la letteratura, un’estate lessi tutto Jack London». E allora il racconto devia su Michele Calà, il compagno di partito che allo sbarco degli americani corre per mettere in salvo la biblioteca della loro cellula, piena di testi proibiti, e viene ferito ad una gamba da una scheggia. «Lo andai a trovare, l’avevano portato in un ospedale di fortuna, pochi giorni dopo morì». E qui Macaluso si commuove. «Pensi, è morto per salvare quei libri, per un pugno di libri!».

Interrompiamo la registrazione. Per alleggerire la tensione lo interroghiamo sul saggio che ha appena scritto su Togliatti per Feltrinelli. «È andato benissimo, è alla seconda edizione, lo sto presentando ovunque».

Ora la malinconia si è un po’ attenuata. Ha mai temuto per la sua vita? «Qualche volta. Con Li Causi andammo a Villalba a sfidare il boss, ci spararono addosso, il processo naturalmente fu una farsa». Riprendiamo a parlare di Berlinguer. «Per quattro anni dividemmo la stessa stanza, aveva silenzi lunghissimi, ma quelli così hanno dentro una grande tenacia, Sciascia era uguale. Enrico confidò solo a me e alla sua famiglia il sospetto di essere stato vittima di un attentato in Bulgaria nel 1973. 'Non parlarne con nessuno', mi disse. E io mantenni questo segreto fino al 1991».

Un pomeriggio squilla il telefono.

 «Sono Macaluso. Sono appena tornato da Messina, mi hanno dedicato un convegno all’Università. E poi avrei trovato la foto di Lina, venga domattina». Ed eccola Lina: slanciata, con un vestitino quasi corto in un pomeriggio di afa di settant’anni fa. «Era molto bella», davvero molto bella. Silenzio. «Ma io ho sempre avuto donne belle». E per la prima volta un lampo di malizia percorre lo sguardo del severo dirigente comunista che fu.

© Riproduzione riservata 14 marzo 2014

Da - http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/14/news/macaluso_una_vita_difficile_io_comunista_in_galera_per_adulterio-80959518/?ref=HREC1-8
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« Risposta #43 inserito:: Marzo 19, 2014, 11:52:44 am »

Intervista
"Matteo Renzi? E' una caricatura"
Emanuele Macaluso dà il voto ai leader
Lo storico dirigente del Pci e giornalista compie 90 anni e racconta i vertici della sinistra, da Togliatti in poi.
E sul presidente del Consiglio dice: "E' il prevalere dell'immagine mediatica sul progetto. Ma dopo di lui cosa c'è?"

di Marco Damilano
      
Il primo giorno di primavera, il 21 marzo, saranno novanta, Emanuele Macaluso li festeggerà al Senato con l’amico di sempre, Giorgio Napolitano. Dirigente del Pci, capo della destra interna (i miglioristi), disciplinato ma libertario, fedele al partito ma con il gusto dell’anti-conformismo e dell’autonomia di pensiero, polemista fulminante, nella casa romana di Testaccio Em.Ma. Ripercorre decenni di vita politica. Memoria di ferro, giudizi sferzanti: «Matteo Renzi? Vuole dare il cioccolatino a tutti, ma farà il botto». E previsioni: «Napolitano se ne andrà e questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».

L’infanzia a Caltanissetta, la famiglia operaia, l’Istituto minerario, il ricovero per tubercolosi, l’amicizia con Leonardo Sciascia, l’adesione al Pci nel 1941 («a convincermi fu un ragazzo più grande di me, Gino Giannone, mi venne a trovare nel sanatorio, tranne i miei genitori nessuno lo faceva, e mi disse: se vuoi fare una battaglia vera l’unica organizzazione è il Pci. Non conoscevo né Gramsci né Togliatti, divenni comunista per ribellione»), la Cgil («Con trentasei sindacalisti uccisi, la lotta alla mafia allora non si faceva a chiacchiere, dopo la strage di Portella della Ginestra del 1947 toccò a me il primo comizio, avevo 23 anni»). Infine, l’arrivo a Botteghe Oscure: «Nel 1956, in mezzo ai fatti di Ungheria, passai dalla Cgil al Pci. Mi trovai tra due fuochi, tra Giuseppe Di Vittorio e Palmiro Togliatti. Leggendo anni dopo i verbali della direzione in cui ci fu il loro durissimo scontro sull’invasione sovietica ho scoperto che nella stessa riunione Di Vittorio protestò perché ero stato spostato dal sindacato al partito. Nel ’62 entrai nella segreteria».

