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Autore Discussione: POLITICA E POLITICANTI  (Letto 21239 volte)
Arlecchino
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« Risposta #15 inserito:: Giugno 04, 2007, 12:22:00 am »

3/6/2007 (8:9) - RETROSCENA

Cdl delusa: Quirinale sempre contro
 
«Alla fine l'incontro non ci sarà, tanto è inutile»

UGO MAGRI


Chiunque venga interpellato, tra i personaggi più in vista del centrodestra, si confessa deluso da Giorgio Napolitano. «Troppo comodo», è lo sfogo collettivo, «cavarsela alla Pilato dicendo: la rimozione del generale Speciale l’ha decisa il governo, io non c’entro». Da Berlusconi in giù, sono invece tutti convinti che il Presidente della Repubblica c’entri, eccome.Omeglio: c’entrerebbe, come sostengono apertis verbis i leghisti Calderoli e Castelli, se non fosse «a sovranità limitata» e volesse interpretare con equità il suo ruolo super partes. Ma «siccome Napolitano stesso chiede di non essere tirato in ballo, e scambia il Quirinale per un pensionato, allora non ha più nemmeno significato insistere per ricevere udienza».

Già, perché l’orientamento che sta maturando ai vertici della Cdl, dopo la tensione di ieri col Quirinale, è quello di lasciar perdere Napolitano. Di rinunciare cioè a chiedere un incontro solenne con il Presidente della Repubblica sul caso Visco-Speciale, «perché con queste premesse sarebbe solo una reciproca perdita di tempo». L’Udc è contraria, come ha detto il segretario Cesa. Addirittura, argomentano ad Alleanza nazionale, «tornare dal Colle a mani vuote darebbe alla battaglia di opposizione un senso di inutilità. Meglio dunque evitare». Berlusconi sembrava ieri mattina più dubbioso, anche perché tra i suoi c’è chi gli dice «vai» e chi «non andare », cosicché lui muta opinione a seconda degli interlocutori. Macon gli alleati che frenano, e l’unità del centrodestra da ricostruire, impossibile che il Cavaliere voglia salire al Colle da solo.

Di certo, almeno agli occhi di Berlusconi e dei più fidi scudieri, il Capo dello Stato non ha fatto una gran figura. Confida Schifani, presidente dei deputati azzurri, che «Napolitano è calato di alcuni punti nella nostra considerazione. Ogni giorno non perde occasione per esternare su argomenti come la riforma della legge elettorale. Come può chiamarsi fuori di punto in bianco?». Nonostante il prodigarsi di Gianni Letta per «oliare» i rapporti con il Colle, permane un senso di diffidenza quasi insuperabile. Chissà se è vero lo sfogo attribuito a Berlusconi: «Comunque la giri, da Scalfaro a Ciampi a Napolitano, il Quirinale finiamo per ritrovarcelo sempre contro. E pure stavolta è andata così...». Però gli umori sono questi. Accusa Cicchitto, numero due del partito: «Qui è accaduto un fatto che forse qualche consigliere del Colle sottovaluta: l’opposizione tutta insieme ha parlato di emergenza democratica. E-mer-gen-za! Dinanzi a un’accusa di tale gravità, sostenuta da un fronte compatto, un garante della Costituzione non può girarsi dall’altra parte». Perfino un portavoce misurato come Paolo Bonaiuti osserva secco che «d’ora in avanti agli appelli al dialogo, da qualunque parte provengano, risponderemo: non si può dialogare con chi taglia impunemente la testa al comandante della Guardia di Finanza».

La prima conseguenza si avrà al Senato. «A questo punto bloccheremo tutto, non faremo passare più niente», annuncia il leghista Roberto Calderoli. Che già mercoledì prossimo, quando il «caso Speciale» arriverà nell’aula di Palazzo Madama, conta di esibirsi in una delle sue celebrate «trappole». In pratica la mozione del centrodestra che punta a sfiduciare Visco verrà ritirata e sostituita da un’altra mozione, di fiducia alla Guardia di Finanza e ai suoi vertici. «Se la votano è un colpo al governo», si frega le mani soddisfatto Calderoli, «se la bocciano dichiarano guerra alla Finanza. A quel punto le Fiamme Gialle dovrebbero dimettersi in blocco...». Verrà contestata la destituzione del comandante generale pure sul piano della legittimità giuridica, in attesa dei ricorsi che già si annunciano. E quel vecchio navigatore di Pisanu sta operando dietro le linee per spingere qualche «malpancista» dell’Unione a passare il fronte.

Ma il vero fine stavolta non sarà la «spallata ». Ammette Schifani: «Mi sembra difficile, a sinistra si sono ricompattati». L’obiettivo reale è tenere alto il livello dello scontro in vista dei ballottaggi, tra 10 giorni. Non per niente il braccio di ferro con la maggioranza si annuncia sulla richiesta di diretta televisiva e sullo spostamento d’orario del dibattito: dalla mattina, quando in tivù ti guardano solo le massaie, a poco prima dei tigì, con il massimo dell’audience.

da lastampa.it
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« Risposta #16 inserito:: Giugno 04, 2007, 10:53:34 pm »

Un caso Speciale

Furio Colombo


Chi ha buona memoria e non ha mai smesso - come è giusto in ogni Paese libero - di avere a cuore le sorti della democrazia, dovrà oggi aggiungere alle stagioni di rischio attraversate da questa Repubblica e note con i nomi del principe Borghese e del generale De Lorenzo, il nome del generale Speciale. Si tratta infatti della terza prova di forza e inizio (o progetto calcolato) di scontro tra potere politico e settori militari della Repubblica. Una differenza allarmante, è che la Repubblica ha affrontato i primi due rischi di minaccia militare contro la politica in un clima di solida e vasta presenza popolare nei partiti protagonisti della vita in Parlamento, con una parte della stampa capace di avvertire tempestivamente del pericolo, e senza che vi fossero legami evidenti e clamorosi (come questa volta) fra alcuni militari ribelli e una parte consistente della politica. Questa volta il generale che ha deliberatamente ignorato gli ordini ricevuti, ha compiuto, anche in modi deliberatamente maleducati, un atto di insubordinazione insieme, si deve credere, ad un gruppo di altri alti ufficiali, si è presentato di fronte all’ex primo ministro Berlusconi durante la parata del 2 giugno e ha esclamato, con intenzionale teatralità «sempre agli ordini, presidente». In quel momento pezzi importanti del piano P2 si sono saldati. Berlusconi tiene ancora sotto intimidazione la parte di media che non possiede direttamente (ma è difficile dire, data l’estensione dell’azionariato che controlla, di quello che "persuade" e delle infinite "scatole cinesi" attraverso cui circola la sua ricchezza), usa senza finzioni le sue televisioni, fonda, attraverso una signora ricca, petulante e - a parte i capelli - del tutto inesistente, detta "l’erede", un nuovo "giornale della libertà" foglio del regime che verrà se l’esempio golpista dovesse diffondersi.

Annuncia clamorosamente, il proprietario di tutti i media privati italiani, l’arrivo della «tv della libertà», «la tv della gente fatta dalla gente», niente di più sudamericano, lungo un percorso che va da Peron a Chavez, sempre al di fuori di ogni regola democratica e costituzionale.

È evidente quello che è accaduto, e sta ancora accadendo. Poiché nonostante l’incapacità espressiva e comunicativa del legittimo governo Prodi, la spallata non c’è stata e la forza della opposizione distruttiva lanciata da Berlusconi paralizza le Camere ma non è riuscito ad affondarle, poiché la formula esclusiva della piazza, benché tentata due volte, con e senza vescovi, non ha rovesciato il Paese, occorrevano i militari.

Chi scrive crede fermamente che tutti gli altri vertici militari italiani che hanno giurato fedeltà alla Costituzione, non si uniranno alla mossa illegale, incostituzionale e - rispetto alle regole democratiche - estrema del generale Speciale. Ma il generale Speciale, «sempre agli ordini», ha dato il via al suo piano ben preparato, che appare in curiosa e interessante sintonia con il piano «Peron-Chavez-Brambilla» di Silvio Berlusconi.

Purtroppo, nonostante l’evidente striatura di ridicolo che attraversa la vita e le opere (quelle pubbliche, politiche) di Silvio Berlusconi, la vicenda non fa ridere. Ricorda i film di Tognazzi, quando Berlusconi, il 2 giugno, si fa circondare da «ali di folla» mentre va alla parata (famiglie di militari appostate per l’evento, ci dicono alcuni giornali, ma certo non c’erano i familiari dei morti di Nassiriya). E l’effetto Monicelli scatta in pieno quando l’ex comandante della Guardia di Finanza si fa deliberatamente sentire da tutti mentre grida «sempre agli ordini». Ma in quella frase il generale ci dice a quali ordini si ubbidisce (quelli di Silvio Berlusconi) e a quali ordini si disubbidisce, marcando il tono di ribellione e disprezzo: quelli del vice ministro Visco, notoriamente uno dei personaggi da umiliare e da abbattere, nella visione berlusconiana di un mondo di liberi ricchi possibilmente fuori da ogni legalità e sgombro di tasse.

Che cosa sia accaduto e di quanti gradi ciò che è accaduto, protagonista il gen. Speciale, si separi dalla legge e dalle regole democratiche, lo ha raccontato in modo incontestabile Eugenio Scalfari su La Repubblica di domenica. Il generale Speciale, nega, resiste, si oppone, non risponde, fa ascoltare in viva voce le telefonate del suo legittimo superiore, per poi passare i materiali direttamente al Giornale di Berlusconi («sempre agli ordini»). E quando il dissenso è clamoroso e inaccettabile per il legittimo capo e responsabile politico (il ministro) il generale mostra di non vedere il solo onorevole percorso a disposizione di un militare che rifiuta gli ordini: dimettersi.

Invece oppone ribellione, si arruola apertamente nella politica della parte avversa al governo (ovvero rivela i veri legami) pretendendo di restare generale comandante di una delle tre forze di polizia del Paese.
La destituzione che segue è inevitabile e legittima. Già il presidente emerito Cossiga aveva chiaramente ammonito: «Un generale può dimettersi ma non può disobbedire». Il caso dunque è tra i più gravi nella storia della Repubblica, anche perché alcune delle conseguenze avvelenate e perverse possono ancora verificarsi.
Il mondo di Berlusconi è fittamente popolato di personaggi stravaganti, di una tipologia non disponibile fuori dal mondo del realismo magico sud americano. Ma quando uno di questi personaggi è generale, è armato, è circondato da altri generali, comanda una parte delle forze armate del Paese e si esprime come se fosse doppiato da Bondi, Baget Bozzo e (nei suoi giorni peggiori) da Tremonti (si veda l’intervista sul Corriere della Sera del 3 giugno) il gioco cambia e la farsa si avvicina bruscamente al dramma.