Da chi era composta?
«Togliatti, Longo, Berlinguer, Amendola, Pajetta, Alicata, Natta e Ingrao. E poi c’ero io, il più giovane della compagnia».

Uno squadrone. Tipo l’Inter di Herrera.
«Longo era il numero due, Berlinguer era il responsabile dell’ufficio di segreteria, la gestione interna toccava a lui. Nasce lì il mio rapporto forte con Enrico, per quattro anni non c’è stato giorno in cui non siamo stati insieme, il nostro rapporto di amicizia e di fiducia andava oltre la politica. Raccontò solo a me e alla famiglia di aver subito un attentato in Bulgaria nel 1973. E anche quando fui in dissenso con lui mi chiese di fare il direttore dell’“Unità”. Napolitano era il presidente dei deputati, Gerardo Chiaromonte il capogruppo del Senato, anche loro avevano contrastato la sua ultima svolta. C’era un modo di concepire la lotta politica interna al partito che non è paragonabile a oggi».

Il Pci è stato un partito o una religione?
«Anni fa ebbi un bellissimo scambio con Montanelli. Il Pci è stato una Chiesa, mi scrisse, e anche tu sei stato un chierico. In parte era vero, più che una chiesa la consideravo una comunità, una mezza chiesa, in cui si facevano i conti sul piano politico e sui comportamenti privati».

Aveva trasgredito qualche precetto?
«Da giovane ero stato in carcere, condannato a sei mesi e mezzo per adulterio con la mia compagna Lina che era già sposata e con cui ho avuto i miei due figli. Una storia che non finì li. Anni dopo, ero deputato regionale, ebbi uno scontro violentissimo con la Dc sulla giunta Milazzo. I carabinieri dei servizi fecero un’inchiesta sulla mia famiglia, scoprirono che avevo registrato i miei bambini all’anagrafe come “figli di Emanuele Macaluso e di donna che non vuole essere riconosciuta”, allora non c’era il divorzio. Mi volevano condannare per alterazione dello stato civile, da otto a dodici anni di carcere, un giovane magistrato, Emanuele Curti Giardina, mi mise in guardia. Mi salvai perché la Cassazione con una sentenza che fece epoca annullò il reato. La Dc voleva liquidarmi con questi metodi. Quando sento parlare con nostalgia della Prima Repubblica ricordo che c’era una guerra politica che si svolgeva con armi proprie e armi improprie».

Nel Pci come fu presa la sua irregolarità?
«Nel primo caso fui accusato di avere una condotta non confacente, mi vietarono di partecipare al primo corso politico di formazione nazionale del Pci. Nel secondo, invece, fui difeso. Andai latitante a Modena, in Emilia, a casa di un contadino, Giorgio Amendola mi portò dall’avvocato Battaglia».

Nel Pci erano tutti con le carte in regola?
«Macchè! Togliatti fu costretto a chiedere al partito una commissione per decidere sulla sua convivenza con Nilde Jotti, Longo aveva lasciato Teresa Noce, quasi tutti i dirigenti erano nella stessa situazione, tranne Amendola che era molto intransigente. E il mio maestro Girolamo Li Causi: lui era stato mollato dalla moglie che si era messa con Riccardo Lombardi. Pertini s’indignava con me: “Come fai a essere amico di Lombardi che si è messo con la moglie di Li Causi mentre lui era in carcere?”. Io replicavo che Li Causi riteneva la cosa chiusa e aveva trovato al suo posto una ragazza bellissima... Ma nessuno nel gruppo dirigente faceva una battaglia aperta contro questo moralismo. Era lo specchio di un partito che era una comunità, una famiglia».

Cinquant’anni fa fu lei a organizzare i grandiosi funerali di Togliatti. Il Pd di Renzi dovrebbe celebrare il capo del Pci?
«Dovrebbero celebrarlo tutti quelli che difendono la Costituzione. Dovrebbe saperlo il professor Gustavo Zagrebelsky: non si può alzare quella bandiera e poi sputare su Togliatti. Senza Togliatti quella Costituzione non ci sarebbe stata».


Ci sarebbe stato il Pci?
«Sì, ci sarebbe stato un partito comunista in Italia, come in tutti i Paesi europei, ma che comunismo sarebbe stato? Con la svolta di Salerno Togliatti salvò l’Italia. Cambiò tutto: dalle occupazioni delle terre contro la legge alla lotta per l’applicazione della legge, dal ribellismo alla politica. Togliatti ha costruito una sinistra che pensa al governo».

I suoi eredi lo hanno esaudito...
«Eh, già... tranne il povero Occhetto sono tutti andati al governo, tutti ministri: D’Alema, Veltroni, Fassino, Livia Turco, Bassolino, Bersani, Mussi... ma senza un progetto, senza un orizzonte politico. La crisi della sinistra nasce da qui: quando il Pci era all’opposizione aveva un progetto di governo, quando il Pds-Ds-Pd è andato al governo non ha avuto più un progetto, una direzione. Togliatti voleva andare democraticamente e gradualmente verso il socialismo, sarà stato sbagliato, ma ora verso cosa si va? Verso niente! L’obiettivo di stare al governo è scisso totalmente da un’idea di società».

Quando è finito il Pci?
«Nel 1984, dopo la morte di Berlinguer, il Pci alle elezioni europee diventò il primo partito, io ero in tv a commentare, allora la Rai faceva sedere gli ospiti politici in ordine di grandezza, spostai la sedia e mi misi prima del dc Giovanni Galloni, feci io il sorpasso... Però è vero che in quel momento il Pci cominciò a declinare. Cambiò il gruppo dirigente, Natta promosse gli elementi più anti-socialisti della nuova generazione, i riformisti furono esclusi. Anche se fummo Napolitano, io e altri, nell’86, a inserire nelle tesi del congresso di Firenze la frase sul Pci “parte integrante della sinistra europea”».

Che effetto le fa vedere che il processo di adesione al Pse è stato concluso da Renzi?
«Alcuni amici mi dicono che Occhetto è incazzatissimo perché rivendica di essere lui tra i fondatori del Pse. Forse avete ragione, ho risposto, ma se non me ne sono accorto io, figuriamoci gli altri!».

Chi è Renzi nella storia della sinistra? Un intruso? Un invasore? O il risultato più compiuto della svolta dell’89, la Bolognina?
«Quando nel 2007 è nato il Pd con la Margherita dissi che eravamo al capolinea. Il Pd è stata un’operazione rovesciata rispetto alla storia complessa della sinistra europea. E ora Renzi è l’espressione più radicale dei tratti distintivi della Seconda Repubblica: il prevalere dell’immagine mediatica e della comunicazione sul progetto. Mi sono stropicciato gli occhi quando ho visto Renzi baciarsi e abbracciarsi con Landini dopo averlo fatto con i finanzieri della City. Mi è venuto in mente Alcide De Gasperi che governava con il sindacato e con la Confindustria, l’interclassismo...».

Gli fa un complimento enorme!
«Ma no! Quello di Renzi è una caricatura, è l’interclassismo del cioccolatino: uno a Landini e uno a Squinzi. Arrivato a novant’anni, confesso, ho un’angoscia: se fallisce Renzi dopo di lui cosa c’è?».