Tutto ciò non sottintende che, nel confronto fra un politico e un militare, il politico abbia per forza ragione. Ripeto Cossiga: «Il militare obbedisce o si dimette. Non gli è consentita la sfida». Ma il politico risponde senza rete al Parlamento e, se del caso alla autorità giudiziaria. Mai attraverso la ribellione concertata fra militari e partiti politici avversi. Mai facendosi rappresentare dalla furente dichiarazione di guerra dell’ex ministro degli Esteri Fini, che, a Santa Margherita Ligure, di fronte all’assemblea dei giovani industriali, rifiuta in modo insultante un dibattito col ministro Bersani, accusato di essere complice di Visco. Evidentemente per Fini si possono liberamente licenziare sui due piedi giornalisti e autori di libera satira. Ma non si può nemmeno parlare con il membro di un legittimo governo che ha dimesso un generale. Perché dei giornalisti e dei civili in genere - ci dice, con un curioso automatismo del passato - Gianfranco Fini puoi fare quello che vuoi. Ma se tocchi un generale «è una porcata».

È bene dirlo. È un linguaggio golpista. Per fortuna a quel linguaggio il presidente della Repubblica ha risposto con fermezza.
furiocolombo@unita.it

Pubblicato il: 04.06.07
Modificato il: 04.06.07 alle ore 8.35   
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« Risposta #17 inserito:: Giugno 06, 2007, 04:24:47 pm »

Se la politica diventa giovane

Giovanni Berlinguer


Caro Direttore,

leggendo i commenti sulla politica d’oggi, sento dire spesso che i giovani non la frequentano, anzi la respingono. Avrei voglia di rispondere, in questi casi, che la colpa è della politica, perché essa allontana i giovani, non essendo i suoi metodi molto esaltanti ed i suoi spazi molto accessibili.

Vorrei anche aggiungere che essi hanno qualche ragione per diffidarne, a causa dell’incuria, delle omissioni e delle distorsioni, perpetrate nei confronti delle loro esigenze, che hanno caratterizzato quasi tutti i recenti governi, dalle carenze del sistema scolastico alla moltiplicazione del lavorio precario e a un sistema pensionistico che rischia di escluderli.

Malgrado ciò, vedo crescere rapidamente, tra giovani e giovanissimi, col contributo di buone volontà o di istituzioni locali, un interesse diffuso per la cultura. Solo negli ultimi mesi vi sono state originali manifestazioni nei campi più disparati, presentate con rigoroso livello congiunto a forme spettacolari, che sono state seguite in modo attento e appassionato da migliaia di giovani. Mi riferisco al festival delle letterature di Mantova, alle lezioni di economia e finanza svolte a Trento, alle scuole aperte di matematica, alle lezioni di storia di Roma, dalla nascita ad oggi, presentate nel grande Auditorium, insufficiente a raccogliere tutti. Mi riferisco anche al nascere di “scuole politiche”, avviate da associazioni o da partiti, e a personalità politiche che svolgono conferenze itineranti con temi e toni che vanno oltre le polemiche quotidiane e che possono costituire un antidoto alle invadenti, devastanti e scoraggianti esibizioni televisive dei soliti noti.

Da questi eventi maggiori, e da molteplici notizie e sensazioni minori, traggo l’impressione che il divorzio tra cultura e politica, durato ormai un ventina d’anni, possa avviarsi a una qualche ricomposizione; e ne vorrei dare una personale e recente testimonianza.

Mi riferisco al Progetto Gutemberg della città di Catanzaro, quinta edizione, intitolato «Fiera del libro, della Multimedialità e della Musica».

Avviato nel 2003 dal Liceo classico Galluppi e dal suo preside Armando Vitali, esteso poi a molte scuole della Calabria e ai ragazzi delle media, ha compreso concerti e spettacoli, mostre di pittura, di fotografia, attività medianiche e multimediali, mostre didattiche, e soprattutto libri e libri da leggere e da commentare. La formula è stata molto semplice: proporre libri meritevoli di attenzione alla discussione degli alunni (o accogliere le loro proposte), per poi lavorarci insieme nelle classi, studenti e insegnanti, e arrivare infine al confronto diretto con gli autori e con altri interlocutori.

Dal 28 maggio al 1° giugno la città è stata animata dalle scuole, e le aule sono state terreno delle molteplici domande, contestazioni, proposte dei giovani, sugli argomenti più disparati: la Palestina e il Medio Oriente, l’incontro tra civiltà, i codici matematici, il futuro del clima, la bioetica, la democrazia che non c’è, la Costituzione fra memoria e futuro, le città della Magna Grecia, il rapporto fra musica e letteratura, la memoria critica del comunismo, l’etica e la politica in Platone, e così via per cinque giorni, seguito ogni sera da concerti e spettacoli.

Tutto ciò mentre sentiamo ripetere come una filastrocca per i bambini che «si allarga la frattura tra i cittadini e i palazzi». Ma vorrei dire che ci sono palazzi e palazzi. Questione di contenuti e di contenitori, di valori e di persone, di pratiche partitiche e canali di partecipazione. La scuola, il suo essere momento fondamentale della costruzione della coscienza e del saper stare insieme come cittadini, torna ad essere un avamposto decisivo per sedimentare un comune senso civico fatto di diritti e doveri, di libertà e rigore. Nel mondo dell’educazione e della cultura, ma potrei dire le stesse cose per la sanità, situazioni ed esperienze come quella di Catanzaro sono meno isolate di quanto possa apparire a prima vista.

Davanti agli studenti e ai loro insegnanti ho sentito quanto sia insieme urgente e possibile ristabilire legami di fiducia tra lo Stato e i cittadini. Non è vero e non è giusto affermare che le istituzioni sono popolate solo di inquisiti e di sfaccendati, mentre le persone libere e perbene - la società civile per capirci - vengono emarginate, oppure preferiscono starsene alla larga. La legge elettorale del centrodestra, con i suoi meccanismi di “nomina degli eletti” da parte dei vertici di partito, è stata come il sale sulle piaghe. I partiti si sono ancor più arroccati, chiusi al dialogo, sordi alle richieste di pulizia, trasparenza ed efficacia che vengono in particolare dai lavoratori, dai giovani e dalle donne.

I “costi della casta”, per dirla con la fortunata espressione del libro di Rizzo e Stella, sono sotto gli occhi di tutti, e ben vengano tutte le misure per tagliare sprechi e ridurne il peso sui bilanci pubblici. Ma penso, e mi auguro, che si debba innanzitutto cambiare il clima di questo nostro paese diviso e arrabbiato. Un clima che premi la passione, la voglia di far bene, che restituisca il gusto di dire la propria, di contare, di esserci. Che dia senso e futuro all’entusiasmo che ho colto in quei giovani che si sono appassionati a leggere un libro, vedere uno spettacolo, discuterne tra loro e confrontarsi con gli autori e gli attori, che erano lì, a portata di mano e di voce, e non freddi e distanti come i leader dei partiti ospiti in questo o quel salotto televisivo.

Pubblicato il: 06.06.07
Modificato il: 06.06.07 alle ore 8.50   
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« Risposta #18 inserito:: Giugno 07, 2007, 10:22:45 am »

POLITICA
IL COMMENTO

Il sintomo dell'infezione
di GIUSEPPE D'AVANZO


LO SPETTACOLO andato in scena al Senato è una danza macabra per il Paese, autolesionista per il Palazzo. Il governo salva la ghirba. La maggioranza c'è e si mostra compatta nell'approvare il comportamento dell'Esecutivo nell'"affare Speciale".

Tirato il sospiro di sollievo, appare difficile tirare avanti come se non fosse successo niente o poco. Perché quel che è accaduto, in questi giorni, è ben più grave di una indecorosa rissa politica. È uno scricchiolio della nostra democrazia. Un comandante generale della Guardia di Finanza - appena ieri "sempre agli ordini" della discrezionalità di Giulio Tremonti e oggi scorretto, sleale, opaco con il nuovo governo, come sostiene il ministro Padoa-Schioppa - scatena un conflitto contro l'Esecutivo in carica.

E collabora, laboriosissimo, alla preparazione di una trappola politica, favorita da qualche mossa grossolana del vice-ministro Visco e soprattutto, diciamo così, dall'amore per il quieto vivere del governo.

L'interesse pubblico di questo affare non è nel cinismo del generale - fin troppo tardi rimandato a casa - né nella sua spregiudicata affezione alle fortune della destra a cui ha piegato la funzione pubblica e la dignità di soldato. Quel che più conta e preoccupa è che l'opposizione ritiene di usare questo imprudente ferro di bottega per manomettere l'equilibrio politico e disarcionare il governo eletto appena un anno fa.

Che il centro-destra di Silvio Berlusconi ci riproverà è, purtroppo, una facile previsione. Il programma immediato dell'opposizione, a giudicare questo "caso Speciale", sembra prevedere la sostituzione del confronto politico con una "guerra" di rivelazioni scandalistiche, notizie manipolate, campagne di stampa alimentate da segmenti di apparati dello stato che si mettono al servizio di un interesse politico.

Questa strategia l'abbiamo sotto gli occhi da anni. Le bufale Telekom Srbija e Mitrokhin non sono state altro. Altre bufale possono venire. Sono in giro nel sottosuolo del "mercato della politica" muffe e tossine che basta raccattare e gettare in faccia all'avversario accompagnando il gesto con un'adeguata grancassa mediatica. L'alambicco può distillare umori maligni a ogni passaggio critico del dibattito pubblico. Se ne è avuta una conferma, appena ieri, con il frammento di un dossier calunnioso per Massimo D'Alema.