Angoscia condivisa. Cosa si risponde?
«Che non c’è niente. La mia preoccupazione è che Renzi andrà a fare il botto, come si dice in Sicilia. Fa un grande gioco, sta con Landini e con Squinzi, con Berlusconi e con Alfano e con la sinistra del Pd. Ritiene che il suo carisma gli consentirà una manovra a maglie così larghe da portargli rapidamente i risultati. Perché appena dovesse mostrarsi una difficoltà lui andrà alle elezioni. Dirà: non mi fanno fare le cose, con questi non posso lavorare, andiamo al voto. Per questo ha cominciato con la legge elettorale».

Su cui si sono già aperte le prime crepe...
«Renzi si sta già accorgendo che le cose sono più complicate. Il voto sulle quote rosa sull’Italicum è stato un segnale. Ma il punto nodale della legge elettorale è la preferenza. La preferenza è la rivoluzione che rompe il berlusconismo, il grillismo. E anche il renzismo».

Rino Formica scrive che è in corso un golpe della coppia Br (Berlusconi-Renzi) per stravolgere la Costituzione e sostituire Napolitano al Quirinale. Fantapolitica?
«Formica non dice mai fantasie. Quando denuncia l’abolizione di organi costituzionali con l’articolo 138 fa una critica intelligente, ha ragione. Vogliono abolire il Senato? E allora perché non anche la Camera? E perché non sottrarre, almeno in linea teorica, la sovranità popolare?».

Lei è uno dei più cari amici di Napolitano: firmerà questa legge elettorale?
«Come ha detto lui, la valuterà con attenzione».

Cosa è cambiato per Napolitano con Renzi al governo?
«Dopo la crisi del berlusconismo il presidente ha puntato su Mario Monti per ristabilire il rapporto con l’Europa. Ma con le elezioni Monti ha fatto la coglionata più colossale che la storia politica repubblicana ricordi, invece di fare l’uomo delle istituzioni è andato a fare un partitino con alcuni residuati bellici. Poi c’è stata la rielezione, con Bersani e Berlusconi che andarono a chiedere in ginocchio al presidente di restare. Lui aveva già organizzato il suo ufficio in Senato, la sua casa nel quartiere Monti, aveva perfino scelto i suoi collaboratori. E invece è stato costretto a restare e ha scelto Enrico Letta per la guida del governo. Letta si è dimostrato un po’ lento, ma è una delle poche personalità che ha il senso della complessità del governo. E dopo le primarie è scattata l’opposizione vera, non era quella di Berlusconi ma di Renzi. La crisi è stata decisa dalla guerriglia nel Pd. Napolitano ha preso atto delle dimissioni obbligate di Letta, non poteva fare altro. Con Monti e Letta c’erano governi originati da una crisi in cui il presidente era stato obbligato ad avere un ruolo. Con Renzi non è più così. Cambia la ragione sociale per cui rimane al suo posto».

Fino a quando resterà?
«Resta al Quirinale perché vuole che si faccia la riforma elettorale. Ma ritengo che manterrà fede a quello che ha detto in Parlamento al momento della rielezione. Approvata la legge elettorale Napolitano farà un ragionamento, ricorderà che a tutto pensava tranne che a un secondo mandato, che ha cercato di sanare una situazione di crisi e di paralisi istituzionale, che c’era un tempo di diciotto mesi per fare le riforme. Se ne andrà prima. E questo Parlamento dovrà eleggere il suo successore: lì ti voglio».

Di Amendola, citando Sciascia, lei ha scritto: «Contraddisse, e si contraddì». Si può dire anche di lei?
«La contraddizione è nella persona. Chi ritiene di essere sempre stato coerente lo considero un ipocrita. E io mi sono contraddetto più volte».

13 marzo 2014 © Riproduzione riservata

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