Organizzato da una grande agenzia di investigazione americana (Kroll) sulla base di "informazioni" raccolte dall'intelligence italiana, è stato diffuso dagli spioni della Telecom e consegnato - accreditato e ingrassato a dovere - di nuovo alla nostra intelligence. Dio solo sa che ci ha fatto o intendeva farne. Un test in più (come se ce ne fosse bisogno) della presenza nel sottosuolo del Palazzo di un network legale/clandestino incardinato in ambienti del Sismi di Nicolò Pollari, nella Security della Telecom, in agenzie d'investigazione private, disponibile a un lavoro di pressione, condizionamento e ricatto.

Gattino cieco ieri mentre il network prosperava, il centro-sinistra oggi guarda al dito e non vede la luna. Indeciso a tutto, tentato dal compromesso, diviso al suo interno, debilitato dal tarlo ossessivo della sua debolezza, confonde l'allarme pubblico per quella presenza illegittima con una critica ai suoi passi. Vede fantasmi ad ogni angolo. Non si risolve ad intervenire con decisione, come dovrebbe, là dove si addensano le ombre e le propaggini di quella minaccia che ha lasciato colpevolmente incubare. Non si accorge che l'"affare Speciale" è un sintomo. Quanto meno della paralisi in cui può essere precipitato il governo e il Paese.

Ma, più probabilmente - e peggio - è l'annuncio di una stagione infetta che soltanto una decisione irresponsabile può consentire all'opposizione di sposare e soltanto alle timidezze della maggioranza di non prevenire con energia.

Il sistema politico - l'intero sistema politico, il centro-sinistra come il centro-destra - appare sordo e cieco dinanzi al pericolo, prigioniero di una litigiosità autoreferenziale, che non sembra mai incontrare il bene pubblico e l'interesse generale. Nessuno attore politico - se non qualche mosca bianca - sembra comprendere che la radicalità del conflitto ingaggiato non avrà un solo vincitore, ma tutti perdenti.

La crisi di credibilità verso le élite di governo - ha ragione D'Alema - può spingere il Paese verso una deriva dove le quote di sfiducia per la politica (oggi, sette italiani su dieci) non possono che aumentare. Non si può che essere scoraggiati e preoccupati. La qualità del dibattito, vissuto quotidianamente come uno "scontro tra civiltà", spinge gli uni contro gli altri a testa bassa. Persuade i due schieramenti a ritenersi e a proporsi come il solo luogo abitato da opinioni politiche compatibili con il quadro democratico. Una convinzione che lascia immaginare la propria sconfitta come un evento catastrofico.

Questa contesa che non prevede prigionieri caccia in un canto la politica, le responsabilità pubbliche, le sfide e le urgenze del Paese. Lascia emergere soltanto il peggio. Fino a lasciarsi tentare - come è avvenuto al centro-destra di Silvio Berlusconi - di servirsi delle rivelazioni truccate di un generale per abbattere un governo. Ci fermeremo qui? Nell'interesse di tutti, dei cittadini e di chi li governa, conviene fermarsi qui. Le mura di una democrazia così giovane non sono indistruttibili.


(7 giugno 2007) 

da repubblica.it
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« Risposta #19 inserito:: Giugno 07, 2007, 03:34:54 pm »

Il retroscena

Tra i dalemiani spuntano i sospetti «Qualcuno trama contro di noi»


ROMA — D'Alema è da Prodi a Palazzo Chigi, quando al Senato si riunisce una sorta di comitato d'emergenza dei Ds. Nelle stanze della capogruppo dell'Ulivo Finocchiaro, Fassino è a colloquio con il tesoriere del partito Sposetti e con il senatore Calvi, che è l'avvocato storico del partito. La giornata più drammatica per la Quercia è appena iniziata: sulla Stampa i dirigenti diessini hanno appena letto di un dossier in cui si parla di presunti conti segreti di D'Alema in Brasile, mentre dal Corriere sono venuti a sapere che a Milano il gip Forleo — a cui è affidata l'inchiesta sulle scalate bancarie, compresa quella di Unipol a Bnl — intende togliere il segreto sulle intercettazioni telefoniche che riguardano molti politici, compresi i vertici del Botteghino: da Fassino a D'Alema a Latorre.

Sposetti non c'è più quando Mastella entra nel salottino della Finocchiaro. Il ministro della Giustizia scorge la maschera terrea del leader ds, ma è solo Calvi a parlare. Nel mirino dell'avvocato c'è la Forleo: «Lei non può mettere le intercettazioni a disposizione, senza aver ottenuta una preventiva autorizzazione dalle Camere. Questa è una grave lesione delle prerogative parlamentari». Il Guardasigilli ascolta, poi vede che gli sguardi si concentrano tutti su di lui, e ne intuisce il motivo. «Sia chiaro — dice Mastella — che non muoverò un dito finché non verrò investito dai vertici istituzionali della faccenda. Allora, solo allora, eserciterò i miei poteri di ministro della Giustizia per verificare cosa sta accadendo a Milano». Arriva Latorre, il vice capogruppo dell'Ulivo al Senato chiede di appartarsi con Fassino, e Mastella si congeda: «Siamo intesi. Aspetto che intervengano i presidenti delle Camere, non mi metto a fare ispezioni».

Il leader della Quercia assicura che sarà così. Il comunicato congiunto di Marini e Bertinotti verrà diramato a tarda ora, ponendo fine alla giornata particolare dei Ds. È chiara la priorità della Quercia, preoccupata dalla mossa del gip di Milano sulle intercettazioni, più che dal dossier sul presunto conto segreto di D'Alema in Brasile. Ma ciò che mette davvero in allarme il Botteghino è l'offensiva dietro cui intravvede una manovra politica contro il ministro degli Esteri. Da quale parte venga l'attacco lo spiega Cossiga, che racconta di aver «parlato con i Ds»: «Tranne quel comunicato striminzito della Margherita, non è uscita una sola parola di solidarietà verso D'Alema. Perciò i diessini sono furibondi. Solo che non possono protestare. E contro chi? Potrebbero mai protestare contro Prodi, Rutelli e Parisi? Potrebbero mai protestare contro la magistratura che negli anni di Mani Pulite aveva "sempre ragione"? È evidente chi ha montato la campagna contro D'Alema, perché sanno che lui è l'unico a poter dialogare con l'altra parte».

La parole dell'ex capo dello Stato s'incrociano con le voci secondo cui sarebbe dovuto intervenire Fassino per ottenere da Rutelli un comunicato di solidarietà. Ed è un fatto che per tutto il giorno Prodi non abbia rivolto attestati pubblici di vicinanza a D'Alema. Paradossalmente più sincero e solidale è sembrato Berlusconi, che — commentando con i suoi la vicenda — ha detto: «Un conto è la scontro politico, altra cosa sono i veleni, i dossier, il killeraggio. Io l'ho vissuto sulla mia pelle e non lo auguro a nessuno». C'è nei Ds e in principal luogo nei dalemiani quel sospetto che Buttiglione arriva a denunciare nell'Aula del Senato, durante il dibattito sul caso Visco: «Stia attento D'Alema, perché questa è una manovra che viene dall'interno del Pd, per rendere più forti i prodiani e più debole la Quercia». Ed è lunga la lista degli oppositori che solidarizzano con il titolare della Farnesina, puntando l'indice su palazzo Chigi: «Siccome D'Alema è il più bravo — spiega il forzista Dell'Utri — siccome è l'unico con cui si possa dialogare, l'unico che potrebbe aiutare a risolvere i problemi del Paese, viene tenuto sotto stress. L'attacco è portato dai suoi alleati. Lo dico perché lo so per certo».

Latorre si limita a raccogliere il gesto dell'opposizione, ma non si avventura a condividerne le spiegazioni: «È chiaro che l'offensiva fatta di veleni contro i Ds, produce un ulteriore indebolimento del quadro politico- istituzionale, che rischia di far collassare il sistema. Perciò tutti — ed è qui che lascia trasparire il fastidio — ripeto tutti, si devono far carico del problema». Ma mentre il braccio destro di D'Alema calibra le parole, l'ala della Quercia vicina al ministro degli Esteri ribolle. «Arriva il fango e provano a farci fuori così», sussurra il potentissimo deputato siciliano Crisafulli: «Utilizzano falsi dossier e le intercettazioni inutili, dove c'è qualche battuta e qualche malaparola ma niente di più. Il fatto è che questa situazione politica non possiamo reggerla a lungo. Magari un paio di mesi, non oltre. C'è chi parla già di un governo con pochi ministri, con Prodi o senza Prodi non si sa. No, non c'è Berlusconi dietro questa manovra. C'è chi vale più di lui e di tutti i suoi alleati messi insieme: c'è la Chiesa che si è rotta con 'sta storia dei Dico; gli ex dei servizi che vogliono farcela pagare; gli americani che sono stanchi di dover scendere a patti. Eppoi c'è quella testa... lucida di Visco, che ha dato un alibi a Speciale per fare la parte della vittima, mentre bisognerebbe ripulire quel covo che è la Guardia di Finanza. Il bello è che tutto viene messo in conto a D'Alema invece che a Prodi».

Crucianelli, che alla Farnesina lavora gomito a gomito con il ministro degli Esteri, spiega che «c'è un clima devastante, con il rischio che l'Italia precipiti in uno stato da Paese dell'Est. E qui, se arriva la valanga, travolge tutti. Chiaro?». Il messaggio è rivolto certo al Cavaliere, ma c'è da scommetterci che fa fischiare le orecchie al Professore. D'altronde, Pisanu lo ricorda bene cosa accadde alla Dc, «me li ricordo i tempi in cui qualcuno nel partito pensava di potersi salvare gettando in mare qualcun altro. Alla fine non si salvò nessuno. Perciò va salvaguardata la politica». Ma oggi come allora manca per ora nella maggioranza un sussulto garantista, e i sospetti reciproci tra Prodi e D'Alema di manovre avverse, offrono un'immagine da ultimi giorni di Pompei. Caldarola — che di «Massimo» resta «amico, specie in giorni come questi» — dice che «per fermare la deriva del '92 servirebbe uno spirito garantista. Bisogna però ridare autorevolezza alla politica, e l'unico modo è che maggioranza e opposizione agiscano all'unisono. L'unica via d'uscita è un governo di larghe intese. Il centrosinistra ormai è finito».

Francesco Verderami
07 giugno 2007
 
da corriere.it
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« Risposta #20 inserito:: Agosto 02, 2007, 11:20:41 pm »

La replica delle Regioni alla denuncia di Gian Antonio Stella

Sprechi e rimborsi, i politici si dividono Il governatore toscano Martini al giornalista: «Alcuni paragoni inattendibili».

Gariglio, Piemonte: «Ognuno si è fatto le sue leggi» 
 

MILANO - Stipendi d’oro o retribuzioni tutto sommato ordinarie. Il mestiere di consigliere può rendere parecchio o molto poco. A seconda della Regione di appartenenza. Così, come evidenziato dall’articolo di Gian Antonio Stella sul Corriere, il presidente del consiglio regionale pugliese guadagna quasi il triplo del suo omologo umbro. Mentre un consigliere marchigiano può contare su un pacchetto di diarie e rimborsi - esentasse - tre volte più basso d'un pari grado piemontese. Ma perché queste difformità? Perché esistono Regioni virtuose che tengono i costi sotto controllo e altre meno attente e scrupolose?

AUTONOMIA - «In teoria - spiega Davide Gariglio, presidente del Consiglio regionale del Piemonte - le difformità esistono perché esiste un'autonomia prevista dalla Costituzione e ogni Regione si è fatta le proprie leggi in materia. L'importante è che i dati sulle retribuzioni dei consiglieri e dei presidenti siano stati resi pubblici: finora solo il Piemonte l'aveva fatto». Fino a quando la Conferenza dei consigli regionali, nei giorni scorsi, non ha optato per la trasparenza, pubblicando i dati sul sito www.parlamentiregionali.it. «Le differenze tra le regioni sono evidenti, anche se sotto la voce "stipendio massimo” è una cifra puramente teorica, relativa alla retribuzione un consigliere che abita nel luogo più lontano, viaggia ogni giorno e svolge attività istituzionale che comporta il massimo dei rimborsi. E comunque ritengo che i cittadini abbiano tutto il diritto di conoscere queste cifre perché ognuno possa giudicare…». Come dire che la pubblicità e la trasparenza può convincere i meno virtuosi a fare un passo indietro. «Ogni consiglio regionale prenderà le decisioni che vuole prendere. Noi in Piemonte abbiamo avviato da tempo un processo di contentimento della spesa. E presto pubblicheremo anche i dati sulle consulenze e poltrone nei consigli delle società partecipate», compresi i gettoni di presenza e gli emolumenti.
 
MARTINI - E proprio questo genere di autonomia è quella che rivendica anche il presidente della Regione Toscana, Claudio Martini. Perchè se è vero che essa «non deve essere usata per creare discrepanze dalle Regioni» è anche vero, dichiara Martini, che «in molte Regioni le iniziative per ridurre i costi sono già in essere, sono da tempo state assunte. Come presidente - spiega Martini - ho presentato un piano di riorganizzazione della macchina regionale che prevede, già dal prossimo autunno, il taglio di trenta enti». Ma dal governatore della Toscana arriva anche un affondo sulle valutazioni fatte da Stella sul Corriere. «Alcune sono inattendibili - dice Martini -. E spiega: si mette in croce ad la Valle d’Aosta sul rapporto abitante consigliere. Ma è normale la Valle d’Aosta è piccolissima».

DISPARITA' - Alle critiche di Martini si aggiunge la «sorpresa» del presidente del Consiglio regionale della Toscana, Riccardo Nencini per il tenore di alcune indennità. Facciamo dei nomi? «Per esempio Puglia, Abruzzo Val d'Aosta - spiega Nencini - sinceramente non mi aspettavo certi valori». Ma come si possono livellare - possibilmente verso il basso - i costi della politica nei parlamentini delle Regioni? «Abbiamo già fatto una proposta - dice Nencini - parametrare tutte le indennità e retribuzioni sulla Regione che adotta i parametri più bassi: ovvero la Toscana». Senza diarie, rimborsi spese e sprechi che gonfiano i costi della politica regionale. «Abbiamo calcolato che si risparmierebbero tra 30 e 40 milioni di euro all'anno. E - puntualizza il presidente - daremmo anche un bellissimo segnale al Paese». Perché queste difformità? Ci sono due ragioni – spiega Nencini - La prima è che nel 1970, quando le Regioni nacquero, tutti i consigli regionali si diedero un parametro comune per l’indennità da consigliere regionale, che era il 65% di quella parlamentare. Poi, nel tempo, molte Regioni lo hanno modificato, alzandolo. Alcune addirittura sono arrivate al 100%. Un’altra ragione sono i benefit collaterali: alcune ne hanno moltissime, altri di meno.

SARDEGNA - La Sardegna, in base ai dati forniti dalla Conferenza dei consigli regionali, si gode il bilancio più alto. Ma il presidente del consiglio sardo Giacomo Spissu mette in chiaro che la cifra record (quasi 95 milioni di euro, ndr) è la diretta conseguenza della «lunga vita » della Regione. «Il bilancio - dice Spissu - è quello di una Regione a statuto speciale dal 1948, che ha quindi una vita, un numero di dipendenti e di consiglieri che portano nel bilancio costi non paragonabili a quelli di Regioni nate trent'anni fa. Va male - prosegue ironico - sommare le mele con le pere».

VIRTUOSI - L’Umbria contende alla Toscana la palma di Regione più virtuosa, almeno in termini di indennità attribuita ai consiglieri regionali: «Non ci sono né gettoni né benefit oltre all’indennità – spiega Mauro Tippolotti, presidente del consiglio regionale dell’Umbria – Anzi chi è assente ingiustificato dai lavori istituzionali vede calare l’indennità, che in Umbria abbiamo commisurato a un ventesimo della retribuzione dei magistrati di Cassazione». Ma la riduzione dei costi della politica passa anche da altre misure: «Abbiamo già operato importanti razionalizzazioni nella struttura delle agenzie e della partecipate regionali».

SOCIETA' PARTECIPATE - «Ridurre gli emolumenti ai consiglieri regionali? Facciamo pure, ma allora riduciamo anche quelle dei parlamentari», alle cui retribuzioni gran parte delle indennità regionali sono commisurate. E' la proposta di Andrea Buquicchio, capogruppo del l'Italia dei Valori nel parlamentino del Piemonte. D'altra parte «anche le Regioni fanno leggi, e si lavora sodo». Ma Buquicchio resta scettico circa gli effetti della misura: «Non penso che lo sperpero si riduca in questo modo, è un po' demagogico». Più utile sarebbe intervenire sugli «apparati di sottogoverno», enti e società partecipate dal pubblico. «In Piemonte la holding regionale, la FinPiemonte, controlla 70-80 società, in ognuna di esse c’è una pletora di rappresentanti dei partiti - presidente, vice presidente e consiglieri - nelle società energetiche, dello smaltimento dei rifiuti, dell’acquedotto e via dicendo. E’ quello il livello, che non ha nulla a che vedere con la democrazia, dove si deve intervenire».

Cristina Argento
Paolo Ligammari

02 agosto 2007
 
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« Risposta #21 inserito:: Agosto 05, 2007, 11:24:45 pm »

Epifani: «Vogliono delegittimarci, ma reagiremo»

Oreste Pivetta


Caro Epifani, ci sentiamo accerchiati? La firma sotto il protocollo, le riserve a proposito del protocollo, Fassino che non comprende le riserve, la sinistra e i riformisti, i metalmeccanici e Bonanni.

Rifaccio la domanda, sfogliando l’ultimo numero dell’Espresso, quello con la copertina dedicata a Epifani, appunto, ad Angeletti e a Bonanni...

Accuse. Sotto il volto dei tre segretari il titolo è «L’altra casta». E ancora «Privilegi. Carriere. Stipendi. E fatturati da multinazionale. I conti in tasca ai sindacati». Nelle pagine interne, poi, un lungo elenco di malefatte, una somma di delitti sotto il segno del potere.

Che dire del titolo, “L’altra casta”. Senza dimenticare quello all’interno, “Così potenti, così arroganti”... Vi sentite percorsi da un brivido di indignazione?

«Sì, siamo indignati. Siamo indignati per un’operazione a freddo, senza argomenti, senza nessuna indagine, tra distorsioni intollerabili. Come se il proposito fosse: abbiamo fatto i conti con la politica, adesso tocca al sindacato. In un’altra intervista all’Unità, avevo accennato al rischio di un diciannovismo di ritorno... ».

Spieghiamo “diciannovismo”. Come novant’anni fa.

«Cioè, il tentativo di mettere alla gogna le istituzioni: prima si pensa alla politica e ai partiti, poi si passa al sindacato. Che senso vuole avere la sistemazione dentro una casta di sindacalisti e sindacati? Perché piegare a questo disegno la storia? Cito l’intollerabile dimenticanza che sta all’origine di quanto si scrive a proposito di patrimoni immobiliari. Una dimenticanza che rimuove la nostra storia e il fascismo, perché si cancella il fatto che il cosiddetto regalo delle sedi fasciste ai sindacati fu un risarcimento minimo di quanto i sindacati patirono dal punto di vista politico, umano e materiale nel ventennio. Vogliamo ricordare quante sedi sindacali vennero incendiate, devastate, distrutte? Occultare o dimenticare sono procedimenti che dovrebbero impensierire chiunque abbia coscienza democratica e quindi anche un settimanale come l’Espresso che nella costruzione di quella coscienza ha avuto sicuramente parte. Se tutto si rimuove, se tutto si azzera, si finisce con lo smarrire il senso di tante parole come “storia”, come “diritti”, come “solidarietà”... E naturalmente come “sinistra”... ».

Con argomenti che abbiamo letto e riletto sui fogli del centrodestra: i soldi dei Caf...

«Come se li avessimo cercati noi, i Caf, come se comunque non rappresentassero un servizio pubblico, utile a tanti. Un calderone inaccettabile, per concludere che il sindacato gode di un eccesso di potere. Se penso a questa accusa in rapporto al ruolo che abbiamo esercitato durante la complicata trattativa di questi mesi, devo dedurre che proprio questa forza espressa nel confronto con il governo e con le altre parti sociali si vuole colpire. Questa forza e questa autonomia... È evidente che qualcuno coltiva l’idea di una società semplificata, dentro la quale i poteri forti si contrappongono agli individui, senza più corpi di mezzo, senza più partiti o sindacati a mediare, fornendo alla affermazione del più forte sul più debole un modello tecnocratico, secondo un’ideologia liberista che riduce il mondo al mercato, spazzando via regole e rappresentanze, considerate un impiccio, un intralcio».

Se questa è la dimensione dello scontro, mi pare che la miopia non faccia difetto alla nostra sinistra, molto critica soprattutto dentro casa...

«C’è il vizio di cercare gli avversari tra i vicini, mentre probabilmente gli avversari stanno da un’altra parte. Ma in questo modo si smarrisce il senso di un’appartenenza e questo dovrebbe far riflettere la sinistra...»

Quando litigare diventa una malattia...

«Lo chiarisce Bersani...»

Quando sostiene che la parola sinistra non deve essere lasciata incustodita. È una raccomandazione che rivolge al nuovo Partito democratico...

«E a ragione. Sembra passare uno slogan: quello della contrapposizione tra sinistra riformista e sinistra radicale. Mentre dovrebbe finire in primo piano ciò che nella diversità delle posizioni comunque significa “sinistra”: e cioè solidarietà, senso della giustizia, difesa dei più deboli, concezione del lavoro. Valori, che mi auguro possano appartenere a un campo più vasto, ma che sono ancora il tratto della sinistra attraverso il quale ricostruire un linguaggio comune che sia libero da chiusure, schematismi, ideologismi. Ne dovrebbero discendere programmi e scelte, che, al di là delle articolazioni, riconducono a questo linguaggio. Dovrebbe valere anche per il futuro Pd».

Speriamo. Veniamo al presente del protocollo e della firma. Firma con riserve. Fassino ha detto di non capire. Non c’è il rischio che siano in molti a non capire, di fronte a un accordo giudicato comunque “buono”?

«Prima viene il dispiacere perché con poco sforzo si sarebbe potuto garantire un profilo riformatore più alto... Se penso a quei quattro punti che abbiamo indicato... Lo staff leasing: c’era l’impegno del governo a cancellarlo. La previdenza agricola: un progetto pronto è stato accantonato. Il lavoro a tempo determinato: si deve capire che bisogna affrontare il problema del “termine”, altrimenti si apre la strada a tutti gli abusi... Sono obiettivi importanti, ma non sono una montagna insuperabile per il governo. Spero che una risposta serena alle nostre domande comunque arrivi e mi pare che la discussione nel corso del consiglio dei ministri sia stata interessante, dal nostro punto di vista».

Queste le critiche. Anche la decontribuzione degli straordinari. Poi viene il buono... Sulle pensioni siamo tutti sensibili.

«Guai a sminuire il valore di questa intesa. L’aumento delle pensioni, l’aggancio al costo della vita... Cose note. Soprattutto bisogna ricordare che è il primo accordo che pensa ai giovani, dal riscatto della laurea alla misura dei coefficienti di rivalutazione. Per questo mi chiedo perché rinunciare a un passo avanti sui contratti a termine. Per questo, per tutte queste buone cose, malgrado le critiche, abbiamo firmato, assumendoci una responsabilità di fronte ai nostri iscritti, ai lavoratori, al paese. Come non hanno fatto tante altre grandi associazioni di interessi... Il sindacato ha cercato la difesa di un interesse collettivo, che riguarda il paese nella sua complessità, con un’attenzione che dovrebbe essere di tutti. Il senso della concertazione dovrebbe vivere in questa attenzione comune».

Che pensa allora del sì di Montezemolo, a condizione che non si tocchi nulla?

«Mi fa piacere, anche se non capisco il vincolo della immodificabilità. È assurdo pensare che non si possa più toccar nulla... Anche nel merito di questioni molto particolari. Ad esempio: non capisco perché Confindustria debba difendere lo staff leasing, non capisco perché non debba mirare ad una soluzione legislativa per il lavoro a termine, argomento che si ritroverà di fronte ad ogni discussione contrattuale, perché si capisce che non accetteremo mai situazione in cui il contratto a termine non torni alla sostanza chiara di contratto a termine».

Con la firma e con le riserve, andrete a chiedere il voto di lavoratori e pensionati...

«Il voto di tutti, insieme con Cisl e Uil. Vogliamo che la consultazione sia un momento di grande democrazia, di partecipazione, di coinvolgimento, perché non chiediamo soltanto un voto. Chiediamo di parlare e di spiegare, ma anche di ascoltare: vogliamo ascoltare le ragioni del malessere...».

Ma la Cisl si vorrebbe rivolgere solo agli iscritti.

«Legittimo che chieda un voto per sé. Del resto si devono riconoscere sensibilità diverse. Noi, unitariamente, vorremmo qualche cosa di più di un semplice voto. E torno da capo. Torno agli attacchi rivolti ai sindacati, ai tentativi di delegittimazione. Ai quali si deve rispondere».

A ridar forza al sindacato sarà anche la battaglia d’autunno. Si parla di iniziative diffuse, di una manifestazione a Roma...

«Vogliamo riproporre il tema dei migranti. In Parlamento stazionano quattro disegni di legge. Tutti fermi, mentre mi pare che non si possa attendere di fronte a un fenomeno sempre più vistoso, sempre più presente nella realtà italiana. Poi ci sono i giovani, poi c’è il lavoro precario. Tante iniziative locali, una grande iniziativa unitaria, la manifestazione... Queste sono le mie proposte».

Leggendo i giornali, al di là della “casta”, si scoprono contrasti dentro la Cgil, trame tra un sindacato e l’altro. Immagine non proprio di solidarietà.

«Ogni qualvolta la politica è scossa da un terremoto, anche il sindacato ne risente. Ma è sbagliato raccontare la discussione all’interno dei sindacati e della Cgil come fosse una trasposizione banale della discussione politica. La Cgil ha dentro di sé una forte convinzione della propria autonomia».

Ma della divisione tra cosiddetta “sinistra” e “riformisti” sapete qualche cosa anche voi.

«Ricordiamo che c’è stato un voto e che non è stato unanime. Una parte del direttivo ha votato contro. Rinaldini si è astenuto. Penso che questi compagni sbaglino, ma è legittimo sbagliare. La linea è però quella indicata dal voto».

Qualcuno, però, scrive che le parti si sono rovesciate: la Cgil in balia di questa insinuante e pervasiva sinistra, che pare il demonio e ha messo nell’angolo i riformisti. E rimpiange i tempi di Cofferati, quando le distinzioni erano nette.

«Mi sembra un’analisi profondamente sbagliata. che fa torto anche a Cofferati. Il pluralismo è un bene».

E comunque, si vedrà in autunno.

«Da una grande consultazione ci aspettiamo una grande legittimazione del sindacato, proprio quando il sindacato è sotto schiaffo. Recuperare una grande convalidazione democratica: questa è la sfida».

Pubblicato il: 05.08.07
Modificato il: 05.08.07 alle ore 9.08   
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« Risposta #22 inserito:: Agosto 07, 2007, 11:29:34 pm »

La congiura del silenzio
Alfredo Reichlin


I complicati patteggiamenti tra i gruppi dirigenti dei Ds e della Margherita volti a condizionare la composizione della futura Assemblea Costituente del Partito Democratico non mi piacciono ma non mi stupiscono più di tanto. Ciò che invece mi preoccupa, e molto, è altro. È il silenzio. La impressionante mancanza di un qualsiasi dibattito sulle idee, sulla sostanza del nuovo partito, sui suoi fondamentali. Eppure l’abbiamo avuta la prova che le idee contano e di queste c’è bisogno come il pane. Si è visto quale boccata d’ossigeno ha rappresentato il discorso di Veltroni al Lingotto.

È incredibile. Ciò a cui stiamo assistendo non è riducibile a un episodio, sia pure importante, della cronaca politica italiana. È un passaggio della storia repubblicana. E, aggiungerei, anche della storia di molti di noi come persone, di quelli almeno che la politica l’hanno vissuta come milizia e come passione. Proprio chi ha molto ragionato sulla necessità di questa scelta cruciale non può non sentire tutta la responsabilità che ci assumiamo. Io non so se la sinistra è sottorappresentata. So però che questo non è solo un problema di numeri. Ciò che è preoccupante è che non si stanno facendo i conti con qualcosa che non è riducibile a una lista di ecologisti o di ex gruppettari ma è una forza che è stata così importante non solo per il cammino che ha fatto compiere alle classi subalterne ma per il segno profondo impresso sulla vicenda della nazione: la difficile costruzione dell’Italia Repubblicana.

La forma partitica e la cultura politica che avevano caratterizzato questa sinistra si erano andate esaurendo? Penso di sì. E penso che ne dovevamo prendere atto. Ma ciò (per piacere, basta con i pentimenti) non per rassegnazione bensì per l’idea stessa storicista e laica che il meglio del Pci ci aveva insegnato: secondo cui un partito non è una categoria dello spirito e la sua identità è la sua funzione storica. Per cui il solo modo perché questa forza possa rivivere non come semplice nome ma come fattore politico culturale determinante è che resti al centro della lotta di oggi tra progresso e reazione. Questo è il punto. Non ridursi a una piccola fetta di nostalgici ma ricollocarsi in una formazione politica nuova, più capace di rappresentare l’Italia moderna e di tenere aperta la prospettiva riformista di governo, ben inteso il governo come ricambio della classe dirigente del Paese non dei titolari delle poltrone. Ecco perché mi colpiscono certi silenzi. Questa non è una pratica burocratica che si chiude, né una conta tra capi corrente. È un passaggio storico. E se io sento la necessità di salvaguardare ciò che si chiama sinistra non è per una qualche nostalgia del passato ma perché penso che proprio la novità e la grandezza delle sfide del presente ci spingono a ripensare il «che cosa sono» gli italiani per chiederci se ci sia in essi qualcosa che ci consente di guardare con più fiducia a un futuro così carico di interrogativi.

Ecco la necessità che sento di dare un contributo alla nascita del Partito Democratico con uno scritto più ampio di cui questo è solo un anticipo. Ma un contributo vero, non verticista, il contributo di chi cerca di ragionare su una nuova sintesi e non su una annessione. E perciò si chiede in che modo una sinistra nuova possa essere parte integrante del Partito Democratico. Lo è - io credo - per una ragione che non appartiene al passato ma al presente. Sono le «cose», le grandi cose che chiedono un soggetto politico nuovo una forza che non può essere moderata per la semplice ragione che la sua stessa esistenza dipende dalla capacità di compiere una «rivoluzione democratica». E ciò per un fatto essenziale. Perché il Paese non può più essere governato dall’alto e dal sistema politico e dal tipo di organizzazione della cosa pubblica ereditato dalla Prima Repubblica. Questo è il punto a cui siamo arrivati, il solo modo di evitare una risposta autoritaria è affrontare il fatto dominante (che poi è il problema posto da Veltroni) che consiste nella circostanza che il Paese si sta disarticolando. E ciò, sia nel senso che la distanza tra Nord e Sud sta diventando abissale, sia nel senso che il capitale sociale fisico ed umano si sta impoverendo. Sembriamo ricchi perché una società di vecchi ha difeso corporativismi, rendite e privilegi ponendo sulle spalle delle nuove generazioni il pagamento di un debito immenso (il secondo del mondo) che si è accumulato senza costruire scuole, laboratori scientifici, servizi moderni, ferrovie, interventi per salvaguardare l’ambiente, la cultura, la bellezza del Paese.

Prevedere il futuro dell’Italia non è semplice. Ma le cifre e i dati obiettivi sono impietosi. L’Italia negli ultimi anni è scivolata da un livello del reddito per persona superiore del 10% a quello europeo a un livello che è già caduto sotto quella media. Non ce ne siamo accorti ma è impressionante come ci siamo impoveriti. La Spagna sta per superarci. La Francia, l’Inghilterra e la Germania si allontanano sempre più da noi. Non basta quindi la ripresa in atto. La nostra crescita è infatti del 2% ma la loro è del 2,5%. Per riagganciarli dovremmo produrre il 3% e questo per la bellezza di almeno 20 anni consecutivi se volessimo tornare allo standard di 10 anni fa quando marciavamo in testa. Questa è la dimensione del problema. L’alternativa è scivolare in una condizione di esclusione dai grandi circuiti dello sviluppo moderno, condannando i nostri figli a non contare niente. Oppure per i migliori (come già avviene) a crescere e studiare all’estero, a cercare di affermarsi altrove. Come nel Seicento.

Il fatto davvero drammatico è che la politica (in concreto questa architettura della politica, la cultura di fondo del ceto politico, gli strumenti e i linguaggi con cui comunica con la gente, il modo di essere dei partiti) non è in grado di riorganizzare le forze del Paese e di guidarle nel futuro. Per tante ragioni ma essenzialmente niente affatto per quelle che continuano ad alimentare le nostre dispute (perché ci siamo spostati troppo a destra oppure troppo a sinistra oppure perché non parliamo al centro). La verità, mi sembra, è che la politica dovrebbe collocarsi altrove: là dove sia possibile rappresentare i nuovi bisogni e i nuovi diritti della gente cessando di essere come ora un sottosistema provinciale di una economia globalizzata.

Si dirà che non è realistico porre tematiche di questo genere nel dibattito sul nuovo partito, io penso il contrario. A me non sembra realistico che un partito possa nascere senza aprire un dibattito sulla necessità di un nuovo pensiero il quale comincia a rispondere a quel vasto mondo soprattutto giovanile al quale non interessa tanto difendere un grande passato quanto ritrovare la ragione stessa per cui ci si schiera a sinistra, che dopotutto è quella di credere che è possibile e giusto lottare per un mondo migliore.

Il Partito Democratico deve quindi essere, direi che è costretto ad essere (pena l’irrilevanza) un partito nuovo. Dice Scoppola: una realtà diversa. E perché diversa? Perché si pone problemi, affronta sfide così diverse da quelle su cui si modellarono e si combatterono tra loro le grandi forze politiche del passato così da motivare le ragioni di un nuovo riformismo e di un nuovo processo unitario. Di questo stiamo parlando. Di una svolta rispetto alla vecchia storia, non di rimettere insieme i cocci di ciò che resta del Pci e della Dc.

Pubblicato il: 07.08.07
Modificato il: 07.08.07 alle ore 10.13   
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« Risposta #23 inserito:: Agosto 09, 2007, 05:03:13 pm »

«Mi serve per le donne»

Di Pietro e l’inglese maccheronico «Se mi danno dell'ignorante mica mi offendo.

In vacanza non ho portato libri»   


ROMA — «To break the eggs in the basket». «Chi parla con il pizzo fa lo sputo storto». Scalfarotto lo punzecchia con l’inglese, «rompendo le uova nel paniere» al sito bilingue del ministro, lui risponde con un proverbio in molisano, qui riprodotto in un tentativo di traduzione. Non è facile stare dietro ai sintagmi e alle articolazioni linguistiche di Tonino Di Pietro, soprattutto ora che è tornato per le vacanze nella sua terra, a Montenero di Bisaccia, e si abbevera alla lingua madre. Il telefonino squilla a vuoto per ore e del resto non dev’essere facile sentirlo, stando appollaiati su un trattore. «È stata una giornata importante oggi, sono riuscito a falciar via le cannucce infestanti». Cannucce? «Sì, quelle piccole canne, le pianticelle invasive che si attaccano al terreno, finiscono nei fossi e fregano la terra al contadino. Oggi sono in piedi dalle sei, ma sono soddisfatto. Anche se ho fatto il furbo: mio padre lavorava di roncola, io me ne sono stato comodo sul trattore».

Inutile dire che le critiche all’inglese maccheronico non sono arrivate fino a qui. Ivan Scalfarotto ha collezionato alcune perle: it doesn’t exist (non esiste), to reflect (riflettere) e, appunto, to break the eggs in the basket (rompere le uova nel paniere). I blog ci si sono divertiti, come già fece Massimo Mantellini (manteblog) che tradusse il celebre «che c’azzecca» con «what is the connection with». Qualcuno, per spiegare gli errori, ha ipotizzato l’uso di un traduttore automatico, ma Di Pietro nega: «Ma no, è una ragazza del mio staff che se ne occupa». Il ministro confessa di non avere grande dimestichezza con l’inglese: «A mio tempo ho imparato qualcosa, il necessario: per parlare, viaggiare e ammiccare alle ragazze». Come si ammicchi in inglese non è facile da intuire, ma Di Pietro è così e la sua forza è anche nel dipietrese, impasto linguistico di nuovissimo conio.

Qualcuno sospetta che con i «che c’azzecca» e i «mannaggia a san Pucicchio» lui ci marci un po’: «E ci marciassero pure gli altri se ne sono capaci» ribatte. Tutta questa smania di coglierlo in fallo non fa che stimolare nuove arditezze linguistiche: «Questi Scalfarotti non hanno altro a cui pensare? È gente supponente, arrogante, convinta di sapere tutto, che parla in questo italiano fluido, perfetto, con un intersecarsi di belle frasi. Che dici bravo, ma poi ti fermi e pensi: emo’, che ha detto?». Lui invece no, lui parla chiaro: «Non sarà un italiano perfetto, ma si capisce. Io mi spiego con il ceppetto». Ecco. «Il piccolo ceppo, la parte finale della quercia, netta, chiara». C’è un metodo, anche: «Quando mi trovo davanti un concetto, utilizzo sempre la stessa tecnica: dico esattamente il fatto, senza interlocuzioni». Non come i «saccentoni», e qui si torna al proverbio molisano, che «parlano con la punta della lingua, tra i denti, fanno il muso a pizzo e poi gli esce fuori uno sputo storto.

Provi lei a parlare così e se ne accorge. E’ gente che alla fine della giornata deve riempirsi d’aria, sennò non sente nessun suono». Nell’universo linguistico di Di Pietro c’è spazio per il dialetto—«lo parlo ancora con i miei» — e per il latinorum: «Me ne hanno riempito la testa, in seminario. Ma è utile, eh. Senta qui: mater certa est pater numquam. Vallo a spiegare in italiano». Ma c’è spazio anche per qualche neologismo: «Ogni tanto le parole le invento, mi diverto pure». Le accuse di ignoranza non lo infastidiscono: «Ma no, ci scherzo sopra, solo chi è davvero ignorante si offende».

Del resto, ha molto sgobbato nella vita: «Non ho avuto tempo e modo di imparare tutto. Ho fatto il perito industriale, metà serale e metà no, ero in Germania. Poi mi sono iscritto all’università a 25 anni, con un figlio di tre anni. Ho cercato di recuperare, ma più di così non potevo fare». Però, invece di «sputare storto», Di Pietro ascolta e impara: «Sono una spugna, assorbo tutto. Come i giapponesi. Sono straordinari. Si sono messi a studiare le Fiat, le Bmw, e guarda cosa ti hanno combinato». Quanto ai libri, non è che abbia molta familiarità: «L’ultimo che ho letto? Mi faccia pensare...ah ecco, La casta di Rizzo e Stella. Un libro che fa riflettere». E quest’estate? Prodi si è portato Harry Potter eBertinotti il Capitale: «Mah, tutta questa gente che ha bisogno di acculturarsi leggendo tre paginette al giorno d’estate...non contesto eh...io mi sono portato una valigia piena di faldoni dal ministero. E poi, altro che Capitale: io ho conme la falce e ilmartello,ma quelli veri, per lavorare nei campi».

Alessandro Trocino
09 agosto 2007
 
da corriere.it
« Ultima modifica: Agosto 09, 2007, 05:04:45 pm da Arlecchino » Registrato
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« Risposta #24 inserito:: Settembre 01, 2007, 11:59:29 pm »

POLITICA

Intervista a Michela Brambilla, fondatrice dei Circoli della libertà

Ha depositato e ceduto a Berlusconi il marchio Pdl: "Tra un mese il primo meeting"

"Così ho vinto l'esame di Silvio e a ottobre rilancio la mia sfida"

di CONCITA DE GREGORIO

 

"NIENTE domande personali. Basta parlare della mia vita privata. Tanto si sa già tutto e poi a chi interessa?".

Basta con le calze autoreggenti, sì. Domande politiche. Michela Vittoria Brambilla, da quattro anni presidente dei giovani di Confcommercio e da pochi giorni titolare del marchio "Partito della Libertà". Lei come ha conosciuto Berlusconi e quando?
"Molti anni fa lavoravo a Mediaset, allora si chiamava Videonews. Facevo la giornalista. L'ho incontrato per la prima volta nella sua veste di imprenditore tv. Conoscersi però è un'altra cosa. È successo molto tempo dopo, un anno fa scarso".

Berlusconi a Telese ha raccontato che lei è stata scelta per guidare i Circoli della libertà essendo risultata la migliore tra i candidati. Di che tipo di selezione si è trattato?
"Non la definirei una selezione. L'autunno scorso mi stavo occupando di una Finanziaria molto punitiva per la categoria che rappresento. Lei sa che questo governo ha escluso la Confcommercio dal tavolo della concertazione per un pregiudizio ideologico contro i commercianti. Sono diventata catalizzatore di un malcontento diffusissimo e radicato. Al meeting di Rimini Berlusconi aveva parlato per la prima volta della sua intuizione: i Circoli della libertà. Alla prima occasione l'ho avvicinato e gli ho detto: i Circoli esistono già nella realtà, basta dargli forma. Così mi sono offerta di costituire l'associazione nazionale per coordinarli. Oggi sono oltre cinquemila".

Gira voce che siano venti, invece. Chi li cerca non li trova.
"Se si riferisce all'articolo pubblicato da Diario le rispondo che mi fa molto piacere: ci attaccano perché ci temono. Entro l'anno avremo un circolo in ciascuno dei novemila comuni d'Italia. Ad ottobre faremo a Roma il meeting nazionale".

Quanti delegati?
"Ancora non posso essere precisa, ci stiamo lavorando".

C'è una struttura di vertice? Lei presidente. Poi?
"No, non è una organizzazione piramidale. Io sono il presidente nel senso che rispondo personalmente alle centinaia di mail quotidiane che mi arrivano da ogni genere di persona, giovani e anziani, elettori del centrodestra e delusi del centrosinistra. Coordino, tengo i contatti coi presidenti di circolo".

Che sono? Può dare qualche indicazione sulle persone?
"Ma sono nomi che non vi dicono niente: pensionati e studenti, imprenditori e lavoratori autonomi. Gente non famosa".

Disillusi dalla politica, voti da recuperare.
"Non è disamore per la politica. È disinganno per questa politica. Per le bugie di questo governo. L'antipolitica è figlia delle promesse non mantenute. Crescono le tasse, aumenta la spesa pubblica, peggiorano i servizi. Ecco che monta l'impotenza".

Berlusconi dice che lei è una "brava figlia". Dice che le darà un sottosegretariato all'Ambiente.
"Ci ho parlato poco fa. Non ha detto così, ha smentito. A me comunque non interessano le poltrone. Nella mia azienda ne ho di più solide di quelle che potrebbero offrirmi".

Al principio dicono tutti così, poi cambiano idea.
"Cambiare idea non è un delitto. Comunque io non considero il tema".

Ha detto che non s'interessava di politica, in un'intervista del 2004, e che aveva votato scheda bianca. E' stato Berlusconi a redimerla?
"Rettifico quell'intervista: non ho mai votato scheda bianca. Sono sempre stata vicina al centrodestra".

Cattolica?
"Sì"

Non è sposata col padre di suo figlio. E' favorevole ai Dico?
"Abbiamo detto niente vita privata".

Vorrei sapere cosa pensa dell'opportunità di regolare le unioni di fatto da politica, da cattolica e da persona che ne costituisce una.
"I diritti individuali sono già garantiti. L'unica cosa che i Dico avrebbero portato sarebbe stata la pensione di reversibilità per i conviventi, che d'altra parte il sistema pensionistico nazionale non sarebbe stato in grado di sostenere. I figli, il diritto alla visita in ospedale: tutto questo già c'è e quel che non c'è si può correggere caso per caso. Esistono le scritture private. Stiamo parlando di una questione che riguarda una minoranza del paese, non sono queste le priorità di un governo".

Che sono invece?
"Sicurezza, riduzione della spesa pubblica, politica fiscale"

Pensa che la legge sull'aborto, la 194, sia da cambiare?
"Non è materia da dare in pasto alle logiche di schieramento. E' un tema delicato, bisogna rispettare la libertà di coscienza".

Ma la legge è da cambiare o no?
"Riprendere in mano un testo datato ed approfondire i temi può essere positivo".

Come risolverebbe la crisi Alitalia?
"Bisognava fare un piano industriale e vendere un anno fa. Il rinvio ha fatto crollare il mercato azionario a danno dei poveretti che ci avevano investito e fatto aumentare i debiti inutilmente".

Come riformerebbe le pensioni?
"Non si può abolire lo scalone. E' una misura che il sistema non sostiene ed è inoltre a vantaggio dei soliti noti. Bisogna pensare alle nuove generazioni. Le revisioni dei coefficienti vanno a danno dei giovani".

Uomini e donne devono andare in pensione ad età diverse?
"In teoria no, ma nella pratica le condizioni di vita e lavoro di uomini e donne sono ancora molto diverse. Riparliamone quando la parità sul lavoro sarà effettiva".

Cioè tra parecchio. Oggi Forbes fornisce una classifica in cui Marina Berlusconi è la donna più potente d'Italia. Lei a che posto è?
"Non credo nella differenza di genere e mi fanno ridere le classifiche. S'immagini l'effetto che mi fa una graduatoria delle donne potenti".

Come si fa a non credere alla differenza di genere? Non è un dato di fatto?
"Intendo che non m'interessa sapere se una persona capace è uomo o donna. Se poi vogliamo proprio parlare di donne non sarò io a stupirmi che ce ne siano di competenti e preparate. A destra come a sinistra".

Lei disse che apprezzava Finocchiaro, Melandri e Prestigiacomo...
"Di donne preparate e capaci in politica ce ne sono moltissime".

Queste le apprezza?
"Non mi faccia fare elenchi di nomi".

Diciamone uno alla volta. Chi le piace al Governo? Emma Bonino?
"Ha una storia importante, è coerente. Ha dignità".

Melandri, Turco?
"Basta. Apprezzo Sarkozy che ha voluto al governo molte donne e giovani e che chiama a lavorare con lui gente di sinistra. Lo farei anch'io".

Se votasse alle primarie del Pd il 14 ottobre sceglierebbe Letta Bindi Veltroni o chi altro?
"Per fortuna non voto. Rispetto chi ha avuto la voglia di cimentarsi, tuttavia".

Intende dire cimentarsi in gara contro Veltroni?
"Ho letto giusto ieri La nuova stagione, il libretto sul programma di Veltroni. Berlusconi e Sarkozy dovrebbero fargli causa per plagio. Lo slogan è suggestivo, purtroppo c'è solo quello di suo. Chi vuol piacere a tutti finisce per non piacere a nessuno".

Non è il suo caso. Si dice che dentro Forza Italia il suo unico sostenitore sia Berlusconi.
"L'epoca dei sospetti e delle gelosie mi pare superata.
Accade sempre che si attivino diffidenze quando compare in scena qualcuno di nuovo. Io aspetto che siano i fatti a parlare e non serbo rancore".

Vediamo. Tremonti è stato un buon ministro?
"Non ha aumentato la spesa pubblica né le tasse, ha lasciato i conti in ordine. Di nuovo: sono fatti".

I numeri ballano molto, come lei sa, dipende dalla mano che li esibisce. Fini è un buon leader?
"Ancora nomi? Non ne faccio".

Scusi: Fini è il suo principale alleato, per il momento An è l'unico partito che sembra disposto a formare con voi il Partito delle Libertà. Bossi non entra, Casini non ci sta...
"Casini e Mastella inseguono un progetto che non ha nessun fondamento nella realtà, il partito moderato di centro è Forza Italia".

Si diceva di Fini. L'ha mai votato prima di aderire a Forza Italia?
"Non rispondo. Quel che ho fatto io in passato non importa. Conta che nei circoli i partiti della coalizione sono già fusi".

Cosa pensa del rapporto di Bossi con le armi?
"Ciascuno ha diritto di rappresentare come crede lo scontento che sente attorno a se. Mi creda, al Nord il livello di irritazione verso la politica fiscale è altissimo. La protesta non va sottovalutata".

Al contrario. Parliamo si inviti ad imbracciare il fucile.
"Intemperanze verbali. Il terrorismo politico è un'altra cosa".

(1 settembre 2007)

da repubblica.it
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« Risposta #25 inserito:: Settembre 05, 2007, 11:56:33 pm »

5/9/2007
 
Con questa sinistra meglio lasciar perdere
 
GIANNI VATTIMO
 

Non so se valga la pena, come ha suggerito qualcuno (Alberto Asor Rosa), dimettersi da intellettuale di sinistra a causa dei provvedimenti che alcune amministrazioni comunali, anche uliviste, hanno annunciato contro i lavavetri - questi lavoratori abusivi che sembrano costituire una delle più gravi minacce per la sicurezza collettiva nelle città. Non che la cosa non meriti attenzione; ma se c'era da dimettersi, le occasioni in questi ultimi mesi, da quando la sinistra è diventata «di governo» erano ben altre e anche più gravi. Più che di dimettersi, nei confronti di questo ultimo sussulto di tipo «law and order» della cosiddetta sinistra nostrana, vien voglia semplicemente di «lasciar perdere» o, evangelicamente, lasciare che i morti seppelliscano i loro morti, continuando l'epocale dibattito sulle elezioni primarie del non ancora nato partito democratico, o sulla presenza di ministri alla manifestazione del 20 (dicesi 20!) ottobre prossimo. E, a proposito di morti, per fortuna solo feriti, non varrebbe la pena dedicare un pensiero ai militari italiani feriti in Afghanistan in una delle varie «missioni di pace» in cui il governo ci ha impegnati? O ricordare che tra i temi della manifestazione (eventuale) del 20 ottobre non c'è solo il protocollo sul welfare, ma anche il problema della base Usa a Vicenza, i diritti civili (Dico, fecondazione assistita), e altre quisquilie che pure fanno parte del programma di governo?

Di lasciar perdere viene voglia perché il nostro dibattito politico, compresa questa ultima fiammata di legalitarismo - tolleranza zero, Firenze come la New York di Giuliani - mostra emblematicamente la povertà intellettuale (si può ancora dire?) a cui si è ridotta la retorica «riformista» della ex sinistra italiana. Certo che la sicurezza delle strade cittadine è un'esigenza sacrosanta, e del tutto bi-partisan; ma persino il riformista-capo, Romano Prodi, trova che ha poco senso partire dai lavavetri, ultima misera ruota di un carro che trasporta ben altre clamorose illegalità. Niente «benaltrismo», d'accordo; niente «ma la colpa è della società ingiusta in cui viviamo». Ma un pensierino anche a questo aspetto della faccenda, una sinistra non del tutto immemore della propria storia dovrebbe pur farlo. Si ammette da tutti che la legalità non può essere assicurata solo dalla presenza di un carabiniere a ogni angolo di strada, che è invece, anzitutto, una questione di educazione civica. Ma quale senso collettivo della legalità può sussistere in un Paese dove la giustizia penale e soprattutto civile non garantisce più niente, dove se violi una norma devi solo: a) usare i soldi illegalmente guadagnati per pagarti un grande avvocato che trascini la tua causa fino alla prescrizione; b) o comunque aspettare fino al prossimo condono che ti ridarà la tua verginità giuridica in attesa di una nuova violenza ? Il «riformismo» e la concretezza «bersaniana» dei nostri governanti hanno di sicuro le loro ragioni. Ma, come molti dicono, non scaldano i cuori. Nessuno è disposto a farsi in quattro per le liberalizzazioni bersaniane.

Alla indispensabile retorica politica che dovrebbe scaldare i cuori, la fu sinistra italiana sostituisce quest'altra retorica molto più vacua e ideologicamente neutra: la sicurezza, la famiglia, il valore della «vita», qualunque essa sia, anche con gravi handicap che una bioetica meno bigotta potrebbe aiutarci a evitare. Ma intanto persino i nostri «alleati» - Usa, Nato - ci prendono sempre meno sul serio, nonostante lo sforzo e i soldi che buttiamo nelle cosiddette missioni di pace. Se qualcuno dice che l'Italia non ha una politica non ha probabilmente tutti i torti. E il civismo è anzitutto un affare politico. Un paese dove non si discute di pace e di guerra (residui ideologici del passato!) ma solo di lavavetri e di (imminente) persecuzione legale di chi va a prostitute non ha, e non avrà per molto, cittadini amanti, o anche solo rispettosi, delle leggi.
 
da lastampa.it
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« Risposta #26 inserito:: Ottobre 02, 2007, 05:43:51 pm »

Il silenzio dopo Grillo

Giuseppe Tamburrano


Si sta esaurendo il fenomeno Grillo? Apparentemente sì: certo, se ne parla di meno. Io sarei però cauto nei giudizi. Dopo l’esplosione sui mass-media e nel dibattito politico era inevitabile che il polverone si posasse. Ma le cose non sono cambiate. Voglio dire che il successo del comico è dovuto al fatto che egli interpreta uno stato d’animo della pubblica opinione, è la spia di un forte malessere, è il sismografo di un moto tellurico della società italiana e può diventare un «detonatore», come egli si è definito. Perciò discutere di Grillo è discutere di tale malessere, dei suoi aspetti, delle cause, dei rimedi.

Vi è una forte protesta per le condizioni sociali in cui vivono vasti strati di ceto basso e medio. Vi è la rivolta contro gli sperperi e gli abusi della «casta» che è tanto più aspra a ragione dell’immobilismo dei partiti; vi è infine la critica dei cittadini del centro-sinistra per l’incapacità del governo, paralizzato dalle divisioni, di dare attuazione al suo programma.
Grillo ha drammatizzato e spettacolarizzato questa situazione rivelata dalle folle che lo acclamavano, ma anche dai sondaggi che rivelano lo scollamento tra opinione pubblica e partiti e spostamenti significativi nelle preferenze del voto a favore della destra e ancor più significativi aumenti delle propensioni all’astensione. Mi pare che anche questo giornale abbia colto il processo con i risultati del suo recente appello ai lettori.

Visto in questa luce il caso Grillo è cosa molto seria. Non per nulla il paragone con il primo fascismo ricorre sempre più spesso. Certo la storia non si ripete, e nessuno può prevedere il futuro; ma è certo che Grillo tornerà a fare il mestiere di comico se e quando la politica - e soprattutto quella di centro-sinistra - tornerà a fare il suo dovere. Altrimenti la protesta degli shows si consoliderà in iniziative politiche come le «liste civiche».
In proposito, mi sembra molto pericolosa l’alleanza tra demagogia e «legalità», tra Grillo che arringa le folle e Di Pietro che lo sponsorizza con il suo giustizialismo. I partiti presi di mira, e specie quelli di centro-sinistra che hanno la responsabilità del governo, debbono reagire e presto: il fattore tempo è importante allo scopo di evitare che la situazione si incancrenisca e la protesta esca fuori dei confini della democrazia.

Molta fiducia si nutre nel Partito democratico ed in particolare in Veltroni. Ma il modo col quale si costruisce il nuovo partito è ancora deludente: tuttora non si sa qual è il suo progetto, la sua identità. E non si sa nulla sulla sua struttura, la forma-partito: ad esempio, saranno ammesse le correnti? Leggo risposte negative di Bettini. E che, si torna al «centralismo democratico» del Pci? Ve la immaginate Rosy Bindi che non fa una corrente?
Le attese per la leadership di Veltroni sono grandi, ma il suo cammino è difficile e lungo. Sostiene il governo Prodi - e non potrebbe fare diversamente. Ma fin quando Prodi resta in sella la sua successione eventuale (può vincere il centro-destra!) si proietta nel tempo fino al 2011: e in questi anni il vuoto nel paese si può allargare. Farà in tempo Veltroni a riempirlo? E come? Oppure il tempo lungo esaurirà le attese «salvifiche» della sua leadership?

Veltroni sostiene che non si può tornare a votare con questa legge elettorale. Si capisce perché: con questa legge si va al voto con le attuali traballanti e paralizzanti alleanze e sicuramente vince Berlusconi. Ma come si cambia la legge? Tutti i tentativi di concordare un nuovo testo con l’opposizione sono andati a vuoto. Potrebbe farlo il centro-sinistra a maggioranza - come ha fatto la destra - ma nel centro-sinistra non vi è accordo su questo tema.
Insomma non si muove nulla, nemmeno un rimpasto per la riduzione dei ministeri. Ma questo irresponsabile immobilismi al vertice è un potente esplosivo nella società. Ed è questo il vero caso.

P.S. Veltroni insiste su un aspetto del Pd. Riporto la frase da l'Unità del 30 settembre ’07: «Quando mai è successo nella nostra storia... che un partito nascesse non per scissione, non dopo una spaccatura, ma per unione?... Il Pd nasce così!». Voglio correggere Veltroni non per pignoleria di storico, ma per scaramanzia: i socialisti e i socialdemocratici divisisi nel 1947 si sono riunificati nel 1966. Ma quell’unione è durata poco.

Pubblicato il: 02.10.07
Modificato il: 02.10.07 alle ore 8.17   
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« Risposta #27 inserito:: Ottobre 16, 2007, 11:49:53 pm »

L’audace colpo del blogger Adinolfi

Enzo Costa


E dunque l’importante - ancora oggi - è partecipare, alla faccia della variante «furbetti del quartierino», che recita «ma l’ideale è avere la maggioranza azionaria». Lo dimostrano i tre milioni quattrocentomila «e fischia» (come dice Fassino, non chiedetemi perché) che hanno osato fare politica mettendo una croce sulla scheda, invece di disfarla gridando vaffanculo a destra e a manca (con la destra che sotto sotto gradisce, così ci si sbarazza della manca). Lo dimostrano racconti e fotografie della più multietnica delle comunità: quella delle primarie, una spettacolare accozzaglia umana fatta di vip (scusate la parola) e immigrati, immigrati vip, banchieri e precari, atei praticanti e suore militanti, sedicenni e partigiani, operai e registi, milanisti e Moratti, cittadini politicamente impegnati e cittadini casualmente transitati nei pressi di un gazebo sprigionante l’irresistibile profumo della democrazia.

E lo dimostra - l’imperitura valenza del motto decoubertiniano - un’immagine emblematica, disponibile in versione fotografica e video: ritrae i candidati alle primarie a risultati proclamati, nella sede del partito di piazza Santi Apostoli. Sono lì, quattro dei cinque aspiranti alla segreteria (manca Gawronski, economista prestatosi alla campagna elettorale e forse appartatosi - al momento dello scatto e delle riprese - a calcolare i costi della competizione), più Romano Prodi. E sono lì, nel seguente ordine, da sinistra a destra (per chi guarda la scena, non per come la pensano politicamente): Letta, Bindi, Prodi, Veltroni, Adinolfi. Nella più classica delle pose teatral-unitarie: disposti a semicerchio, braccio teso a mezz’aria in avanti verso il centro, le mani una sull’altra a mo’ di «uno per tutti, tutti per uno».

Partecipazione palpitante, specie del quinto dei moschettieri democratici: si staglia su tutte le altre, e non solo fisicamente, la figura del valoroso Adinolfi. Eccolo, a suggellare in forma plastica il proprio far parte del collettivo vittorioso, forte del suo 0,1%, ma vicinissimo, spalla a spalla con Veltroni, accreditato di un appena più robusto 75,2. Prova vivente e tripudiante - per l’appunto - dell’importanza della partecipazione, che annulla le differenze. O meglio, le enfatizza alla rovescia: in quella scena di gruppo, il vero vincitore - per entusiasmo sprizzato dai pori - parrebbe lui, lo straripato blogger Mario, e non quello accanto, il misurato sindaco Walter. Impressione confermata ed accentuata dalle sequenze dei tiggì: sì, perché le immagini girate prima, durante e dopo quella messa in posa per gli obbiettivi, immortalano il blogger Mario che - impugnata con la mano sinistra una macchina o videocamera digitale - immortala fotografi e cameramen che lo immortalano con gli altri moschettieri progressisti, per poi passare ad immortalare (per la serie «io c’ero e gioivo») i quattro omologhi impegnati come lui ad inscenare quel quadretto dumasiano. Nel quale, non a caso, la mano suprema, che copre, domina e protegge le altre, è la sua. La manona del blogger Mario. Che è lì, insieme agli altri, ad esultare più degli altri, galvanizzato dai suoi tremila «e fischia» voti (è un calcolo a spanne, Gawronski mi correggerà). Simpatica e gradevole icona di una partecipazione virtuale, (anche) nel senso del web. Un paladino della rete, entusiasta e gentile. Se non dovesse gradire questo pezzo, sul suo blog - ci scommetto - al più mi indirizzerebbe un «Vaffanbagno!».

enzo@enzocosta.net

www.enzocosta.net



Pubblicato il: 16.10.07
Modificato il: 16.10.07 alle ore 12.58   
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